Musicheria. La rivista digitale di educazione al suono e alla musica

L’animazione musicale è ancora praticabile?

Rosi Granata

ORIZZONTI DELL’ANIMAZIONE MUSICALE Primo colloquio di animazione musicale Lecco 29/10/2005

Animazione musicale: un binomio ancora fantastico?

Una frase pronunciata da Maurizio Vitali, con cui riflettevo a proposito di questo mio intervento, qualche giorno fa – e che ringrazio – mi è sembrata cruciale. In sostanza, diceva Maurizio, ci stiamo chiedendo se l’animazione musicale è ancora praticabile, se è una carta da giocare per il prossimo decennio, se ha un futuro, per il nostro centro studi, ma anche fuori di qui. Quelle che vi propongo sono alcune riflessioni a questo riguardo, dal versante del lavoro socio-educativo nei servizi alla persona: servizi sociali, ma anche servizi socio sanitari, cioè quel territorio di confine tra sanità e assistenza in cui si incrociano esistenze profondamente segnate dalla non autosufficienza che l’invecchiare e il cronicizzarsi delle malattie portano con sè, dall’avvicinarsi del tempo ultimo della vita o dalla grave disabilità. Servizi che, insieme a quelli scolastici, si definiscono anche come luoghi e itinerari progettuali in cui l’animazione musicale può dare ragione di sé e riconoscersi, ridefinirsi, così come è avvenuto in molte esperienze realizzate nel corso degli anni dagli allievi e dalle allieve (ormai ex) della SAM. Proprio da qui vorrei attingere alcune indicazioni per rispondere alla domanda di Maurizio: l’animazione musicale ha un futuro, al nostro interno in primo luogo?
Bene, a me sembra – e mi fa piacere che anche Maurizio questa mattina si sia espresso in questo senso – che la nostra idea di animazione musicale non si regga più soltanto sulle riflessioni che il gruppo dei docenti della scuola ha prodotto nel tempo (do you remember il Documento base per l’avvio di una ricerca sull’animazione musicale dell’aprile 1998?), ma si sia arricchita, negli ultimi anni, di nuovi contenuti, costruiti attraverso percorsi di ricerca azione condotti da allieve e allievi della S.A.M che hanno declinato in forme talora inedite e sempre molto interessanti, talvolta sorprendenti, il nucleo originario di pensiero sull’animazione musicale. A questo proposito, vorrei rivedere insieme a voi qualche passaggio di alcuni degli elaborati presentati a documentazione dei tirocini realizzati per conseguire il diploma. La scelta di questi testi ovviamente non esclude gli altri: non potendo richiamarli tutti ho selezionato, fra i lavori più recenti, alcuni, rispetto ai quali avvertivo consonanza, per il contesto scelto o per il tipo di intervento. I paragrafi riportati nelle slides mi sono sembrati significativi, per i contenuti e anche per le forme che li esprimono. Una scelta del tutto arbitraria, dunque; non una ricerca ma poco più che un’intuizione: un assaggio da un menu molto più ampio e ricco. Una selezione che, però, mi ha costretta a pensare: se questa rilettura personale e un po’ casuale è riuscita a cogliere la ricchezza di elaborazione che tra poco esamineremo insieme, un’attività di ricerca sistematica negli elaborati progettuali dei diplomati e delle diplomate credo ci permetterebbe di rispondere in modo soddisfacente alla domanda di Maurizio e ne usciremmo molto più consapevoli dell’apporto alla costruzione di una cultura dell’animazione musicale che allieve e allievi offrono alla scuola con le loro esplorazioni, con questi itinerari di ricerca azione a cui sono vincolati dal tirocinio e dalla presentazione della “tesi”. Potrebbe offrirci materiali significativi per soddisfare l’istanza di fondo sostenuta dall’accusa nel processo, riconducibile all’esigenza di dare maggiore solidità al pensiero sull’animazione musicale. E ci aiuterebbe anche a rispondere all’invito di Carlo Delfrati a “mettere a frutto quel che avete fatto in dieci anni”. Penso che estendendo la ricerca anche ad attività svolte da coloro che non si sono diplomati potremmo avere altre conferme interessanti e sorprese piacevoli.

I testi raccolti nelle diapositive ci parlano dell’animazione musicale e cercano di definirla, di esprimerla: qualche volta con un linguaggio evocativo, elegante, anche poetico, altre volte descrivendo attività, o indicando le ragioni di una scelta. Rimandano a tematiche differenti, a snodi, problemi dell’animazione con la musica che si configurano come punti critici nel dibattito sull’animazione. A me è sembrato di ritrovare, sottostante, un nucleo di contenuti comuni, che ritornano e riecheggiano nelle molte declinazioni di un’animazione musicale costruita nell’interazione con soggetti molto diversi fra loro (bambini e ragazzi, anziani in strutture residenziali o persone con grave disabilità, in un caso un intero paese) e nelle differenti sensibilità degli autori e delle autrici degli interventi. E anche questo non è un elemento da dare per scontato: piuttosto mi sembra un’acquisizione di grande importanza per chi abbia a cuore lo sviluppo di una cultura dell’animazione musicale in cui il nostro stare insieme – come associazione e come scuola – possa fondare e mantenere un orizzonte di senso. (cfr. slides allegate)

Penso dunque che le risposte alla domanda di Maurizio, per quanto riguarda il futuro dell’animazione, camminino sulle gambe di coloro che questa scuola hanno frequentato e che hanno saputo intrecciare azione e rielaborazione dell’azione: una rielaborazione che, ci dicono i testi citati, non ricomprende solo le teorie, ma le emozioni, i vissuti, l’umanità di chi vive queste esperienze e sa farne tesoro per riqualificare la propria professionalità socio-educativa e musicale.

