Giornata di studi “Orizzonti dell’animazione musicale”
Intervento di Carlo Delfrati alla giornata di studi svoltasi a Lecco il 29 Ottobre 2005.
“Mi avevano fatto credere che la vita non ha senso se non è diretta a uno scopo, cioè che la vita, per avere significato, deve essere impiegata nella ricerca di questi scopi e nel far di tutto per raggiungerli, anche a costo di sporcarsi le mani. Col passar del tempo, fattomi un po’ più esperto, mi resi conto che la vita non è una vana corsa verso un traguardo, ma invece è un viaggio. […] Che peccato non esserci mai fermati a respirare l’aria fresca, pulita e tersa e ad ammirare lo splendido panorama!”(1)
Quando Maurizio Vitali mi ha invitato, e lo ringrazio per questo, ho fatto presente che sarei venuto volentieri come ascoltatore interessato: non so cosa mai potrei aggiungere io a dieci anni di esperienze e riflessioni che il Centro ha maturato. O ai trenta e passa di François Delalande. Il mio campo di lavoro è piuttosto quello della scuola, della didattica (e in piccola parte quello della divulgazione). E’ questo l’angolo dal quale posso avanzare qualche considerazione sul tema dell’animazione.
Il primo bisogno che ho sentito, prima di venire qui, è di chiarirmi i termini. Al termine animazione si può dare un significato così esteso da comprendere qualsiasi relazione interpersonale. Per restringere il senso a un terreno più proprio, specifico, proverei a distinguere animazione da insegnamento e da divulgazione. Possiamo considerarle come pratiche e come istituzioni.
Come istituzioni, ognuna fa riferimento a luoghi esemplari (esemplari, non esclusivi): l’insegnamento nella scuola; la divulgazione nella sala conferenze della biblioteca o nell’università popolare; tutte e due nella carta stampata; l’animazione nel centro giovanile, nel centro anziani, nel villaggio turistico, nel centro socio-sanitario…. Ma poi tutte e tre le istituzioni s’inventano i propri luoghi. Posso fare insegnamento, divulgazione, animazione anche nella taverna del mio condominio…
Rispetto all’insegnamento, l’animazione si trova insieme alla divulgazione, nel senso che il destinatario dell’insegnamento è uno costretto (anche se ha scelto di esserlo); invece i destinatari dell’animazione e della divulgazione sono soggetti a piede libero, che vanno dove li porta il cuore, l’interesse del momento, o un bisogno profondo, più o meno consapevole. Scelgono, non vi sono costretti. “Costretti” rimanda alla decisione politica di una società che pretende che tutti i suoi componenti possiedano gli strumenti di base per partecipare pienamente come cittadini alla vita della società stessa. Di qui l’importanza di definire i “saperi essenziali”, e la rivendicazione dell’insegnamento musicale proprio come consegna di un sapere essenziale. Una battaglia continua, come rivela l’ultimo episodio pubblico, fra i tanti nefasti di questa nefasta fine legislatura: l’emarginazione della musica nei licei.
Vedo l’animazione distinta dalla divulgazione nel fatto che il divulgatore sta per così dire “davanti” al suo pubblico; è un po’ come un attore sul palcoscenico; guida, affascina, cerca di attrarre ai contenuti che intende trasmettere. L’esempio tipico è il divulgatore televisivo, per il quale il pubblico è addirittura invisibile. Pensate a Piero Angela, ad Alessandro Baricco quando parla di Traviata, a Luciano De Crescenzo quando racconta il mito di Teseo…
L’animatore sta piuttosto “dietro” il suo pubblico. Non si esibisce, se non occasionalmente. Offre occasioni, spunti, materiali, tecniche. Incoraggia, assiste, aiuta a risolvere problemi, a superare difficoltà. Ma tende a sparire come protagonista. Tutt’al più ad affiancarsi, alla pari, come quando partecipa a un gioco di improvvisazione collettiva, con la voce o con gli strumenti. Nella divulgazione il protagonista è il divulgatore, nell’animazione protagonista è il soggetto che viene animato. Questa è una distinzione, che mi sentirei di aggiungere a quelle che stiamo ascoltando qui, fra le tre forme di relazione culturale. Se le consideriamo come pratiche, come azione concreta, le distinzioni non appaiono più così nette, sfuggono a definizioni facili.
