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La musica degli adolescenti tra scuola e territorio

Relazione al Convegno IASPM “Gusti Giovanili e Popular Music: Ricerche, Didattiche, Pratiche” – Bologna, 4 Dicembre 2004

Nella prima parte di questo intervento mi riferirò alla mia esperienza quotidiana di insegnante in alcune scuole medie della Brianza lecchese, avrò quindi come riferimento ragazzi d’età definita, con un determinato background sociale e culturale. Nella seconda parte dell’intervento farò riferimento ad una pregressa attività di intervento con la musica in progetti socio-educativi, ma anche e soprattutto all’attuale esperienza maturata in qualità di coordinatore del Centro Studi Musicali e Sociali Maurizio Di Benedetto, di Direttore della Scuola di Animazione Musicale, di consulente di una cooperativa sociale, La linea dell’arco di Lecco, impegnata in importanti progetti territoriali che coinvolgono, attraverso la musica, un alto numero di adolescenti. L’altro riferimento che assumerò, su sollecitazione degli organizzatori del convegno, è il libro di Gasperoni, Marconi, Santoro, dal titolo “La musica e gli adolescenti. Pratiche, gusti, educazione”.

L’esperienza musicale degli adolescenti e la scuola
Partiamo proprio da una citazione dal libro, “l’incidenza delle esperienze extrascolastiche sulla formazione musicale degli adolescenti è molto forte, di solito assai superiore a quella delle esperienze scolastiche”. Più avanti si legge “se è inevitabile che la figura dell’insegnante venga sentita come sempre meno incisiva via via lungo l’arco dell’adolescenza, (ci si chiede se) era possibile lasciare comunque un segno più intenso? (essere) più influenti sulla vita musicale (degli) studenti? Il dubbio, poche righe dopo, si fa constatazione critica di quello che sembrerebbe a tutti gli effetti un dato di fatto “l’educazione scolastica italiana dovrebbe fornire un tipo di formazione musicale migliore di quella manifestata dagli adolescenti sottoposti alla nostra ricerca”. Abbiamo quindi una situazione che ad una difficoltà che sembrerebbe legata ad alcuni limiti oggettivi dell’istituzione scolastica, aggiunge un problema specifico di scarsa efficacia dei processi educativi e didattico musicali. Dato questo confermato anche da altre ricerche (cfr, Dovigo, Università Padova 1998, atti del convegno di Lecco 1999). L’importanza che la musica riveste nella vita degli adolescenti può essere vissuta dalla scuola effettivamente come un vincolo, ma credo che in questo dato occorra soprattutto riconoscere un’opportunità.
La musica che gli adolescenti fanno a scuola è certamente cosa diversa da quella che vivono fuori, per motivi sociali, psicologici, culturali ben esplicitati dalla ricerca; anche in presenza di una positiva interazione tra questi due mondi è importante riconoscere che le differenze rimangono, in quanto si tratta di due campi di esperienza diversi, entrambi utili, anche se in modo differente, allo sviluppo dell’identità musicale dei ragazzi. Esistono dei limiti oggettivi nel rapporto tra la cultura musicale degli adolescenti e l’educazione e la formazione musicale istituzionale che occorre saper accettare con rispetto. Certo si tratta di capire come sia possibile fare interagire meglio e di più queste dimensioni, soprattutto a scuola. Il problema principale delle proposte formative scolastiche, almeno per quanto riguarda la musica, credo stia proprio in quella che Marconi, indirettamente, definisce come la sua scarsa significatività.
Occorre dunque chiederci: come può diventare più significativa l’esperienza musicale scolastica, nel momento in cui ci rapportiamo all’universo musicale degli adolescenti? Per prima cosa, direi, non ignorando questo mondo, ma, allo stesso tempo, penso, neanche assumendolo come sfondo e ambito prevalente in cui sviluppare l’esperienza scolastica. Direi piuttosto che se è certamente importante riconoscere e accogliere in classe questo vissuto musicale esterno degli adolescenti, è poi altrettanto importante rigiocarne il senso all’interno di un’attività il cui valore principale passa sempre e comunque attraverso la qualità della relazione che riusciamo a sviluppare con i nostri studenti, accettandone le condizioni di instabilità e i limite intrinseci. Limiti determinati, per esempio, dal contesto istituzionale e da un contratto formativo che riconosce ruoli diversi e che è comunque sempre un’esperienza a termine, direi anche abbastanza breve, se confrontata con la rapidità di crescita degli adolescenti. I ragazzi vengono dunque a scuola portando con sé la propria cultura musicale, che deve trovare spazi di significato all’interno della relazione che sviluppano con i compagni e col docente, il quale, a sua volta, ha una propria cultura musicale personale che contribuisce a qualificare la sua proposta professionale. A scuola si deve imparare a concertare insieme il gioco in cui queste identità si incontrano, identità che talvolta possono addirittura entrare in conflitto, ma che devono sempre saper negoziare i propri significati, sapendo già che il risultato del lavoro non potrà essere totalmente determinato né dall’una né dall’altra parte, se non pagando un prezzo altissimo, quello del non riconoscimento reciproco (quel ragazzo o quel docente non capisce niente, quella materia o quell’esperienza non conta nulla).