Un’altra ragione di futuro viene dalla ricerca-intervento pedagogico-musicale Nido sonoro, guidata da F. Delalande, nel merito della quale non entro per la complessità di un lavoro che – sono certa – avrà altre occasioni specifiche di approfondimento, ma che, oltre al valore scientifico ha un grande, grandissimo merito: aver coagulato nella ricerca un gruppo stabile di ex allieve e allievi della SAM che in questo percorso ri-definiscono il proprio sapere su un tema di grande rilievo, sviluppano nuove competenze educative e musicali e potranno poi formare altri e altre su questi temi.

Per quanto riguarda invece il “fuori” di noi: il sistema dei servizi sociali e socio sanitari. C’è futuro, lì? Esistono, oggi, e dove e come si esprimono, condizioni favorevoli per questa animazione musicale, sintonie, consonanze, riconoscimenti e, dunque, luoghi e percorsi di potenziale condivisione? O, piuttosto, lo scenario è totalmente altro, ormai, autoreferenziale ed escludente, tanto da farci sentire, con i nostri interventi, nel migliore dei casi somministratori di analgesici psico-affettivi di breve durata, nel peggiore perfettamente superflui ed umiliati dalla potenza della clinica o dal prevalere dei parametri dell’economia? Il comparto del sociale ci parla in termini problematici. Il Fondo nazionale per le politiche sociali da destinare agli enti locali, nonostante la mobilitazione di regioni e comuni, ha visto sancita in queste settimane una riduzione del 50% rispetto allo scorso anno. Vedremo come finirà il braccio di ferro in corso, all’interno del quale si è posta l’iniziativa nazionale sull’emergenza delle politiche sociali del 26.10, convocata dalla Conferenza delle regioni e delle province autonome. Non è decollato il fondo per la non autosufficienza, nonostante l’accordo in Parlamento perché un potente ministro ha vietato di “mettere le mani nelle tasche degli italiani”. Molti e molte hanno salutato con soddisfazione l’approvazione nel 2000 della legge di riforma dei servizi sociali (L.328/00), per poi scoprire nel 2001 che con la riforma del titolo V della Costituzione (stessa maggioranza di governo) questa legge rischiava di diventare inerte, sterile, perché la competenza legislativa in questa materia è passata alle Regioni. Eppure… se si guarda con attenzione, ci si accorge di una complessità che racchiude anche potenziali positivi. Molte regioni, infatti hanno fatto proprie le indicazioni di quella legge. La stessa Lombardia, nell’area dei servizi per i minori e nei processi di approvazione dei piani di zona dei servizi sociali ha assunto a riferimento i principi e i criteri della 328/00. E non è poco, in termini di conseguenze: significa avere spazi per praticare e sostenere forme di partecipazione delle persone e delle organizzazioni sociali alla programmazione e alla gestione dei servizi locali.

In questo caso, dunque, non sono tanto le norme a costituire rischio e ostacolo: piuttosto, vedo resistenze in una cultura, diffusa anche nel mondo della solidarietà organizzata e dell’impresa sociale – sempre più coinvolto nella sindrome da “isomorfismo istituzionale “ – che suggerisce di occupare il proprio spazio ai tavoli di confronto attivati dai comuni, senza battersi perché questo diritto-dovere della partecipazione si estenda, senza agire per costruire condizioni perché il processo di partecipazione riesca davvero ad arricchirsi del sapere quotidiano dei molti troppo spesso relegati al ruolo di utenti o di spettatori silenziosi, assenti da una scena che non può invece permettersi di ignorarli se intende parlare con serietà di efficacia e di appropriatezza del sistema dei servizi, se vuole davvero co-costruire, come prevede la 328, politiche sociali di comunità.

In ogni caso, già a questo primo livello (delle strategie di politica sociale che si fanno norme, vincoli, ma anche opportunità e risorse), troviamo contraddizioni che, si diceva molto tempo fa, possono essere praticate, spazi in cui risuonano parole che possiamo riconoscere in quanto animatori e animatrici e che ci parlano della possibilità di comunità dialoganti, di legami sociali possibili. E dipende anche dalla nostra azione, dal sistema di senso di cui siamo portatori e dalla competenza che abbiamo sviluppato saper riconoscere questi spazi e imparare a muoverci in essi, senza smarrire la passione che l’animazione musicale ci trasmette e che ci impegna a cercare di costruire prossimità e relazione ed espressione di sé, anche in questa modernità liquida, per usare l’espressione di Bauman, che non è però abitata soltanto da solitudini disorientate o da fragilità codificate e dismesse, spinte ai margini da una società in cui ciò che è stato superato non vale più nulla, come (peraltro giustamente) sostiene Cacciari a proposito degli anziani e del paradigma tecnico scientifico dominante. (1)

Occorre invece saper vedere, a partire dalla consapevolezza che solitudine, disorientamento e fragilità attraversano ciascuna e ciascuno di noi, anche quando ci muoviamo da protagonisti sulla scena dei servizi alla persona. E in questa scena è importante cogliere ciò che di potenziale e di positivo si coltiva da parte di coloro che vi operano, con fatica ma anche – ancora – con passione, misurandosi ogni giorno con i vincoli e le opportunità generati dalle norme e dalle decisioni dei policy makers.