La prima cosa che mi viene da dire è che l’insegnante che non sia insieme anche animatore non è un buon insegnante. In questo non mi sentirei di condividere la distinzione posta in un classico degli studi sull’animazione musicale: “Mentre l’educatore punterebbe alla trasmissione di conoscenze, l’animatore ‘intimerebbe’ all’individuo un ‘modo d’essere’”(2). Credo che l’idea di un educatore, di un insegnante, che non si ponga l’obiettivo di agire sul modo d’essere del soggetto, sia la fotografia di una figura che è stata denunciata come fallimentare almeno dal tempo di Erasmo da Rotterdam. Il che non vuol dire che non sia ancora diffusa, cinque secoli dopo.
La figura dell’insegnante non-animatore vorrei analizzarla da vicino. I suoi scopi sono “indottrinare”: plasmare gli altri a propria immagine e somiglianza, educare ad assorbire la tradizione, educare alla dipendenza dall’autorità. Trasmettere un adeguato numero di informazioni prestabilite da lui insegnante. I contenuti che trasmette sono le tecniche e le nozioni, quelle importanti per lui insegnante; diciamo per una certa tradizione culturale. Senza preoccuparsi se siano interessanti o significative per lo scolaro. “Gli serviranno nella vita. Quando sarà grande capirà la loro importanza…”.
Quanto alla sua metodologia, la conosciamo bene. Mi limito ad alcuni aspetti:
* la sua lezione è frontale: racconta, fa leggere, spiega;
* la gestione della classe è interamente sua; autoriferita; autocratica;
* l’apprendimento dello scolaro avviene per impregnazione (ascolta la lezione, legge sul libro, ricopia, ripassa, memorizza);
* dispone gli argomenti in un ordine rigorosamente logico. Se fa ascoltare musiche lo fa seguendo l’ordine crono-logico; se spiega la notazione segue un ordine logico-matematico; se presenta gli strumenti lo fa nell’ordine logico-classificatorio…
* quando valuta, lo fa all’insegna del negativo: evidenzia gli errori dello scolaro, le cose mal fatte, con quei segnacci rossi e blu che lo accompagneranno per tutta la vita…
Non stupiscono allora i risultati di un’inchiesta condotta alcuni anni fa sull’apprezzamento delle discipline scolastiche da parte di ragazzi inglesi di 13-16 anni. La musica sta all’ultimo posto. Considerata “utile” solo dall’8% dei maschi e dall’11% delle femmine. Nella scelta degli aggettivi che definiscano le discipline scolastiche, “la musica compare solo nella lista ‘inutile e noiosa’ (maschi il 48%, ragazze 34%. Presumibilmente gli altri non consideravano la musica nemmeno degna di una qualsiasi opinione!)”. (3)
In questo modello didattico non c’è spazio per la condizione primaria dell’animazione, che è il piacere, il benessere, la soddisfazione personale che nasce dal sentirti realizzato nell’esperienza che fai con i materiali sonori. In questa scuola non è consentito giocare. Il suo docente verrebbe a dirci: “giocate pure con i suoni e con la musica se non avete un modo migliore di passare il vostro tempo a scuola. Ma se la musica volete insegnarla, volete insegnarla seriamente, lasciate perdere il gioco e fatela studiare come si deve”.
