La pratica musicale per condividere un linguaggio
Sono diversi anni che mi occupo di didattica musicale svolgendo progetti e laboratori in molte scuole. Tre anni fa all’interno del Circolo Didattico di Codogno, dove svolgo attività come docente titolare, ho accettato l’incarico come funzione strumentale per gli insegnanti mettendo a disposizione le mie conoscenze e la mia esperienza nel campo musicale. La mia prima riflessione è stata sicuramente rivolta alla didattica.
Ho analizzato il percorso svolto con i bambini e mi sono chiesta quali fossero le finalità e le caratteristiche da me ricercate all’interno di un progetto sviluppato con gli alunni. Mi è venuto subito in mente il termine “coinvolgimento”. E’ infatti essenziale, a mio parere, che i bambini vivano le esperienze musicali in modo diretto poiché solo così riusciranno ad interiorizzare gli obiettivi che vogliamo perseguire e che successivamente elaboreranno anche razionalmente. Forse fino qui non ho aggiunto nulla di nuovo rispetto a quello che si legge in molti libri; ma ciò che è fondamentale è capire il perché.
La musica è prima di tutto un linguaggio e in quanto tale serve appunto per comunicare. Penso davvero che la pratica musicale permetta agli alunni di conoscere e sviluppare la conoscenza tecnica di questo linguaggio ma soprattutto di provare immediatamente a comunicare attraverso di esso. La condivisione di uno stesso linguaggio e la ricerca di una comunicazione penso che siano per l’uomo una delle esperienze più qualificanti. Pertanto ho pensato che di sicuro avrei parlato ai docenti delle mie esperienze riguardo alla didattica, avrei costruito con loro dei percorsi concreti da svolgere nelle classi. Tutto ciò però avrebbe avuto poco senso se gli stessi insegnanti, non avendo mai avuto occasione di fare “pratica musicale”, non avessero capito che insegnare la musica vuol dire soprattutto comunicare attraverso un linguaggio. In quel momento ho capito che i docenti dovevano fare esperienza musicale insieme.
Tre anni fa nel Circolo didattico di Codogno, grazie alla piena disponibilità del Dirigente scolastico, sempre attento alle sperimentazioni, nasceva il Teachers’ Gospel Choir. L’esperienza all’inizio ha richiesto molte energie sia agli insegnanti che a me. Infatti la maggior parte dei partecipanti non si era mai messa in gioco con la voce e non aveva mai cantato uno spartito. Il repertorio inoltre doveva essere sempre trascritto e riadattato sia come estensione vocale che come ritmica poiché lo studio a più voci risultava molto complesso.
Durante gli incontri spesso capitava che alcuni docenti arrivassero alle prove con la mente occupata, o con poca voglia di mettersi in gioco, ma poi mentre si cantava le voci si univano, i difetti di ciascuno si annullavano e tutti ritrovavano energia attraverso la musica.
Dopo circa un anno il repertorio annoverava alcuni canti Gospel tra i quali: Rock my soul, nella versione a tre voci con entrate in successione; Kumbaya liberamente rielaborato sia come tessitura vocale che come parte ritmica. La difficoltà maggiore incontrata in questo brano è stata rappresentata dall’attacco iniziale a più voci su tre note differenti. Con questo canto abbiamo sperimentato anche il cambio di misura. Infatti l’esecuzione inizia lentamente, in modo solenne e si chiude apparentemente per riattaccare subito dopo con un tempo molto più veloce. Un altro canto, Nobody Knows the troubles I see, è risultato piuttosto difficile per l’estensione vocale. Infatti, nonostante fosse stato riadattato, la tessitura piuttosto ampia del brano ha reso necessario mantenere due voci un pò più acute. Soprattutto alcune note (comunque collocate nell’ottava centrale: la, si) sono risultate difficili da intonare, anche se ciò deve essere considerato assolutamente regolare se pensiamo a persone adulte che non hanno mai messo in gioco la voce attraverso il canto.
Insieme al repertorio Gospel sono stati studiati alcuni canoni etnici utili sia per la didattica che per alleggerire il percorso rendendolo divertente. L’apprendimento del repertorio era basato soprattutto sull’imitazione anche se in alcuni casi lo spartito era un valido punto di riferimento soprattutto per individuare l’andamento melodico e l’altezza delle note, un pò meno utile invece per la lettura ritmica. Un’altra grossa difficoltà è stata rappresentata dall’associazione delle note con le parole resa più complessa dai testi in lingua straniera. E’ stato sviluppato un percorso vocale associato a qualche sperimentazione sul ritmo; inoltre abbiamo dovuto condividere il linguaggio dei segni che deve conoscere un coro: attacco iniziale, conclusivo, dinamica, cambi di tempo ecc.
L’anno scorso il 13 dicembre durante un Collegio docenti ci siamo finalmente esibiti e nonostante la paura e la titubanza di chi non aveva mai cavalcato un palcoscenico il ricordo di quel giorno è ancora vivo.
Non so fino a dove ci porterà questa esperienza e fino a quando sarà percorribile, però mi rendo conto che attraverso di essa nelle scuole si è potuto condividere un nuovo linguaggio che forse porterà a vedere anche la didattica musicale da altri punti di vista.
Concludo ricordando un confronto avuto con una insegnante che mi ha fatto molto pensare, solo oggi capisco quanto sia importante la risposta alla sua domanda. La sua riflessione metteva in luce il fatto che un’esperienza come la nostra del coro, sicuramente coinvolgente e positiva, trovava però poco riscontro nella didattica se non supportata da ulteriori incontri specifici rivolti al tema della vocalità nella scuola. In un primo tempo ho ritenuto che l’obiezione fosse valida, ora risponderei che possa sempre essere ritenuta valida ma non per i motivi esposti. Ritengo sia sicuramente utile capire come sviluppare anche con i bambini un percorso legato alla voce, ma penso anche che la nostra esperienza sia stata comunque indispensabile per capire che la musica deve essere vissuta come linguaggio e, non essendo un linguaggio verbale, per comunicare attraverso la musica bisogna “fare pratica”.