Concertare differenti identità
Credo sarebbe spaventosa una scuola in cui i ragazzi non potessero portare con sé i propri valori, gli ideali, le emozioni, la loro esperienza dell’amore, del conflitto, il desiderio di essere socialmente riconosciuti, i piaceri e le fatiche di vivere quotidianamente l’evoluzione della propria identità. La musica aderisce profondamente a queste dimensioni personali, direi che ne fa intimamente parte, per questo va accolta, ascoltata, apprezzata in quanto manifestazione di una dimensione esistenziale di forte valore affettivo dei nostri alunni e delle nostre alunne. Non accoglierla è un po’ come non accogliere loro, non accettarne le debolezze e le labilità, non valorizzarne la freschezza e l’energia. In questo senso reputo che da un punto di vista educativo, la musica dei ragazzi, deve essere valorizzata principalmente in quel tipo di esperienze mirate proprio al potenziamento dell’identità, al rinforzo del processo di apprendimento, allo sviluppo della socializzazione, alla creazione di un contesto relazionale positivo, al miglioramento delle qualità relazionali. È anche possibile, poi, che alcune di queste musiche si prestino a diventare dei testi per una didattica musicale condivisa, ma in questo caso mi sembra imprescindibile una rielaborazione didattica da parte dell’insegnante.
Dopo una prima condivisione del testo – ascoltato, cantato o suonato che sia – si pone infatti il problema di cosa farne, dato il contesto in cui ci troviamo. A scuola non si può semplicemente riprodurre quello che si fa in altri luoghi adolescenziali: la scuola non è un pub, una radio libera, una camera da letto, né un luogo per organizzare feste private. I testi della musica dei ragazzi entrano quindi, fondamentalmente, per essere trasformati dal contesto che li ospita e qui si pone il problema dell’efficacia di questo lavoro, non sempre i testi della musica del momento sono i migliori per una rielaborazione didattica, per esempio per la musica d’insieme, e questo per una serie di motivi tecnici e didattici che non mi soffermo qui ad analizzare. Dunque il rapporto tra le diverse culture musicali presenti a scuola non può che passare attraverso un confronto aperto tra docente e discenti, mediato dal riconoscimento dei diversi ruoli che si rivestono, nella loro reciproca significatività. Il docente deve saper ascoltare, dialogare, interagire con la cultura dei ragazzi, senza che ciò si traduca nella rinuncia ad affermare anche la propria identità culturale e professionale, risultato di una storia personale e di un’esperienza di vita che non può non rientrare nel gioco delle parti. Deve però sapere anche che questa identità, da sola, non gli è sufficiente per sviluppare un lavoro didattico che risulti anche significativo per i ragazzi; come abbiamo detto, è necessario che la sappia anche negoziare. Questo vuol dire, per noi docenti, per esempio, saper rinunciare anche ad aspetti che magari reputiamo importati, cercare di non assumere eccessivamente il vizio di insegnare solo ciò che ci hanno insegnato, di non fidarci esclusivamente di ciò che sappiamo, per imparare ad assumerci almeno una parte di rischio: saper operare, direbbe Mario Piatti, anche attraverso una didattica dell’occasionalità. Tutto ciò mi sembra significhi: saper assumere, quotidianamente nell’insegnamento anche il compito della ricerca. È quasi un obbligo se si è autenticamente interessati a comunicare con ragazzi e ragazze.