Allora, rivolgere l’attenzione anche ad un secondo livello, quello dei modelli teorici e operativi assunti a riferimento nei servizi permette di scoprire che, nonostante tutto, esistono spazi, e occasioni, e potenzialità per una presenza dell’animazione musicale che si faccia dialogo, interazione, progetto condiviso con molte culture operative. Considererei qui in particolare i luoghi in cui prevale il sapere clinico, nei quali la direzione è affidata ai medici e agli specialisti della medicina: i servizi psichiatrici, quelli per le dipendenze, per gli anziani non autosufficienti e per i disabili gravi: i cosiddetti servizi socio sanitari, quelli che forse possono apparire più estranei al messaggio dell’animazione.

E allora: in psichiatria la tendenza prevalente è quella della farmacopsichiatria, “trainata dalle strutture conoscitive e metodologiche delle neuroscienze”, scrive Eugenio Borgna. Una psichiatria che identifica i fenomeni psichici in quelli fisici e che, nelle espressioni più radicali dell’orientamento biologistico afferma che “coscienza, libertà e responsabilità non sono se non nomi, antiquati e ambigui che indicano stati o processi, non decifrabili e spiegabili se non dalle scienze biofisiche”. (2) Ma è anche vero che altre culture, minoranze, certo, ma non per qualità, agiscono sulla scena dei servizi psichiatrici italiani. E testimoniano di una psichiatria che non rinuncia a confrontarsi con la vita interiore dei pazienti, capace di ascolto e di dialogo ermeneutico: e mi riferisco ovviamente all’orientamento fenomenologico. E ancora, è attiva una psichiatria che guarda alla normalità e alla follia non come a contrari che si escludono reciprocamente ma come “contrastanti che si corrispondono e che reciprocamente si mettono in risalto” E qui “La sofferenza dell’altro richiama la propria, curare l’altro significa anche curare me” (3). E infine, è proprio di queste ultime settimane la vicenda di “Matti in barca a vela”, una regata nel Mediterraneo collegata alla Vuitton’s Cup che ha coinvolto pazienti dei servizi psichiatrici di Trieste in un’impresa di reale partnership, in un “imbarcarsi insieme” nel quale i ruoli si sono appiattiti e scambiati e i pazienti hanno saputo prendersi cura di operatori e medici stroncati dal mal di mare. Oppure, guardiamo nei servizi per le dipendenze.

Qui, solo due cenni, ad indicare possibilità di sguardi e orizzonti che utilizzano parole e rinviano a significati che l’animazione musicale può intendere e rafforzare. Il primo cenno richiama le potenzialità dell’approccio psicosociale, nel quale è considerato elemento centrale l’ascolto riflessivo del soggetto, cuore del colloquio motivazionale, che pone al centro la scelta personale e la responsabilità di chi ha problemi di dipendenza nelle decisioni che riguardano gli obiettivi del trattamento e le strategie del cambiamento. E’ un approccio che sa anche riflettere “sull’incapacità del terapeuta di riconoscere nel paziente parti di valore” come elemento che può determinare “non tanto la difficoltà, quanto il fallimento della terapia”. (4)

Il secondo richiamo è all’orientamento (5) che affida la possibilità della cura al riconoscimento della sofferenza soggettiva e alla “valorizzazione del percorso di vita della persona tossicodipendente all’interno della storia complessiva della famiglia” e prova a costruire alternative a partire dalla comprensione dei significati che ciascuno ha attribuito alle dinamiche familiari. Apparentemente meno problematico il contesto dei servizi per la grave disabilità, ma qualche volta è, appunto, solo apparenza: non si può, per esempio, condividere l’enfasi sull’onnipotenza riabilitativa a cui fa da controcanto il vuoto dell’assistenzialismo come destino o l’abbandono della famiglia quando il sogno – o il delirio – terapeutico riabilitativo rivela la propria impotenza. Molte operatrici e operatori nei servizi territoriali e residenziali per disabili oppongono resistenza a questa logica che si accompagna, negli anni più recenti, alle pressioni di matrice aziendale connesse all’introduzione di dinamiche di mercato e di concorrenza nel sistema dei servizi alla persona. E realizzano cose splendide. Occorre, anche qui, saper riconoscere e realizzare un incontro con le culture che continuano ad interrogarsi sul “vero significato della sofferenza del disabile grave”, che considerano i risultati degli interventi in termini di “facilitazione dell’esistenza”, e offrono aiuto “nonostante la malattia, anzichè “contro la malattia” e considerano il ruolo di chi opera come un “accompagnamento verso tappe di autonomia esistenziale” più avanzate, e guardano alle tecniche come “strumenti dell’agire per uno scopo che è indipendente dalle istanze di guarigione e concerne obiettivi esistenziali” (6).

