Autore del libro “I bambini pensano grande. Cronaca di una avventura pedagogica”
Franco Lorenzoni è maestro elementare a Giove, un piccolo paese dell’Umbria. Dal 1980 coordina ad Amelia, in provincia di Terni, la Casa-laboratorio di Cenci (www.cencicasalab.it), un centro di sperimentazione educativa e di ricerca su temi ecologici, scientifici, interculturali e di inclusione. Personalità di spicco del Movimento di Cooperazione Educativa, ha recentemente pubblicato “I bambini pensano grande. Cronaca di una avventura pedagogica” (Sellerio, Palermo 2014) in cui racconta un anno di vita di una quinta elementare, «ascoltando nascere giorno dopo giorno parole ed emozioni, ragionamenti, ipotesi e domande, che emergevano dalle voci delle bambine e dei bambini».
Con riferimento al libro, abbiamo rivolto a Franco alcune domande.
Musicheria: Nel libro racconti che da quando hai cominciato a insegnare hai sempre avuto l’abitudine di registrare ciò che dicono i bambini, a volte prendendo appunti, altre utilizzando registratore e videocamera. Un modo per dare valore alle loro parole, dici. Da dove arriva questa bella abitudine? Sembra una condotta simile a quella “etnografica” a orientare questo stile, tipico di chi osserva le culture orali e popolari. Puoi dirci qualcosa in più?
Franco: Questa pratica l’ho appresa nel Movimento di Cooperazione Educativa di Roma, il luogo dove mi sono formato come maestro. Da molto tempo osservo quanto i pensieri infantili siano fragili, volatili. Bambine e bambini hanno un enorme desiderio di dire la loro e, se costruiamo piano piano un contesto di ascolto e di fiducia reciproca, alla fine tutti arrivano a dire la loro. Il problema è che spesso i bambini non sono ascoltati o vengono ascoltati solo strumentalmente, cioè non si presta loro davvero attenzione e non si dà peso alle loro parole. Penso perciò che il primo lavoro che dobbiamo fare, se vogliamo costruire un ambiente di apprendimento ricco, sia quello di restituire ai bambini le loro parole, trascrivendole e dando loro la possibilità di ritornarci su rileggendole. E’ una pratica, questa, che ha una lunga tradizione alle spalle. Parte da Celestin Freinet e non solo da lui e, in Italia, ha avuto il più noto dei suoi rappresentanti in Mario Lodi, magnifico maestro che per anni, con i suoi bambini, ha stampato addirittura un quotidiano in classe, per raccogliere e dare valore alle loro parole. Mi incuriosisce questo paragone che fai con la ricerca etnografica. Non ci avevo mai pensato ma in effetti, da molti anni, tra i bambini mi comporto un po’ come un etnologo in cerca di reperti vivi di una cultura che si perde giorno dopo giorno: la cultura infantile. E’ una cultura diversa dalla nostra, perché mescola molte cose che noi distinguiamo rigidamente, perché confonde volentieri il dettaglio con l’insieme e, soprattutto, è capace in modo straordinario di quella sospensione dell’incredulità che è un bene prezioso, perché ci permette di godere dell’arte e di immaginare mondi diversi dal nostro, per tanti versi così ingiusto e incapace di prendersi cura dei bambini, di tutti i bambini.
Musicheria: Nel tuo libro (p. 172) affermi che «il ritmo, la musica e il canto, sono il territorio più adatto dove sperimentare la trasformazione di una classe di bambini in un gruppo di ricerca. È cantando e ascoltandoci cantare insieme che piano piano ci si conosce e ci si rivela reciprocamente, perché la voce che canta è nuda, diretta, disarmata. Proprio per questo può essere assai difficile, per alcuni, cantare. Ma ho sempre colto nel canto una possibilità di costruire comunità lontano da parole, ragionamenti e atteggiamenti che creano ostacoli e diffidenze». Puoi illustrarci modalità e contenuti dell’educazione musicale così come è praticata nella tua scuola?
Franco: Amo molto la musica, ma non ho particolari competenze musicali e dunque raramente mi è capitato di insegnarla ai bambini. Da molti anni, tuttavia, mi piace cominciare la giornata cantando in classe canti di diverse culture: africane, tzigane o dei nativi americani. Sono infatti convinto che cantare insieme giocando con la voce rallegri e faccia circolare molta energia. Poiché la mia ricerca didattica si fonda sull’ascolto reciproco, il territorio del canto è per me un luogo privilegiato perché per cantare insieme, per far sì che le voci di ciascuno entrino in risonanza con le voci degli altri, c’è bisogno di ascolto e di attenzione. In prima e seconda elementare, ad esempio, quando alcuni bambini faticano assai ad imparare a leggere e scrivere, giocare con parole sussurrate, cantate, suonate a piena voce oppure urlate fa molto bene, perché aiuta ad aprire la bocca, a lanciare la voce lontano, a restituire dignità ai suoni vocali scanditi dalle consonanti. A scuola ci si dimentica spesso che la lettura c’entra con l’aria, col respiro, col corpo tutto intero che suona. I greci chiamavano la letteratura musikè perché nelle culture orali la memoria era sostenuta dal ritmo, dalla musica che accompagnava i canti epici. I bambini, fin da piccolissimi, hanno un rapporto molto intenso con il ritmo, che entra in molti loro giochi. In modo un po’ improvvisato e non sistematico, cerco spesso di fissare nella composizione di piccole canzoni alcune esperienze vissute. Nella seconda dove lavoro quest’anno abbiamo così composto diverse canzoni legate ad attività che ci avevano particolarmente colpito, come la vendemmia o l’ascolto della pioggia. Quest’ultima attività di ascolto si è poi trasformata in un canto comico perché i bambini, in una improvvisazione in classe, hanno cominciato a tirarsi le scarpe che ci eravamo tolti ed è nata una canzone intitolata Piovono scarpe, divertentissima, che abbiamo anche messo in scena a dicembre.