Vi leggo cosa scriveva negli anni Trenta Ildebrando Pizzetti: si dice felice che “l’aria vibrata che ha continuato senza posa a temprare le coscienze di noi italiani abbia spazzato via del tutto quei concetti – non so se più miserabili o più spregevoli, – di musica gioco, musica passatempo, musica divertimento”. Pizzetti non era uno qualunque. Era il nume tutelare della didattica superiore. Principale artefice della riforma dei conservatori del 1930. O ancora, ecco Felice Lattuada, nella relazione del 3 luglio 1939 agli allievi della sua scuola: “In verità molti allievi si iscrivono solo per il vago desiderio di applicarsi alla musica in senso dilettantesco. La ‘Civica Scuola di Musica’ invece liberata con le mie speciali cure da ogni traccia di dilettantismo musicale, dà a questa specie di studenti l’impressione di trovarsi di fronte a difficoltà serie da superare, a programmi da svolgere, e stronca i facili entusiasmi e annulla la concezione di molti d’una Scuola ridotta al piacere della cantatina serale. Rimangono però i migliori, coloro che hanno una vera inclinazione, e sono quelli che contano(…). La nuova gioventù, sempre più seriamente preparata alla musica, ucciderà a poco a poco la mala pianta dell’empirismo musicale, del dilettantismo, e stroncherà la leggenda degli italiani mandolinisti e orecchianti”.(4)
Nei decenni precedenti erano sorti anche in Italia numerosi istituti che avevano come obiettivo l’animazione. Allora si diceva piuttosto “ricreazione”. Vedi il volume “La ricreazione attraverso la musica”: “un buon programma ricreativo si sviluppa dagli interessi, ideali, attitudini, abitudini delle persone coinvolte, e si fonda sui loro bisogni”.(5) Lattuada e Pizzetti non facevano che portare alle estreme conseguenze quello che già si era andato evolvendo per conto proprio: le scuole musicali locali, nate come scuole della ricreazione musicale, abbandonano sempre più nettamente e brutalmente la dimensione ricreativa, per puntare su quella strettamente accademica. E’ una seria impasse dell’istruzione musicale in Italia. Se dovessi dire qual è il terreno che ha più bisogno dei benefici dell’animazione/ricreazione, opterei proprio per le scuole musicali. Vedo tante di loro come un terreno inaridito, e l’animazione come un fiume in grado di farlo rinverdire.
L’insegnante-animatore è quello che si dà lo scopo di promuovere le risorse dello scolaro (affettive, intellettive, espressive, fisiche…). Mentre il non-animatore educa alla dipendenza, l’animatore punta a fargli conquistare l’autonomia, la capacità di prendersi le sue decisioni, responsabilmente. Mentre l’altro lo imbottisce di nozioni, il nostro gli fornisce strumenti che gli servano per partecipare propositivamente alla vita della comunità, le bussole per orientarsi nel mondo e per contribuire a modificarlo (capire la musica, fare musica). L’altro impone i contenuti di un sapere cristallizzato, il nostro non nega i saperi, ma li rimette in circuito con il vissuto degli scolari, subordinandoli al significato e all’importanza esistenziale che hanno per loro. E li ordina secondo un criterio non più logico ma psicologico (cioè secondo la loro capacità di innestarsi sull’esperienza reale degli allievi). La convinzione degli accademici è che la cultura sia un monolite intoccabile, che va preso così com’è stato sistematizzato dall’esperto. Dimenticano invece che la cultura è un processo vivo. Per poter essere vivo deve innestarsi sulla realtà concreta di quell’essere vivente che è la persona, con le sue specifiche risorse e i suoi specifici limiti.