E infine, le residenze per anziani: ospiti sempre più compromessi nelle condizioni di salute e in età sempre più avanzata. Prevalenza dell’intervento sanitario, dunque. Eppure, anche qui, nei luoghi in cui la medicina che cura per la guarigione incontra quotidianamente la propria sconfitta e in cui la riabilitazione si riscopre efficace solo se capace di una comunicazione empatica che ha nel con-tatto il proprio canale e nella restituzione al soggetto di una percezione accettabile del proprio sé corporeo un fondamentale obiettivo, qui, dunque, si affacciano approcci diversi alla medicina. Mi riferisco alla medicina della complessità, che, a differenza della medicina dell’evidenza, incontra persone e non malati, si misura con problemi utilizzando approcci multidimensionali ed è consapevole dell’esigenza di risposte interdisciplinari; che sa relazionarsi con l’incertezza e l’impredittibilità dei percorsi di malattia cronico degenerativa e che si pone come obiettivo la qualità della vita anziché l’assenza di malattia (7). E mi riferisco anche alla medicina narrativa, come orientamento in cui si co-costruisce, in processi di narrazione che coinvolgono medico, paziente e contesto, significati del vissuto di malattia e del malessere in cui fondamentali sono la capacità del medico di sviluppare riconoscimento e dialogo, di valorizzare l’interazione e l’intenzionalità, di negoziare e mediare (8).

Non richiamo i modelli teorico-operativi diffusi nei servizi del comparto sociale e capaci di dialogare con l’animazione musicale, che sono materia del corso – ora seminario – di progettazione e valutazione all’interno della SAM. Mi sembra però che anche questo sguardo veloce e parziale sulle culture operative ci parli della possibilità di uno spazio per l’animazione musicale – nell’accezione a cui si rifanno gli elaborati degli allievi SAM – nell’universo dei servizi alla persona.

Concludo richiamando un tema che sta nuovamente appassionando gli operatori sociali e che è sotteso al mio intervento. L’etica: chi oggi agisce nel sistema dei servizi non può ignorare questa dimensione. La questione è stata posta nel 2001, nel primo numero della rivista Lavoro sociale da Bauman, alla ricerca delle ragioni più autentiche per la difesa dei sistemi di protezione sociale, in un breve saggio dal titolo “Sono forse io il custode di mio fratello?” Scriveva Bauman “…. Normalmente si misura la tenuta di un ponte a partire dalla solidità del suo pilastro più piccolo. La qualità umana di una società dovrebbe essere misurata a partire dalla qualità della vita dei più deboli tra i suoi membri. E poiché l’essenza di ogni morale è data dalla responsabilità nei confronti dell’umanità degli altri, questa è anche l’unità di misura degli standard morali di una società. E’ questo, a mio avviso, l’unico tipo di misura che un sistema di welfare si possa permettere, ma è anche l’unico di cui abbia davvero bisogno: E’ una misura che può non bastare a garantirgli il sostegno sociale dal quale dipende la sua sopravvivenza, ma è anche l’unico tipo di misura che parli, in modo perentorio e privo di ambiguità, a favore del welfare state.” (9).

Nel numero di Animazione sociale dello scorso luglio la questione etica è stata riproposta con un’intervista a Salvatore Natoli sulle radici antropologiche ed etiche del prendersi cura. Credo che anche per noi sia imprescindibile comprendere gli orizzonti etici che sottendono modelli, paradigmi, approcci teorici e operativi attivi nello scenario dei servizi e difendere il sistema di valori, gli orizzonti di senso che orientano l’agire professionale di chi fa animazione con la musica. E a questo riguardo vi lascio un pensiero espresso in una docenza a un recente corso di aggiornamento per operatori e operatrici dei servizi per anziani non autosufficienti da un geriatra, Carlo Vergani (10), che invitava a non smarrire e a dialettizzare tre orizzonti etici:

– l’etica della responsabilità, che ci aiuta ad agire nell’immediato

– l’etica del convincimento, che ci aiuta ad avere e mantenere una prospettiva

– l’etica del viandante, consapevoli che non abbiamo certezze, che ci muoviamo ricercando, non abbiamo mappe che definiscano rotte e non sappiamo prima come potremo muoverci….

NOTE

1) Massimo Cacciari, Una rivoluzione culturale per superare il paradigma tecnico-scientifico, in Paure e aspettative degli anziani nella società dell’incertezza, Mimosa, Milano 2005

2) Eugenio Borgna, Le intermittenze del cuore, Feltrinelli, Milano 2003, pag. 17 e pag. 20

3) Alessandra Bendini, La ferita di Chirone, in A. Bendini (a cura di), La ferita del centauro, I quaderni di Orzinuovi, nuova serie 1, Teda edizioni, 1993

4) Emanuele Bignamini, Antonella Bompard, Leopoldo Grosso, Gian Paolo Guelfi, Alfio Lucchini, Manuela Trogu (a cura di), Per un approccio psicosociale alle dipendenze, in Animazione sociale, n. 6-7/2004

5) Paolo Rigliano, Piaceri drogati. Psicopatologia del consumo di droghe, Feltrinelli, Milano, 2004 e Doppia diagnosi. Tra tossicodipendenza e psicopatologia, Cortina, Milano 2004

6) Milena Cannao, Giorgio Moretti, Il grave handicappato mentale, Armando, Roma, 1982

7) Carlo Vergani, Medicina della complessità e medicina narrativa, docenza al corso di formazione promosso dalla Provincia di Milano sul tema “Il P.A.I., una sfida ed una opportunità: da apprendere e da comprendere per progettare e per valutare – Milano 4.10.2005.