Scuola e media
Entrando, brevemente, nel rapporto tra mass media e adolescenti, rifletterei inizialmente sul fatto che i ragazzi passano in media a scuola circa 30 ore settimanali per più di 9 mesi. Un tempo rilevante, sicuramente ben superiore, nella maggioranza dei casi, alla media esposizione ai mass media (scusate il bisticcio di parole); certo non paragonabile a quella in termine di raffinatezza comunicazionale e tecnologica, ma comunque un capitale di possibilità da non sottovalutare, comprese le circa 70 ore annuali di musica, che certo non sono tante.
Se spostiamo poi l’analisi ad un livello più qualitativo, senza perdere comunque di vista il dato quantitativo, ci sono almeno due aspetti importanti da considerare. Ad uno ho già fatto riferimento e riguarda la qualità della relazione personale che possiamo attivare coi ragazzi in questo ampio arco di tempo: i mass media non possiedono questa tipologia di relazione che anzi, mi sembra, inseguono tenacemente a livello tecnologico, ma la cui completezza spero non raggiungeranno troppo rapidamente (abbiamo quindi almeno un leggero vantaggio da questo punto di vista). L’altra è individuata con chiarezza dal libro quando si afferma che “la gran parte degli adolescenti pratica un numero piuttosto limitato di condotte e di relativi piaceri musicali, e che alcune delle condotte musicali che possiamo promuovere a scuola sono proprio quelle meno in linea con l’immagine dell’adolescente più pubblicizzato e valorizzato dai mass media (cercare nella musica un confronto culturale, un’esperienza artistica, l’acquisizione di nuove conoscenze, l’incremento degli interessi individuali, la comprensione di messaggi altrui). Sottolineerei, in modo particolare, che proprio l’esperienza del fare musica, la possibilità di esprimersi e comunicare coi suoni, con piacere e con soddisfazione, in un contesto relazionale ricco e arricchente, è qualcosa che ancora i mass media non possono proporre. Anche Luca Marconi sceglie questa prospettiva e avanza alcune proposte a partire da un’intuizione metodologica fondamentale: lavorare sulla curiosità dei ragazzi. Marconi individua nell’identità musicale individuale il concetto chiave di riferimento della sua proposta, un’identità che rimanda a quel sistema di potenzialità nei confronti della musica (…) che distingue ogni essere umano (…) che muta costantemente (…) e del quale (l’adolescente) non è mai esaustivamente autocosciente.
Mi sembra opportuno evidenziare in proposito che a scuola, in gioco, non c’è solo l’identità individuale, ma anche quella gruppale, un’identità che interessa la classe, il laboratorio, il piccolo gruppo, a cui ragazzi e ragazze tengono molto e che anche dal punto di vista musicale può essere adeguatamente valorizzata e promossa proprio a partire da una strategia che renda condivisa la curiosità per la musica. Molti dei risultati più interessanti che raggiungiamo sono dovuti proprio a processi virtuosi di tipo imitativo, intermotivazionale e solidaristico che gli adolescenti attivano naturalmente tra loro, offrendo un contributo determinante e un valore aggiunto alla qualità dell’esperienza educative e didattica, se e quando il contesto che si è costruito stimola questa possibilità.