Una parentesi. Vedo a volte contrapporre la persona alla cultura, alla disciplina, nel nostro caso la musica. Una contrapposizione che si può far risalire almeno a Froebel. Nella sua forma più radicale, la posizione è ben esemplificata da quell’anonimo collaboratore di una rivista musicale francese di fine Ottocento che diceva: “L’insegnamento della musica nelle scuole elementari non ha niente a che vedere con l’arte musicale; è una questione di pedagogia sulla quale i musicisti sono incompetenti”. (6)
Credo che l’opposizione persona/cultura finisca involontariamente per portar acqua agli accademici. La cultura non è qualcosa di diverso dalla persona. Cosa sono le discipline se non altrettanti modi di funzionare della persona? Cosa sono se non la persona stessa nel momento in cui mette in azione le proprie risorse…? Il valore principale del viaggiare – ha scritto Proust da qualche parte della sua Recherche – non è scoprire nuove terre, è scoprirsi nuovi occhi. Le terre sono la realtà in cui viviamo quotidianamente, le discipline sono gli occhi della persona; i nuovi occhi sono i modi diversi di interpretare la realtà. Sono la persona stessa, che guarda il mondo con occhi sempre nuovi. La musica è uno di questi occhi. La musica è uno degli strumenti che possediamo, che ogni essere umano possiede, per interpretare la realtà. Un modo primario, così originale e insurrogabile che dobbiamo subito mettere da parte il verbo guardare. La musica è un modo di ascoltare la realtà. Tra persona e disciplina non si pone dunque una questione di precedenza. La persona si educa non prima delle discipline, ma attraverso le discipline. E’ coltivando le discipline che si coltiva la persona.
Se le cose stanno così, allora si capisce che per essere fecondo, utile alla persona, l’insegnamento deve fare i conti con la situazione culturale concreta in cui si trova la persona, il disabile o il genio della Normale Superiore di Pisa. L’insegnante animatore rende gli alunni protagonisti attivi del proprio percorso formativo, li rende operanti per sperimentazione, ricerca e scoperta. Li responsabilizza. E quando valuta, lo fa al positivo, evidenziando quanto di buono ogni soggetto è stato in grado di fare (in seconda battuta mostrerà anche che ci sono errori da correggere, se è il caso). Ho citato Lattuada e Pizzetti. Voci di quell’accademismo, che colloca gli individui in due categorie, nettamente distinte: i dotati e i negati. Questo spirito soffia a volte dove meno ce lo aspetteremmo. “Ogni uomo convenientemente educato potrebbe scrivere poesie, buone o cattive; mentre l’invenzione musicale presuppone attitudini speciali, che sarebbe impossibile far emergere qualora non siano presenti”. Così scrive Claude Lévi-Strauss nel suo Il crudo e il cotto(7): un libro che usa proprio strutture della sintassi musicale come telaio concettuale delle sue analisi antropologiche – sappiamo quanto illuminanti peraltro!
Ancora: “Il musicista o l’artista visivo […] presentano abilità che sembrano lontane da quelle della persona media, e persino misteriose”. “Per quelli di noi che non compongono musica con facilità – e che sono quindi esclusi da quella piccola minoranza dell’umanità ‘la cui mente secerne musica’ questi processi [compositivi] hanno necessariamente un’aria remota”. Tanto che spetta al biologo il compito “di spiegare quelle capacità (come il linguaggio) che sembrano evolversi fino a un alto grado in tutti gli individui normali, di contro ad altre capacità (come la musica) in cui sono molto più comuni differenze grandissime nei risultati ottenuti dai vari individui”(8). A pronunciare queste parole è uno dei santi protettori dell’educazione musicale; uno studioso delle cui armi preziose ci serviamo spesso nelle nostre battaglie per inserire la musica nella scuola: Howard Gardner! E infine: “E’ chiaro che all’arte musicale dovrebbero consacrarsi solo i soggetti particolarmente dotati, vale a dire che possiedono le necessarie qualità di comprensione dei suoni e, necessariamente, quelle di sensibilità di nervi e di elevatezza di sentimento”. E ancora: “Quando fosse fatta la classifica delle intelligenze e delle incapacità, incoraggiate le attitudini e le nullità rese poco dannose, l’insegnamento si eserciterebbe evidentemente in maniera più efficace”. “Sarà dunque opportuno, dopo un certo tempo di osservazione, di non permettere il proseguimento degli studi musicali ad ogni allievo che sia privo di voce e di orecchio intonato, e altresì di senso della misura e del ritmo!”. (9)(Émile Jaques-Dalcroze, uno dei padri della didattica musicale del Novecento).