8) Vincenzo Masini, Medicina narrativa. Comunicazione empatica ed interazione dinamica nella relazione medico-paziente, FrancoAngeli, Milano 2005

9) Zygmunt Bauman, Sono forse io il custode di mio fratello? , in Lavoro sociale, n. 1/01, pagg. 7-17

10) Carlo Vergani, Medicina della complessità e medicina narrativa, docenza cit.

Bene, a me sembra – e mi fa piacere che anche Maurizio questa mattina si sia espresso in questo senso – che la nostra idea di animazione musicale non si regga più soltanto sulle riflessioni che il gruppo dei docenti della scuola ha prodotto nel tempo (do you remember il Documento base per l’avvio di una ricerca sull’animazione musicale dell’aprile 1998?), ma si sia arricchita, negli ultimi anni, di nuovi contenuti, costruiti attraverso percorsi di ricerca azione condotti da allieve e allievi della S.A.M che hanno declinato in forme talora inedite e sempre molto interessanti, talvolta sorprendenti, il nucleo originario di pensiero sull’animazione musicale. A questo proposito, vorrei rivedere insieme a voi qualche passaggio di alcuni degli elaborati presentati a documentazione dei tirocini realizzati per conseguire il diploma. La scelta di questi testi ovviamente non esclude gli altri: non potendo richiamarli tutti ho selezionato, fra i lavori più recenti, alcuni, rispetto ai quali avvertivo consonanza, per il contesto scelto o per il tipo di intervento. I paragrafi riportati nelle slides mi sono sembrati significativi, per i contenuti e anche per le forme che li esprimono. Una scelta del tutto arbitraria, dunque; non una ricerca ma poco più che un’intuizione: un assaggio da un menu molto più ampio e ricco. Una selezione che, però, mi ha costretta a pensare: se questa rilettura personale e un po’ casuale è riuscita a cogliere la ricchezza di elaborazione che tra poco esamineremo insieme, un’attività di ricerca sistematica negli elaborati progettuali dei diplomati e delle diplomate credo ci permetterebbe di rispondere in modo soddisfacente alla domanda di Maurizio e ne usciremmo molto più consapevoli dell’apporto alla costruzione di una cultura dell’animazione musicale che allieve e allievi offrono alla scuola con le loro esplorazioni, con questi itinerari di ricerca azione a cui sono vincolati dal tirocinio e dalla presentazione della “tesi”. Potrebbe offrirci materiali significativi per soddisfare l’istanza di fondo sostenuta dall’accusa nel processo, riconducibile all’esigenza di dare maggiore solidità al pensiero sull’animazione musicale. E ci aiuterebbe anche a rispondere all’invito di Carlo Delfrati a “mettere a frutto quel che avete fatto in dieci anni”. Penso che estendendo la ricerca anche ad attività svolte da coloro che non si sono diplomati potremmo avere altre conferme interessanti e sorprese piacevoli.

I testi raccolti nelle diapositive ci parlano dell’animazione musicale e cercano di definirla, di esprimerla: qualche volta con un linguaggio evocativo, elegante, anche poetico, altre volte descrivendo attività, o indicando le ragioni di una scelta. Rimandano a tematiche differenti, a snodi, problemi dell’animazione con la musica che si configurano come punti critici nel dibattito sull’animazione. A me è sembrato di ritrovare, sottostante, un nucleo di contenuti comuni, che ritornano e riecheggiano nelle molte declinazioni di un’animazione musicale costruita nell’interazione con soggetti molto diversi fra loro (bambini e ragazzi, anziani in strutture residenziali o persone con grave disabilità, in un caso un intero paese) e nelle differenti sensibilità degli autori e delle autrici degli interventi. E anche questo non è un elemento da dare per scontato: piuttosto mi sembra un’acquisizione di grande importanza per chi abbia a cuore lo sviluppo di una cultura dell’animazione musicale in cui il nostro stare insieme – come associazione e come scuola – possa fondare e mantenere un orizzonte di senso. (cfr. slides allegate)

Penso dunque che le risposte alla domanda di Maurizio, per quanto riguarda il futuro dell’animazione, camminino sulle gambe di coloro che questa scuola hanno frequentato e che hanno saputo intrecciare azione e rielaborazione dell’azione: una rielaborazione che, ci dicono i testi citati, non ricomprende solo le teorie, ma le emozioni, i vissuti, l’umanità di chi vive queste esperienze e sa farne tesoro per riqualificare la propria professionalità socio-educativa e musicale.

Un’altra ragione di futuro viene dalla ricerca-intervento pedagogico-musicale Nido sonoro, guidata da F. Delalande, nel merito della quale non entro per la complessità di un lavoro che – sono certa – avrà altre occasioni specifiche di approfondimento, ma che, oltre al valore scientifico ha un grande, grandissimo merito: aver coagulato nella ricerca un gruppo stabile di ex allieve e allievi della SAM che in questo percorso ri-definiscono il proprio sapere su un tema di grande rilievo, sviluppano nuove competenze educative e musicali e potranno poi formare altri e altre su questi temi.