Anni fa venne a trovarci a scuola una donna, proveniente da una scuola della Somalia con cui siamo gemellati. Si chiamava Mana e ci ha raccontato che il somalo è una lingua orale che ha conosciuto la scrittura solo da pochi decenni. Bene, in quella lingua ci sono molte vocali tra le consonanti ed il motivo è che quasi tutta la vita, in Somala, si svolge all’aria aperta. Così, per parlarsi e capirsi da lontano, bisogna coprire distanze prolungando i suoni della voce e quasi cantando, con intensità. Ed ecco che, nella scrittura, quei suoni forti e lunghi si sono condensati in tante vocali uguali, una accanto all’altra. I bambini si sono molto incuriositi a questo confronto tra lingue ed è stato un modo di ragionare sul rapporto tra gli spazi, la voce e la scrittura, perché le lingue sono musica, prima di essere significato. E’ stato un modo per ritrovare il corpo nell’alfabeto.
Credo che l’attenzione ai suoni e il canto, non dovrebbero essere confinati alle ore di musica, che tra l’altro non sempre si fanno per tutto il tempo che è previsto, purtroppo, nella scuola elementare…
Musicheria: In un recente contributo sul Sole 24 ore hai dichiarato che nella scuola sarebbe necessario proporre meno contenuti, ma affrontarli in modo più accurato, approfondito, per combattere il pericolo della semplificazione, che hai descritto come il grande nemico di ogni crescita culturale. Dal tuo punto di vista, più distante e meno schiacciato del nostro sulla disciplina musicale, quali sarebbero i contenuti fondamentali e indispensabili dell’insegnamento della musica nella scuola del primo ciclo e a cosa, invece, rinunceresti senza particolari problemi?
Franco: Come ho già detto, non ho particolari competenze, ma credo sia molto importante giocare con le percussioni fin dalla scuola dell’infanzia. Ho visto il mio amico Luciano Bosi, esperto di percussioni, fare cose bellissime con bambini molto piccoli, arrivando a proporre alle scuole l’acquisto di seggioline che si possono trasformare facilmente in strumenti ritmici. Il ritmo è presente ovunque: nell’architettura, nell’arte, nella vita, a partire dal battito del nostro cuore. E’ bello giocarci con i bambini e cercare ritmi può aiutare, tra l’altro, a incontrare giocosamente la matematica, disciplina che ha molte parentele con la musica. Il problema è che queste assonanze sono ancora troppo poco esplorate dalla scuola. La musica ha poi molto a che vedere con la memoria, perché un testo, se lo si canta, lo si ricorda meglio, e devo che più volte mi è capitato di “strumentalizzare” la musica, mettendo in canzone memorie difficili da ritenere, come i nomi delle parti del fiore e persino le tabelline… Non so se è una cosa giusta da fare e certo ha poco a che vedere con l’insegnamento della musica. Però i volti di bambine e bambini, come entra in scena il cantare, si riempiono di sorrisi e questa, per me, è una ragione sufficiente per mettere in canto più campi possibili. Del resto non è cantando che si mandavano a mente gli antichi poemi epici, che furono per secoli deposito fruttuoso di memorie pratiche e fonte di conoscenza per intere generazioni di analfabeti?
Ciò che detesto e vorrei abolire è il playback: vedere bambini che cantano in coro soffocati da musiche a volume alto, che coprono le loro voci. Troppo spesso lo si fa negli spettacoli di fine d’anno e mi fa sempre venire una grande tristezza, perché in quelle condizioni non ci può essere ascolto reciproco, che è una degli incontri più belli che si può fare contando in coro.