L’animazione è proprio il terreno dove queste posizioni possono essere energicamente smentite, con la prova dei fatti. Se vogliamo, con la dimostrazione che tra “il minorato e l’uomo di capacità eccezionale si estende una serie ininterrotta di tipi catalogabili per gradi. Il metodo di insegnamento che si rivela adatto per il tipo di livello più basso sarà adatto, con le opportune modifiche, anche per quello di livello più alto”.(10) E’ la legge formulata da Jerome Bruner, in base alla quale esiste “una profonda continuità tra l’attività svolta da uno studioso all’avanguardia della sua disciplina e quella svolta da uno studente che l’accosta per la prima volta. […] La differenza è nel grado, non nella specie. L’alunno che apprende la fisica “è”, un fisico”. (11) Analogamente, come l’alunno che impara la fisica è un fisico, sia pure un piccolo fisico, così l’allievo che studia musica è un musicista, sia pure un piccolo musicista. Il bimbo che improvvisa con la voce non si comporta in maniera sostanzialmente diversa dal compositore alla frontiera dei suoi mezzi compositivi.
Tutti possono servirsi della musica, tutti possono far emergere la propria musicalità (replicheremo a Lévy-Strauss), tutti possono comporre (a Gardner), tutti hanno diritto a vedersi offrire un’istruzione musicale (a Dalcroze). A condizione che l’insegnante sappia assumere le modalità dell’animatore culturale, non quelle del magazziniere della cultura. Il vantaggio assoluto dell’animazione è che presenta alle persone un volto dell’esperienza musicale molto gratificante, capace di riscattarla dalle connotazioni negative che troppo spesso la caratterizzano nella scuola. L’insegnamento anche il più formalizzato ha tutto da guadagnare ad applicare le sue tecniche. L’animazione ha naturalmente le sue tecniche, così sviluppate da essersi ormai costituita in disciplina, in sistema, con la sua sterminata letteratura. E come ogni disciplina che si va consolidando, ha fatto suoi i risultati e le tecniche di discipline dell’area antropologica e psicologica, psicologia clinica, psicologia dei processi relazionali, della prevenzione del disagio, tecniche psicologiche applicate alla salute psicosociale, le varie forme di psicoterapia, psicologia psicodinamica, la programmazione neurolinguistica, la psicanalisi… La sfida per la didattica è capire quanto di tali tecniche, della psicologia o del gioco, sia trasferibile nell’insegnamento. E qui si riapre la divaricazione persona/cultura, che esige una nuova armonizzazione. Rispetto ad altre discipline, a cominciare da quelle scientifico-matematiche, la musica ha – lo dimostrate bene voi nel Centro – uno straordinario potenziale di sollecitazione mentale e affettiva. Voglio dire che potrebbe, dovrebbe, essere usata, molto di più di quanto non sia, prima di tutto nelle strutture psicoterapeutiche (penso proprio al musicista che collabora fianco a fianco con lo psicologo, là dove lo psicologo non sia musicalmente preparato). Qui non conta la crescita musicale della persona. Conta solo il suo benessere. Che la musica è straordinariamente in grado di favorire.