Per quanto riguarda invece il “fuori” di noi: il sistema dei servizi sociali e socio sanitari. C’è futuro, lì? Esistono, oggi, e dove e come si esprimono, condizioni favorevoli per questa animazione musicale, sintonie, consonanze, riconoscimenti e, dunque, luoghi e percorsi di potenziale condivisione? O, piuttosto, lo scenario è totalmente altro, ormai, autoreferenziale ed escludente, tanto da farci sentire, con i nostri interventi, nel migliore dei casi somministratori di analgesici psico-affettivi di breve durata, nel peggiore perfettamente superflui ed umiliati dalla potenza della clinica o dal prevalere dei parametri dell’economia? Il comparto del sociale ci parla in termini problematici. Il Fondo nazionale per le politiche sociali da destinare agli enti locali, nonostante la mobilitazione di regioni e comuni, ha visto sancita in queste settimane una riduzione del 50% rispetto allo scorso anno. Vedremo come finirà il braccio di ferro in corso, all’interno del quale si è posta l’iniziativa nazionale sull’emergenza delle politiche sociali del 26.10, convocata dalla Conferenza delle regioni e delle province autonome. Non è decollato il fondo per la non autosufficienza, nonostante l’accordo in Parlamento perché un potente ministro ha vietato di “mettere le mani nelle tasche degli italiani”. Molti e molte hanno salutato con soddisfazione l’approvazione nel 2000 della legge di riforma dei servizi sociali (L.328/00), per poi scoprire nel 2001 che con la riforma del titolo V della Costituzione (stessa maggioranza di governo) questa legge rischiava di diventare inerte, sterile, perché la competenza legislativa in questa materia è passata alle Regioni. Eppure… se si guarda con attenzione, ci si accorge di una complessità che racchiude anche potenziali positivi. Molte regioni, infatti hanno fatto proprie le indicazioni di quella legge. La stessa Lombardia, nell’area dei servizi per i minori e nei processi di approvazione dei piani di zona dei servizi sociali ha assunto a riferimento i principi e i criteri della 328/00. E non è poco, in termini di conseguenze: significa avere spazi per praticare e sostenere forme di partecipazione delle persone e delle organizzazioni sociali alla programmazione e alla gestione dei servizi locali.

In questo caso, dunque, non sono tanto le norme a costituire rischio e ostacolo: piuttosto, vedo resistenze in una cultura, diffusa anche nel mondo della solidarietà organizzata e dell’impresa sociale – sempre più coinvolto nella sindrome da “isomorfismo istituzionale “ – che suggerisce di occupare il proprio spazio ai tavoli di confronto attivati dai comuni, senza battersi perché questo diritto-dovere della partecipazione si estenda, senza agire per costruire condizioni perché il processo di partecipazione riesca davvero ad arricchirsi del sapere quotidiano dei molti troppo spesso relegati al ruolo di utenti o di spettatori silenziosi, assenti da una scena che non può invece permettersi di ignorarli se intende parlare con serietà di efficacia e di appropriatezza del sistema dei servizi, se vuole davvero co-costruire, come prevede la 328, politiche sociali di comunità.

In ogni caso, già a questo primo livello (delle strategie di politica sociale che si fanno norme, vincoli, ma anche opportunità e risorse), troviamo contraddizioni che, si diceva molto tempo fa, possono essere praticate, spazi in cui risuonano parole che possiamo riconoscere in quanto animatori e animatrici e che ci parlano della possibilità di comunità dialoganti, di legami sociali possibili. E dipende anche dalla nostra azione, dal sistema di senso di cui siamo portatori e dalla competenza che abbiamo sviluppato saper riconoscere questi spazi e imparare a muoverci in essi, senza smarrire la passione che l’animazione musicale ci trasmette e che ci impegna a cercare di costruire prossimità e relazione ed espressione di sé, anche in questa modernità liquida, per usare l’espressione di Bauman, che non è però abitata soltanto da solitudini disorientate o da fragilità codificate e dismesse, spinte ai margini da una società in cui ciò che è stato superato non vale più nulla, come (peraltro giustamente) sostiene Cacciari a proposito degli anziani e del paradigma tecnico scientifico dominante. (1)

Occorre invece saper vedere, a partire dalla consapevolezza che solitudine, disorientamento e fragilità attraversano ciascuna e ciascuno di noi, anche quando ci muoviamo da protagonisti sulla scena dei servizi alla persona. E in questa scena è importante cogliere ciò che di potenziale e di positivo si coltiva da parte di coloro che vi operano, con fatica ma anche – ancora – con passione, misurandosi ogni giorno con i vincoli e le opportunità generati dalle norme e dalle decisioni dei policy makers.

