Musicheria. La rivista digitale di educazione al suono e alla musica

Note in margine al libro ‘Farsi sentire’

Giuseppe Colombo

La musica nei processi socioeducativi

Commento sul libro di Gabriele Marinoni, Betty Lazzarotto, Silvia Cornara, Maurizio Vitali, Farsi sentire. La musica nei processi socioeducativi, FrancoAngeli, Milano.

Parto dal presupposto che il titolo riassuma il senso di un libro. E prima ancora di leggerne in dettaglio il testo ho voluto lasciarmi suggestionare dal titolo del libro dove sono tre gli elementi in evidenza che prendo a modello paradigmatico del processo pedagogico, Il fare, Il sé del soggetto, Il sentire, e mi danno spunto per una riflessione e un avvio di questa conversazione attorno all’opera di questi operatori del sociale. Li prendo in considerazione prima in maniera disgiunta singolarmente perché per ogni elemento vi si può ravvisare un contenuto di significato precipuo del lavoro socioeducativo; poi nel loro significato lessicale che esprime il senso del titolo.

Il fare
La pedagogia è sostanzialmente una prassi, un agire, un “agere” dove l’agito è ciò che è stato condotto a termine e dove condurre il bambino è favorire il portare a compimento l’identità del soggetto. Qui si parla di tanti progetti dove si sottolinea la caratteristica di curarne la metodologia (come fare) e di modularne i contenuti (che cosa fare). E’ un fare non necessariamente riducibile al materiale; si parla infatti di progetti e di idee che si fanno coi giovani, di progetti che si vivono con gli anziani, di servizi che si offrono alle famiglie, di percorsi che accompagnano dei malati; ma queste progettualità si concretizzano in azioni che trovano nel musicale la sua cifra e di modalità strumentale e di contenuto.

Il sé del soggetto
Il sé del soggetto operatore, ma anche il sé del giovane, dell’anziano, del malato, del bambino; qui per ognuno preso nella sua modulazione riflessiva Ora il sé riflessivo dice di una identità relazionale che in prima istanza coinvolge il soggetto proponente del fare; nella sua volontà di essere trasparente all’altro di essere colto, di essere visto, qui di essere sentito. Un sé riflessivo che è presupposto a qualsivoglia volontà di agire per o con l’altro; perché la relazione quando è intenzionale, pretende, da parte del soggetto che la intenziona, di essere osservata e fatta oggetto di una riflessione appunto. Ma questo lavoro su di sé comporta di conseguenza nell’operatore prima ancora che nel giovane, nell’anziano nel bambino e nel malato, una capacità di individuare le forme e le modalità più idonee e adeguate per dirsi nella comunicazione.

Il Sentire
Il sentire richiama alla mente tre dimensioni :
– quello del sentire interiore che chiamiamo sentimento; un sentire che è prima di tutto contatto con la propria e altrui intimità. L’intimità è una qualità dell’essere. Stare dentro di sé, per stare accanto al sé dell’altro, permette di sentire il suo essere prima ancora di vedere i suoi comportamenti. Educare non è solo questione di comportamenti è innanzitutto intenzionalità di essere a contatto con l’altro nella sua esistenza, stare accanto ai suoi sentimenti, perché l’altro non si senta solo, (Bettelheim diceva che i genitori devono saper soppesare i sentimenti dei figli) stare accanto al tuo sentire.
– quello dello stare a sentire nel senso del dare ascolto: “Ho sentito la tua voce e ho risposto…” dice Dio a Mosé. Sentire il rumore dell’altro le sue voci forti e flebili le sue parole e i suoi suoni . Tutto questo richiama la capacità di ascoltare che a mio avviso, e non solo, rappresenta la dinamica più peculiare dell’educatore. Non è forse questo testo lo sforzo di operatori per affinare il loro apparato trasmittente a partire dalla centralità del ricevente e della sua parola ascoltata? Non è forse questa la dinamica che vede l’operatore impegnato in una relazione d’aiuto dove principale protagonista è il soggetto che ne richiede la sua presenza? Dove cioè la presenza dell’operatore si fa discreta e più attenta a cogliere il clima dentro al quale è data la possibilità a un soggetto di esprimersi per dono dell’altro. Stare, solo con l’aiuto di qualcuno. Stare solo, con l’aiuto di qualcuno. È il binomio della pedagogia kirkegardiana.
-Il sentire come esercizio dell’udito dello stare a sentire con l’orecchio fisico; ora l’udito è uno dei sensi che meno si ritira nel sonno e dice ( come Marinoni accenna nel suo articolo) la necessità di avere sempre un sottofondo di suoni e rumori per poterci dire vivi anche nel sonno , sentirci svegli e presenti. Ora esplorare le sonorità dell’ambiente implica la cura dell’ambiente e porre attenzione alla qualità sonora degli oggetti della quotidianità (nido sonoro) Qui il sentire si definisce per il suo complemento oggetto che è vibrazione dell’aere che assume le tonalità dei rumori della parola e dei suoni. Come le parole divengano vita o dicono della vita e inaugurino un colloquio con se stessi e con gli altri è questione preminentemente pedagogica.