Per uno sviluppo dell’espressività e del senso critico
Continuando in questo contrappunto col libro ed affrontando i temi della necessità di promuovere maggior spirito critico verso l’industria e i mass media musicali e capacità di contestualizzare e interpretare la musica; penso che lo strumento privilegiato deve essere, anche qui, quello di agire sulla curiosità dei ragazzi. Una curiosità che ha bisogno principalmente della pratica espressiva e creativa per dispiegare tutto il suo potenziale autoeducativo. Mi spiego meglio: la capacità critica che possiamo sviluppare in una scuola media non è tanto il risultato di processi didattici (anche metodologicamente corretti) direttamente centrati sull’ascolto, la contestualizzazione e l’analisi di opere e autori, ma il risultato di un processo in cui al centro è posto il problema dello sviluppo dell’identità musicale, individuale e di gruppo, attraverso il potenziamento dell’espressione musicale e della sua possibilità di essere comunicata e scambiata con gli altri.
I repertori entrano come possibilità di confronto con questa esperienza, come incontri di un percorso più ampio, di un ciclo emozionale coinvolgente e completo, che ritengo non può che partire dalla esperienza diretta del proprio suono. Occorre un grande desiderio di viaggiare, una forte motivazione e tanta curiosità per andare a scoprire terre lontane, così diverse da quelle di ogni giorno e che magari vengono, superficialmente, percepite come inospitali. Per farlo dobbiamo però attrezzarci e preparaci bene. Allora il risultato può anche essere inaspettato e la scommessa culturale diventare entusiasmante. L’ascolto viene quindi meglio insieme alla pratica, non in senso procedurale: un’attività può benissimo prevedere avvio da un ascolto – come ci ha insegnato Stefani – prevederlo in itinere o alla fine, come propone Paynter in “Suono e silenzio”, quanto in senso esperienziale ed emozionale. Abbiamo bisogno di fare dell’ascolto un problema che riguarda l’espressività dei ragazzi, il loro desiderio di comunicazione sonora, per riconoscere con Delalande che, in fondo, per ascolto e produzione si intende un’unica competenza. Alcune delle interessanti proposte avanzate dal libro e riguardanti lo sviluppo del senso critico mi sembrerebbero più adatte ad una scuola secondaria di secondo grado. Ragazzi e ragazze delle scuole medie non hanno ancora maturato quegli anticorpi al sistema mass mediatico, che rappresentano invece, nei ragazzi più grandi, il terreno ideale su cui un insegnante può far leva all’interno di processi di riflessione metaesperienziale. Il problema, purtroppo, è che arrivati a questo punto non esistono più spazi istituzionali in cui farlo, perché la musica scompare a tutti gli effetti dalla scuola.

Accrescere il valore dell’esperienza musicale scolastica
Sintetizzando, mi sembra che a partire dalla curiosità per la propria identità musicale e dalla possibilità di comunicarla e scambiarla nel gruppo, dalla possibilità di ampliare la propria espressività musicale affinché diventi anche curiosità per la conoscenza, si sviluppi una forza potenziale in grado di far competere la cultura musicale della scuola con quella dei mass media. Questo non significa che i ragazzi cambieranno i propri gusti e le frequentazioni musicali, ma che avranno due esperienze che reputano entrambe importanti da confrontare. Non si tratta quindi di fare semplicemente entrare a scuola quanta più musica del momento possibile, ma di avere strategie e tattiche efficaci in grado di comprenderla: in realtà, nella didattica, un brano di Anastasia non funziona meglio di uno dei Beatles o di Philip Glass, e l’hit delle baby dance dell’estate non piace di più di una composizione ispirata ad un testo poetico elaborato nell’ora di lettere.