Anche a scuola tutto questo è fondamentale, ma guarda caso la scuola, dicevo, ha anche il compito di promuovere la crescita culturale della persona, mi vien da dire il “benessere culturale”, il benessere della persona in quanto si sente inserita attivamente nel tessuto culturale della sua comunità, vi partecipa e ne gode i frutti. E allora sappiamo bene che dobbiamo confrontarci con i vincoli strutturali della scuola, a cominciare da quelli logistici, spaziali. Una sfida, un obiettivo che si apre alla ricerca e alla sperimentazione. Argomento cruciale, nemmeno sfiorabile adesso, la preparazione degli insegnanti/animatori. Il mio sogno è che le tecniche psicologiche entrino a far parte del loro armamentario professionale. Non solo di un insegnante di musica. La prof di Disegno geometrico di mia figlia quattordicenne “ruba” ogni settimana spazio alle sue ore per animare i ragazzi in tecniche yoga… Spingo il sogno fino alla provocazione. Il quadro orario della scuola della cosiddetta riforma, dalla primaria ai licei, assegna un numero esorbitante di ore all’insegnamento dell’italiano. Esorbitante perché vedete non c’è insegnante di alcuna materia che nelle sue ore non insegni simultaneamente la lingua italiana. Non comunichiamo tutti con i ragazzi attraverso il linguaggio verbale? Non lo facciamo forse noi di musica…? Cosa c’entra questo ragionamento? Ma se l’insegnante di musica usa quotidianamente il linguaggio verbale con i suoi ragazzi (e con ciò insegna anche l’italiano), perché non potrebbero gli altri insegnanti usare il suono, usare la musica nei loro OSA nei loro UDA e nei loro PECUP? E se fossero disponibili, e preparati, a inserire nelle loro giornate tecniche animative desunte dalle diverse scuole psicologiche, perché non potrebbero usare come materia prima proprio il suono e la musica? Capite quali spazi si potrebbero aprire per le attività del Centro? L’animazione non si serve solo di tecniche psicologiche. L’animazione sfrutta anche principi e tecniche proprie della teatralità, della spettacolarizzazione; e quelle del gioco – quel gioco tanto inviso ai nonni (i vostri nonni, i mie padri…).
A proposito del gioco. Ho cominciato dicendo che buon insegnante è quello che sa essere animatore. Chiudo con il reciproco. Che lo voglia o no, l’animatore è sempre un po’ insegnante… L’animazione è insegnamento nel senso che ogni interazione umana comporta apprendimento. Quello che s’impara a scuola è molto meno di quello che s’impara fuori (famiglia, compagni, media ecc.). Allora l’animatore può assumere ancora più consapevolmente questo ruolo. In fondo è lui che decide il gioco il più delle volte, decide su quali esperienze animare i soggetti. Faccio un solo esempio, riguardante proprio il gioco, inteso come viatico dell’educazione musicale del bambino. E’ attraverso il gioco, sappiamo, che il bambino apprende. Libero com’è dai condizionamenti socio-culturali dell’adulto, è anche disponibile a giochi che appartengono a culture diverse da quella di appartenenza. Ecco allora l’opportunità di praticare giochi musicali di bambini di etnie diverse. C’è uno studio che trovo molto interessante sui giochi infantili nel mondo, e sul fatto che ognuno rispecchia la civiltà di appartenenza. Un esempio, che traggo da un mio articolo che esce nel numero di novembre della rivista Amadeus. In Cina c’è un giorno significativo, il giorno della “pulizia delle tombe”, il Qing Ming Jie: rito importante per una civiltà basata sul rispetto degli antenati. Collocato all’inizio di aprile, serve anche come festeggiamento per l’arrivo della primavera. Ma c’è un aspetto di questo rito che ha molto da insegnare anche ai nostri bambini, ed è legato al gioco degli aquiloni. In Cina gli aquiloni venivano adoperati dagli eserciti per mandare i loro messaggi. Nel Qing Ming Jie vengono fatti volare dai bambini cinesi per un rito liberatorio: durante il giorno della “pulizia delle tombe”, si scrivono sugli aquiloni tutti i dolori, i dispiaceri, i malanni, e si affidano agli aquiloni perché il vento li porti via… L’animatore che sceglie di riproporre ai suoi bambini il gioco degli aquiloni con le implicazioni simboliche che comporta, arriva a sensibilizzarli ai valori culturali che l’usanza esotica incarna. A Montopoli Sabina gli aquiloni vengono fatti volare per “tenere alta la speranza di pace”. Sono esperienze a cui la musica, fatta e ascoltata, può fornire una allettante e significativa colonna sonora.