Far-si sentire
E’ interessante notare questa sottolineatura: che la relazione implica lo sforzo intenzionale di Farsi sentire. Far-si e far-ci sentire implica una reciprocità e una complementarietà tra diversi attori della relazione; questa reciprocità è qui più volte espressa nella convinzione che i processi educativi si esplicano dentro una rete di relazioni complessa, processi educativi che richiedono cioè il coinvolgimento di più attori protagonisti: soggetti interessati, operatori e loro servizi, familiari. E come per la fisicità del fenomeno uditivo abbiamo bisogno dell’aria per “Farci sentire” di un mezzo che trasporti degli input e di un apparato ricevente che li trasformi in un percepito così credo abbiamo bisogno di un media per dire cosa abbiamo fatto in questi anni di lavoro sociale coi giovani, con i bambini, con gli anziani con i malati . Fuori di metafora qui il mezzo è il contesto progettuale dove i soggetti possono educare il proprio apparato ricevente; educarsi al sentire educarsi al Farsi sentire, anche quando sembra che non ci sia nulla da dire, anche quando le persone sembra “girare a vuoto”, anche quando le prospettive di vita sono ridotte. Allora nella sua titolazione questo piccolo saggio che riporta l’esperienza di un gruppo di operatori cosa ci dice?
A. Ci dice della necessità di stare nella relazione con i soggetti, specie quelli più “vulnerabili” o deboli o marginali ,con una capacità di essere innanzitutto ascoltabili e credibili; con una capacità di scoprire vie e possibilità di agio e di benessere personale e sociale che guadagni il senso del proprio vivere. Diceva una mamma in un laboratorio psicomotorio dentro un centro per l’infanzia : “divertirsi, ridere e giocare con il proprio figlio è la migliore linfa del sapere”
B. Lo sforzo descritto dagli autori di questo piccolo testo non è solo quello che ci è testimoniato nella descrizione di una elaborazione metodologica e nella metariflessione sul loro operare, ma anche quello relativo alla modalità con cui i bambini, i giovani, gli anziani e i malati sono riusciti ad esprimere pezzi della loro vita: ciò è stato possibile solo per un preciso atteggiamento degli operatori: recuperare i punti di vista dei soggetti, le loro potenzialità sonore; senza adultizzare i loro mondi interiori o dare loro in pasto prodotti preconfezionati da consumare.
C. Dice la scoperta di prassi educative musicali nei vari contesti, delle condotte esplorative di contatto con l’ambiente, di condotte rappresentative simboliche e di condotte organizzative rituali. (Delalande)
D. Dice la scelta di stare sullo sfondo, o meglio di fare da sottofondo perché possano emergere nuove sonorità da consegnare al futuro. Ma in questo stare sullo sfondo sono implicati tutti i soggetti è un farsi sentire insieme come gruppo La cifra pedagogica nel lavorare con i bambini sta nella scelta di non appiattirsi sull’accudimento o di enfatizzare il tecnicismo educativo (un bambino vuoto da riempire di competenze) qui l’approccio è segnato da un certo senso d colpa dei genitori e da un mascheramento dietro l’enfasi di un tecnicismo educativo di un ruolo sentito troppo surrogatorio da parte dell’operatore. Diversamente in questo farsi sentire sono tre le parole chiave: quotidianità ritualità fiducia vita di gruppo inteso questo come strumento per facilitare la differenziazione, ma anche come soggetto collettivo che crea appartenenza.
E. Farsi sentire anche quando il rischio di cadere nella trappola della incomunicazione è in agguato: “Ti parlo di me per non dire nulla di me”; i pazienti psichiatrici (ma non solo loro anche i bambini e i figli adolescenti) imparano velocemente cosa dire per “farci sentire” bravi Comunque è importante “Far sentire” a quelli che ci ascoltano che noi siamo interessati a loro alla loro esistenza indipendentemente dal loro apparire. Bella la metafora del viaggio per mare (la nave dei folli) “il folle come passeggero per eccellenza perché prigioniero del Passaggio” Di fronte al folle la musica ci permette di avvicinarci a questa unicità a questo passeggero che sta sulla soglia! La musica mi pare possa dirsi un linguaggio che trascende il nostro essere contingenti e contestualizzati, perché tutti lo capiscono. Nella Bibbia si parla di Dio che scendendo sulla torre di Babele abbia voluto confondere la lingua degli uomini per la loro presunzione; ma non ha tolto loro la possibilità di un linguaggio che tutti possono comprendere: la musica.

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