Allora, rivolgere l’attenzione anche ad un secondo livello, quello dei modelli teorici e operativi assunti a riferimento nei servizi permette di scoprire che, nonostante tutto, esistono spazi, e occasioni, e potenzialità per una presenza dell’animazione musicale che si faccia dialogo, interazione, progetto condiviso con molte culture operative. Considererei qui in particolare i luoghi in cui prevale il sapere clinico, nei quali la direzione è affidata ai medici e agli specialisti della medicina: i servizi psichiatrici, quelli per le dipendenze, per gli anziani non autosufficienti e per i disabili gravi: i cosiddetti servizi socio sanitari, quelli che forse possono apparire più estranei al messaggio dell’animazione.

E allora: in psichiatria la tendenza prevalente è quella della farmacopsichiatria, “trainata dalle strutture conoscitive e metodologiche delle neuroscienze”, scrive Eugenio Borgna. Una psichiatria che identifica i fenomeni psichici in quelli fisici e che, nelle espressioni più radicali dell’orientamento biologistico afferma che “coscienza, libertà e responsabilità non sono se non nomi, antiquati e ambigui che indicano stati o processi, non decifrabili e spiegabili se non dalle scienze biofisiche”. (2) Ma è anche vero che altre culture, minoranze, certo, ma non per qualità, agiscono sulla scena dei servizi psichiatrici italiani. E testimoniano di una psichiatria che non rinuncia a confrontarsi con la vita interiore dei pazienti, capace di ascolto e di dialogo ermeneutico: e mi riferisco ovviamente all’orientamento fenomenologico. E ancora, è attiva una psichiatria che guarda alla normalità e alla follia non come a contrari che si escludono reciprocamente ma come “contrastanti che si corrispondono e che reciprocamente si mettono in risalto” E qui “La sofferenza dell’altro richiama la propria, curare l’altro significa anche curare me” (3). E infine, è proprio di queste ultime settimane la vicenda di “Matti in barca a vela”, una regata nel Mediterraneo collegata alla Vuitton’s Cup che ha coinvolto pazienti dei servizi psichiatrici di Trieste in un’impresa di reale partnership, in un “imbarcarsi insieme” nel quale i ruoli si sono appiattiti e scambiati e i pazienti hanno saputo prendersi cura di operatori e medici stroncati dal mal di mare. Oppure, guardiamo nei servizi per le dipendenze.

Qui, solo due cenni, ad indicare possibilità di sguardi e orizzonti che utilizzano parole e rinviano a significati che l’animazione musicale può intendere e rafforzare. Il primo cenno richiama le potenzialità dell’approccio psicosociale, nel quale è considerato elemento centrale l’ascolto riflessivo del soggetto, cuore del colloquio motivazionale, che pone al centro la scelta personale e la responsabilità di chi ha problemi di dipendenza nelle decisioni che riguardano gli obiettivi del trattamento e le strategie del cambiamento. E’ un approccio che sa anche riflettere “sull’incapacità del terapeuta di riconoscere nel paziente parti di valore” come elemento che può determinare “non tanto la difficoltà, quanto il fallimento della terapia”. (4)

Il secondo richiamo è all’orientamento (5) che affida la possibilità della cura al riconoscimento della sofferenza soggettiva e alla “valorizzazione del percorso di vita della persona tossicodipendente all’interno della storia complessiva della famiglia” e prova a costruire alternative a partire dalla comprensione dei significati che ciascuno ha attribuito alle dinamiche familiari. Apparentemente meno problematico il contesto dei servizi per la grave disabilità, ma qualche volta è, appunto, solo apparenza: non si può, per esempio, condividere l’enfasi sull’onnipotenza riabilitativa a cui fa da controcanto il vuoto dell’assistenzialismo come destino o l’abbandono della famiglia quando il sogno – o il delirio – terapeutico riabilitativo rivela la propria impotenza. Molte operatrici e operatori nei servizi territoriali e residenziali per disabili oppongono resistenza a questa logica che si accompagna, negli anni più recenti, alle pressioni di matrice aziendale connesse all’introduzione di dinamiche di mercato e di concorrenza nel sistema dei servizi alla persona. E realizzano cose splendide. Occorre, anche qui, saper riconoscere e realizzare un incontro con le culture che continuano ad interrogarsi sul “vero significato della sofferenza del disabile grave”, che considerano i risultati degli interventi in termini di “facilitazione dell’esistenza”, e offrono aiuto “nonostante la malattia, anzichè “contro la malattia” e considerano il ruolo di chi opera come un “accompagnamento verso tappe di autonomia esistenziale” più avanzate, e guardano alle tecniche come “strumenti dell’agire per uno scopo che è indipendente dalle istanze di guarigione e concerne obiettivi esistenziali” (6).

E infine, le residenze per anziani: ospiti sempre più compromessi nelle condizioni di salute e in età sempre più avanzata. Prevalenza dell’intervento sanitario, dunque. Eppure, anche qui, nei luoghi in cui la medicina che cura per la guarigione incontra quotidianamente la propria sconfitta e in cui la riabilitazione si riscopre efficace solo se capace di una comunicazione empatica che ha nel con-tatto il proprio canale e nella restituzione al soggetto di una percezione accettabile del proprio sé corporeo un fondamentale obiettivo, qui, dunque, si affacciano approcci diversi alla medicina. Mi riferisco alla medicina della complessità, che, a differenza della medicina dell’evidenza, incontra persone e non malati, si misura con problemi utilizzando approcci multidimensionali ed è consapevole dell’esigenza di risposte interdisciplinari; che sa relazionarsi con l’incertezza e l’impredittibilità dei percorsi di malattia cronico degenerativa e che si pone come obiettivo la qualità della vita anziché l’assenza di malattia (7). E mi riferisco anche alla medicina narrativa, come orientamento in cui si co-costruisce, in processi di narrazione che coinvolgono medico, paziente e contesto, significati del vissuto di malattia e del malessere in cui fondamentali sono la capacità del medico di sviluppare riconoscimento e dialogo, di valorizzare l’interazione e l’intenzionalità, di negoziare e mediare (8).