Un altro esempio: “un canto come One potato, two potato, che fissa chi esce per primo (o chi riceve un certo oggetto), riflette tradizioni anglo-americane di turnazione, di competizione, di regole. I dialoghi a domanda e risposta nelle pratiche dei bambini afro-americani riflettono l’importanza delle tradizioni comunitarie e collaborative tanto apprezzate nella loro cultura. I canti saltellati dei bimbi dell’India enfatizzano la cultura infantile collettiva nella quale crescono, in quanto saltano insieme sulle rime che cantano”. (12)
Ecco allora un altro terreno di incontro fra animazione e insegnamento. Qui non è in cantiere solo lo sviluppo delle competenze musicali, e nemmeno solo il contributo al benessere del bambino. Qui è in gioco anche l’acquisizione (e dunque l’insegnamento) di una competenza relazionale: la capacità di accettare il diverso e di far propri i suoi valori. Allora nel bambino “competitivo” della nostra cultura possiamo inoculare comportamenti “collaborativi” propri della cultura africana, facendolo giocare alla maniera africana. Viceversa c’è da sperare che la pratica dei nostri tipici giochi di regole possa favorire nell’immigrato una familiarità con i nostri valori. Il gioco funziona cioè per l’uno e per l’altro come un prezioso “vaccino di tolleranza”: inocula meccanismi positivi di accettazione di nuove norme e impedisce che crescendo barricato nella cultura d’appartenenza il bambino arrivi a maturare un rifiuto intransigente nei confronti dei valori della società diversa. Questo, fra parentesi, fa capire quanto sia nevralgica l’educazione della prima infanzia, e quanto cruciale la responsabilità dell’educatrice. Perché recuperare la disponibilità a far proprio il diverso è meta tanto più problematica quanto più il bambino è cresciuto. Anche se credo che debba essere una delle finalità più importanti dell’educazione, in tempi come quelli che stiamo attraversando.
NOTE
(1) L.Buscaglia, La via del toro, Milano, Mondadori, p. 10.
(2) L’animation musicale, Paris, INA GRM, 1979 p. 15.
(3) J. Paynter, “Music education and the emotional needs of young people”, in New patterns of music behaviour of the young generation in industrial societies, a c. di I. Bontinck, Wien, Universal, 1974, p. 162.
(4) Ho citato altre volte queste due perle, così significative della mentalità didattica (e non solo didattica!) di quel tempo. Il discorso di Pizzetti (“Le scuole di musica e l’attività musicale professionale”), fu pronunciato al Convegno Musicale Didattico dei Presidenti e Direttori di Conservatorio (Venezia 1938) e pubblicato lo stesso anno dalla Rassegna Musicale, pp. 368-74 (il passo è a p. 369). Per la seconda perla, cfr il mio Interrogare il passato (Fiesole, Centro di Ricerca e di Sperimentazione per la Didattica Musicale, 1997, p. 28).
(5) Ch. Leonard, Recreation through music, New York, Ronald Press, 1952, p. 2.
(6) Le Galiniste, n. 5, Mai 1891, p. 771. Cit. da W. L. Forbis, The Galin-Paris-Chevé method of rhythmic instruction: a history, Ph. D. Diss., George Peabody College for Teachers, 1972, p. 127.
(7) C. Lévi-Strauss: Il crudo e il cotto, Milano, Il Saggiatore, 1966, p. 36.
(8) H. Gardner, Formae mentis, Milano, Feltrinelli, 1987, rispettivamente p. 98, 123, 52. Gardner riprende l’immagine della “mente che secerne musica” da Claude Lévy-Strauss.
(9) E. Jaques-Dalcroze, Ritmo, musica, educazione, Milano, Hoepli, 1925, rispettivamente p. 4, 16, 27.
(10) A. Huxley, Saggi sull’educazione, Roma, Armando, 1974, p. 87.
(11) J. Bruner, Dopo Dewey, Roma, Armando, 1967, p. 68 e 54.
(12) Chooi-Theng Lew J. – Campbell P. S., “Children’s natural and necessary musical play: global contexts, local applications”, Music Educators Journal, May 1975, p. 58.