Gli interventi socio-educativi con la musica
Veniamo quindi, brevemente, alla seconda parte del mio intervento. Forse nel libro che stiamo commentando è un po’ assente l’attenzione che riguarda gli interventi educativi con la musica che si realizzano in tempi e luoghi differenti da quelli scolastici, che possono magari partire dalla progettazione scolastica o ad essa ritornare, evidenziando contiguità educative significative nel rapporto tra scuola e territorio. Vorrei evitare di affrontare qui il tema del rapporto con le agenzie formative specializzate, quali possono essere scuole di musica, cori, bande, e l’associazionismo musicale in genere, che vedo però sempre meno frequentato dagli adolescenti. L’attenzione a cui mi interessa accennare qui è quella che riguarda il lavoro educativo svolto nel sociale, evidenziandone, come per la scuola, alcune opportunità e alcuni limiti. Si tratta in effetti di un ambito operativo molto interessante, che offre all’esperienza musicale degli adolescenti, opportunità educative e culturali importanti, ma che è ancora poco conosciuto e discusso. Lavorare nei progetti socio-educativi, fuori dal contesto della scuola, significa interagire con gli adolescenti e la musica in alcuni dei luoghi più importanti dove questo incontro si realizza, mi verrebbe da dire, in modo più “naturale”: la piazza, la strada, la pensilina del pullman, la cantina, il bar, il centro sociale. Luoghi dove la mediazione, e la contaminazione delle identità individuali e gruppali, può dar vita a nuove opportunità di fruizione e produzione culturale, anche per quello che riguarda la musica. Il basso indice istituzionale caratteristico di questi interventi – a differenza di quelli scolastici – diventa un elemento essenziale per avvicinare l’esperienza educativa ai vissuti musicali più personali degli adolescenti. Non è allora casuale che, all’interno di quei processi educativi di promozione delle soggettività e dei gruppi, soprattutto dove si è affermata una modalità di lavoro definita di progettazione “partecipata” o “dialogica”, in cui i soggetti stessi, destinatari delle proposte, partecipano in prima persona alla costruzione dell’intervento, scegliendone i contenuti, le attività, i campi di operatività, la musica credo risulti ai primi posti nelle scelte degli adolescenti, se non al primo in assoluto. Si tratta di una sensazione, sostenuta da alcuni dati, che come già commentavo con Luca Marconi andrebbe suffragata con una ricerca seria sui progetti in atto.