Riguardo agli strumenti musicali, penso sarebbe bello che i bambini potessero imparare a suonarne alcuni, non limitandosi ai soli flauti di plastica. Fosse per me trasformerei la maggioranza delle scuole medie in scuole musicali, perché ho visto personalmente quanto il suonare aiuti ragazze e ragazzi a mantenere viva la passione per uno studio sistematico, che richiede continuità e costanza, in una età in cui troppo spesso lo studio e la scuola e diventano nemici agli occhi dei ragazzini. C’è un’ultima considerazione, che riguarda l’epidemia valutativa che da anni ci affligge e che sembra essere l’unica cosa importante da fare nella scuola. Quando si suona e si canta insieme le difficoltà emergono con evidenza e questo può aiutare molto a migliorarsi, se si è costruito un clima di fiducia e si considera ciò che si fa come un’avventura comune. Per imparare a sfidare se stessi cercando di dare il massimo, la compagnia dell’arte può essere di grande aiuto. Viviamo in un mondo in cui tutto deve essere sempre facilitato, perché molte nuove tecnologie e il mercato desiderano trasformarci tutti in consumatori compulsivi di oggetti facilmente accessibili. In questo clima è sempre più difficile educare allo sforzo, mentre sappiamo che non c’è conoscenza degna di questo nome né approfondimento culturale senza uno sforzo. La musica aiuta a ricordarci quanto può essere bello il risultato di questi sforzi.
Musicheria: La tua esperienza formativa ha profonde radici nel teatro e nella “animazione”, metodi e tecniche che, a nostro avviso, “conducono fuori”, oltre le mode e i modi della consuetudine quotidiana, e che, come ogni linguaggio artistico, producono “ribaltamenti”. Pensi che ogni insegnante dovrebbe essere formato anche in questa direzione o ritieni che sia meglio, nella scuola” “appaltare” i linguaggi artistici – musica compresa – a esperti esterni più competenti.
Franco: E’ una grande questione. Personalmente desidererei che tutti i docenti fossero capaci di animare la conoscenza, perché se non si dà anima e vita a ciò che si insegna difficilmente i contenuti culturali vengono accolti e fatti propri da bambini e ragazzi. La vera cultura è sempre critica verso la società e le diverse forme del potere. Come si fa a coltivare la critica se non operiamo ribaltamenti? In fondo tutta l’arte è storia di ribaltamenti e rivoluzioni e anche la scienza non esisterebbe, se non ci fossero state donne e uomini che abbiano messo in forse il modo in cui guardavamo e guardiamo la natura. Il problema è che purtroppo spesso capita che le conoscenze, come entrano nella scuola, si irrigidiscono, si mummificano, sembrano calate dall’alto senza storia, senza il corpo di coloro che le hanno inventate e trasformate di continuo.
Riguardo all’apporto di esperti esterni, il termine appaltare non mi piace. Se vi sono apporti esterni – e non ne sono contrario in linea di principio – penso comunque debba essere la scuola a provare ad intrecciare e ad armonizzare le diverse proposte, rinnovandosi tutta. Altrimenti c’è il rischio che accada che maestri e professori fanno le cose noiose e necessarie e poi ci sono operatori esterni od esperti che si dedicano all’arte, operando separazioni per me inaccettabili. La parola Jouer nomina il suonare, il giocare e il recitare. Separare le arti dalla scienza, dalla letteratura, dalla filosofia e dalla storia sarebbe un delitto. Così, in prima approssimazione, mi viene da rispondere: ben vengano musicisti nella scuola, se sono appassionati non solo della musica, ma anche dei bambini e dei ragazzi a cui sono chiamati ad offrirla con i metodi più attivi e coinvolgenti, e, soprattutto, se siamo in grado di contaminarci tutti e imparare, anche noi adulti, gli uni dagli altri. Se portano con il loro arrivo nuove separazioni, meglio di no.
Musicheria: Dal libro emerge chiaramente come i bambini sanno affrontare anche temi complessi e difficili, come la morte di un loro compagno. “Dare la parola” a bambini e bambine sembra un tratto caratteristico della tua metodologia, e nel “prendere la parola” loro si rispecchiano nella cultura in cui vivono, sviluppando senso di appartenenza e adesione a una comunità. Perché questo accada occorre però che la nostra società riconsideri i tempi di apprendimento, sostando più a lungo e approfonditamente nel dialogo, nella cooperazione, nelle pratiche “artigianali” di un fare e di un pensare condiviso. Pensi che anche il fare-pensare la musica, attraverso l’ascolto, il canto, la pratica strumentale, l’esplorazione e la composizione dei suoni, possa contribuire a rinnovare le pratiche educative e aiutare bambine e bambini ad affrontare meglio le solitudini e le fragilità del presente, guardano al futuro con più fiducia?
Franco: Si, sono profondamente convinto che la musica possa aiutare molto l’ascolto e contribuire a costruire quel senso di comunità che è a fondamento di ogni cultura capace di dialogo. Del resto, fuori della scuola, la musica è il linguaggio privilegiato attraverso cui i giovani si parlano e si incontrano al di là di differenze di lingua, di etnie, di religione. Nel mondo la musica è il principale terreno culturale in cui, da molti decenni, le culture si incontrano e si contaminano. Senza l’apporto dei neri americani non ci sarebbe il Jazz, che ha le sue radici nei ritmi africani, e senza il Jazz non vi sarebbe pressoché nulla della musica che ascoltiamo. Dunque, se la musica è – come diceva Walter Benjamin – l’unica lingua universale rimasta dopo il crollo della Torre di Babele, perché non dargli il valore che merita, viste le tante lontananze che aumentano nel mondo?