Non richiamo i modelli teorico-operativi diffusi nei servizi del comparto sociale e capaci di dialogare con l’animazione musicale, che sono materia del corso – ora seminario – di progettazione e valutazione all’interno della SAM. Mi sembra però che anche questo sguardo veloce e parziale sulle culture operative ci parli della possibilità di uno spazio per l’animazione musicale – nell’accezione a cui si rifanno gli elaborati degli allievi SAM – nell’universo dei servizi alla persona.

Concludo richiamando un tema che sta nuovamente appassionando gli operatori sociali e che è sotteso al mio intervento. L’etica: chi oggi agisce nel sistema dei servizi non può ignorare questa dimensione. La questione è stata posta nel 2001, nel primo numero della rivista Lavoro sociale da Bauman, alla ricerca delle ragioni più autentiche per la difesa dei sistemi di protezione sociale, in un breve saggio dal titolo “Sono forse io il custode di mio fratello?” Scriveva Bauman “…. Normalmente si misura la tenuta di un ponte a partire dalla solidità del suo pilastro più piccolo. La qualità umana di una società dovrebbe essere misurata a partire dalla qualità della vita dei più deboli tra i suoi membri. E poiché l’essenza di ogni morale è data dalla responsabilità nei confronti dell’umanità degli altri, questa è anche l’unità di misura degli standard morali di una società. E’ questo, a mio avviso, l’unico tipo di misura che un sistema di welfare si possa permettere, ma è anche l’unico di cui abbia davvero bisogno: E’ una misura che può non bastare a garantirgli il sostegno sociale dal quale dipende la sua sopravvivenza, ma è anche l’unico tipo di misura che parli, in modo perentorio e privo di ambiguità, a favore del welfare state.” (9).

Nel numero di Animazione sociale dello scorso luglio la questione etica è stata riproposta con un’intervista a Salvatore Natoli sulle radici antropologiche ed etiche del prendersi cura. Credo che anche per noi sia imprescindibile comprendere gli orizzonti etici che sottendono modelli, paradigmi, approcci teorici e operativi attivi nello scenario dei servizi e difendere il sistema di valori, gli orizzonti di senso che orientano l’agire professionale di chi fa animazione con la musica. E a questo riguardo vi lascio un pensiero espresso in una docenza a un recente corso di aggiornamento per operatori e operatrici dei servizi per anziani non autosufficienti da un geriatra, Carlo Vergani (10), che invitava a non smarrire e a dialettizzare tre orizzonti etici:

– l’etica della responsabilità, che ci aiuta ad agire nell’immediato

– l’etica del convincimento, che ci aiuta ad avere e mantenere una prospettiva

– l’etica del viandante, consapevoli che non abbiamo certezze, che ci muoviamo ricercando, non abbiamo mappe che definiscano rotte e non sappiamo prima come potremo muoverci….

NOTE

1) Massimo Cacciari, Una rivoluzione culturale per superare il paradigma tecnico-scientifico, in Paure e aspettative degli anziani nella società dell’incertezza, Mimosa, Milano 2005

2) Eugenio Borgna, Le intermittenze del cuore, Feltrinelli, Milano 2003, pag. 17 e pag. 20

3) Alessandra Bendini, La ferita di Chirone, in A. Bendini (a cura di), La ferita del centauro, I quaderni di Orzinuovi, nuova serie 1, Teda edizioni, 1993

4) Emanuele Bignamini, Antonella Bompard, Leopoldo Grosso, Gian Paolo Guelfi, Alfio Lucchini, Manuela Trogu (a cura di), Per un approccio psicosociale alle dipendenze, in Animazione sociale, n. 6-7/2004

5) Paolo Rigliano, Piaceri drogati. Psicopatologia del consumo di droghe, Feltrinelli, Milano, 2004 e Doppia diagnosi. Tra tossicodipendenza e psicopatologia, Cortina, Milano 2004

6) Milena Cannao, Giorgio Moretti, Il grave handicappato mentale, Armando, Roma, 1982

7) Carlo Vergani, Medicina della complessità e medicina narrativa, docenza al corso di formazione promosso dalla Provincia di Milano sul tema “Il P.A.I., una sfida ed una opportunità: da apprendere e da comprendere per progettare e per valutare – Milano 4.10.2005.

8) Vincenzo Masini, Medicina narrativa. Comunicazione empatica ed interazione dinamica nella relazione medico-paziente, FrancoAngeli, Milano 2005

9) Zygmunt Bauman, Sono forse io il custode di mio fratello? , in Lavoro sociale, n. 1/01, pagg. 7-17

10) Carlo Vergani, Medicina della complessità e medicina narrativa, docenza cit.

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