Valorizzare la cultura musicale dei ragazzi… e poi
Ma quale è il lavoro dell’educatore in questi tipi di interventi? Ecco l’intervento tipo di un’educatrice che ho raccolto di recente e che può ben rappresentare il punto di vista professionale: “La mia esperienza di educatore professionale è legata al progetto educativo, dove la musica è stata ed è strumento per aprire una relazione educativa, che è (e resta) lo specifico del mio lavoro”. Si tratta di un approccio che ha espresso negli ultimi anni una significativa potenzialità progettuale nel lavoro con adolescenti e giovani. Raccontarsi con la musica, organizzare concerti, gestire lo stereo in un locale pubblico, organizzare trasmissioni musicali radiofoniche, promuovere l’organizzazione dei gruppi musicali, cogestire sale prove, sono attività che promuovono il protagonismo giovanile, che coinvolgono con modalità partecipative alcune aree della popolazione in interazione attiva col territorio; sono però attività musicali aspecifiche, in cui l’esperienza musicale è principalmente un mezzo per favorire l’autorganizzazione e l’autogestione dei gruppi e promuovere la socializzazione della cultura musicale giovanile. L’intervento educativo difficilmente agisce direttamente in relazione alla cultura musicale degli adolescenti.
Questa modalità di approccio sta però cominciando a generare qualche elemento di crisi al suo interno. L’educatore che sente la necessità di non rinunciare alla qualità culturale che la musica può apportare ai processi socioeducativi, pone nuove domande, chiede un sostegno più specialistico. La finalità musicale non può quindi che legarsi più strettamente a quella educativa e riarticolarsi al livello degli obiettivi dell’intervento, andando a modificare l’impianto progettuale generale. Al fianco di quelle precedentemente enunciate nascono così attività in cui educatori e musicisti lavorano insieme o in cui animatori musicali, adeguatamente formati, danno vita ad esperienze di secondo livello quali laboratori di improvvisazione, di composizione, di musica d’insieme, di arrangiamento, aiutano e sostengono la nascita di gruppi musicali, inventano progetti artistici, anche intervenendo musicalmente in luoghi e spazi pubblici, coinvolgendo intere comunità in un progetti culturali innovativi. Se dunque abbiamo come prima esigenza l’opportunità di provare a modellare, sulla base della quantità e della qualità di esperienze condotte, un livello di intervento educativo con la musica finalizzato a promuovere la socializzazione e la cultura musicale giovanile, che può essere variato e articolato in funzione del contesto in cui si realizza: il centro di aggregazione, il centro sociale, l’educativa di strada, il laboratorio, il rientro scolastico pomeridiano o serale, il progetto territoriale.
Non si può non sentire la necessità di andare oltre questo primo livello, di sperimentare nuovi interventi, sulla base dell’assunto per cui non è solo importante esprimersi, ma anche imparare ad esprimersi sempre meglio. Il passaggio possibile tra un primo e un secondo livello, oltre che dalla presenza di maggiori competenze musicali degli educatori, è determinato proprio dalla loro esigenza di una riflessione sul proprio operare che motiva la necessità di approfondire in senso culturale l’esperienza che si realizza. Ritornano in questo modo alcune domande, in parte già sentite: quanto ha senso pensare, in termini educativi, alla messa in gioco della cultura musicale dell’educatore, alla negoziazione dei significati che questo comporta? E qual’è la cultura musicale di cui sono portatori gli educatori, nella condizione in cui si trovano di non essere musicalmente formati dalle proprie scuole (che oggi sono le università) e quanto è diversa da quella dei giovani con cui lavorano? Quanto riteniamo corretto operare educativamente per cercare anche di aprire dimensioni culturali talvolta chiuse, come si dimostrano essere alcune forme della cultura giovanile? È possibile pensare all’esperienza con la musica anche come al campo in cui generare stupore ed emozione per l’incontro col nuovo, diverso dall’ordinario? Si tratta di un orizzonte che è auspicabile saper orientare e che ci interessa condividere con i ragazzi e le ragazze, i giovani e le giovani con cui lavoriamo?

Consapevolezza e prospettiva per un’azione educativa efficace
Gli adolescenti, pur nella semplificazione che tale categorizzazione comporta sempre, evidenziano nel rapporto con la musica un coinvolgimento complesso e dinamico. Contrappongono ad una fruizione consumistica, spesso assolutamente acritica, forme di rielaborazione e produzione musicali che rivelano al contrario proprio una notevole intelligenza critica, emulano e al contempo distruggono i propri eroi in un processo di crescita che non lascia spazio a troppi ripensamenti sentimentali, costruiscono micro-culture rigide forse anche col fine di contrastare la rigidità dei valori proposti dalla cultura adulta, trasgrediscono alle regole in gruppo così come si omologano a convenzioni assolutamente stereotipate anche in campo musicale, un po’ come accade per gruppi di ultras. Con questa complessità, con questa profonda ambiguità, occorre saper interagire, nel rispetto dei soggetti e del loro diritto di crescere sperimentando il mondo. La musica è uno strumento potente, fortemente legato alla realtà in cui gli adolescenti si trovano a vivere. Avere consapevolezza di queste dimensioni e di come un lavoro specifico di educazione musicale può svilupparle diventa essenziale se intendiamo dare un senso sempre più pregnante alla funzione formativa che si svolge tanto fuori quanto dentro la scuola.

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