Sul flauto dolce e altri aspetti dell’educazione musicale
Tullio Visioli si definisce “compositore, flautista dolce, cantante, didatta” (www.tulliovisioli.it). A lui rivolgiamo qualche domanda su temi che alcuni fatti anche recenti hanno riproposto all’attenzione di chi si occupa di educazione musicale.
Musicheria: Partiamo dal flauto “dolce”, uno strumento che è stato oggetto di attenzione anche in trasmissioni televisive e radiofoniche, sollevando una discussione documentata anche da Musicheria (cfr. l’articolo Flauti dolci e parole amare). Quali sono i pro e i contro per l’uso del flauto dolce nelle scuole primarie e secondarie di I grado, argomento che tu hai anche approfondito in un bell’articolo?
Tullio Visioli: Ogni volta che si parla di attività musicali nelle scuole primarie e secondarie – soprattutto quando vengono interpellate personalità autorevoli nel campo nella musica, ma abbastanza estranee al mondo della scuola – questi personaggi sortiscono delle dichiarazioni provocatorie ‘a effetto’, che subito rimbalzano tra le pagine dei social media, destando reazioni o di consenso o di disappunto. Al noto conduttore televisivo che, come riportato nella discussione documentata da Musicheria, invitava la popolazione italiana a spezzare i flauti dolci o i flautini (sic), inviai un messaggio. Sapendolo un grande appassionato di Fabrizio De André, gli ricordavo le canzoni nelle quali il flauto dolce era inserito in maniera voluta ed esplicita, come ad esempio ne Il suonatore Jones: nella strofa strumentale se ne utilizzano ben due contemporaneamente. E avrei potuto citare anche i Led Zeppelin, i Gentle Giant, i Rolling Stones ma… per la cultura anglosassone, il flauto dolce è uno strumento musicale a pieno diritto. Molto spesso infatti, i detrattori del flauto dolce, allorché si presenti l’occasione di ascoltarlo all’interno di un’orchestrazione (Morricone e Piovani docent) non lo sanno riconoscere e, con candido stupore si interrogano esclamando: “Che bel suono! Ma di che strumento si tratta?”. In sintesi, direi che si parla sempre dell’abuso di questo strumento quando, come altri, diventa un comodo alibi per chi non vuole affrontare le materie musicali in chiave educativa. Di contro, non si parla quasi mai dell’utilizzo ‘virtuoso’ del flauto dolce. In più di una scuola italiana ho incontrato e ascoltato ensemble di flauti dolci (che impiegano tutta la famiglia di questi strumenti (dal sopranino al basso) con risultati eccellenti e avvalendosi spesso di arrangiamenti originali e di grande efficacia. È chiaro che, come per ogni altro strumento e come per la voce, le competenze richieste non possono fermarsi a un livello meno che elementare.
M.: Tu da tanti anni svolgi attività corale con i bambini. Ci sono stati dei cambiamenti nella vocalità infantile? Quali sono le problematiche più ricorrenti nella gestione di un coro di voci bianche? E infine, come conciliare il “far cantare tutti a scuola” (ad esempio una classe intera) con l’organizzare un “coro scolastico” basato di fatto su una selezione?
T.V.: Le voci dei bambini non sono cambiate, è evidente che dal punto di vista evolutivo occorrerebbero secoli su secoli ma, cambiano velocemente i modelli di riferimento a disposizione dei bambini. In una mia comunicazione presentata tre anni fa al Convegno di Foniatria e Vocologia Artistica di Ravenna, ho parlato dei modelli vocali negativi ai quali sono costantemente confrontati i bambini, definendoli come “aree di incompetenza”. Ne ho individuate otto, tra esse vorrei citare Grandi Subito, cioè il plauso mediatico accordato ai bambini che in età precoce cantano, si vestono e si esibiscono come adulti e Solo Solisti, cioè una cultura generalizzata (e vetusta) dove si cresce soltanto per distinzione e non per capacità di relazione. Questa non è un tipo di cultura, se così la si può definire, limitata ai talent show televisivi ma, ahimè, caratterizza ancora un’idea diffusa e socialmente trasversale dei percorsi formativi. La pratica corale, per le sue peculiarità e per il fatto che consiste in un laboratorio collettivo di sperimentazione, apre anche a nuovi modelli di convivenza e socializzazione e si contrappone a tutta questa sorta di miti e di modelli, dove la felicità e la realizzazione personale consistono unicamente nell’acclamazione pubblica e nel divismo. Quest’ultimo poi, è sempre più effimero e prossimo a quanto preconizzato da Andy Warhol e dal suo ‘quarto d’ora’ di celebrità.
Il problema più ricorrente nella gestione di un coro di voci bianche? Il fatto di far amare, accettare e riconoscere ai bambini la loro stessa voce bianca, con tutte le sue caratteristiche di morbidezza, leggerezza, fragilità, timbro e ‘magia’ ineguagliabili. I bambini odierni, come accennavo sopra, hanno poche e limitate possibilità di ascoltare (parlo soprattutto di televisione) un coro di voci bianche nel vero senso del termine. Fortunatamente, negli ultimi anni, qui in Italia c’è stata una vera e propria renaissance nell’attenzione dei compositori a questo repertorio e, mai come in questo momento, si trovano proposte varie, interessanti e diversificate per competenze e fasce d’età. Anche la presenza di direttori di coro, competenti in materia di vocalità e specializzati nel settore, è aumentata e lo dimostra il fatto che qui a Roma, presso la Scuola Popolare di Musica di Testaccio – dove insegno – l’annuale corso Dirigere il coro di voci bianche, è giunto ormai alla diciottesima edizione.
Per la terza domanda, senza voler apparire un utopista, rispondo che se si segue un adeguato percorso educativo e formativo, le differenze tra coro di classe e coro scolastico selezionato, non sono così nette e così in contrapposizione. Per esperienza, so benissimo che se si svolge un’adeguata attività corale a partire dalla Scuola dell’Infanzia, è praticamente garantita a tutti i bambini un’adeguata competenza della voce cantata, unita a una coerente esplorazione del proprio schema vocale corporeo. I ‘dotati’, selezionati tramite imponenti audizioni dalle Istituzioni musicali, sono solo bambini che per condizioni ambientali, esperienze d’ascolto o caratteristiche individuali, resistono a un naturale e progressivo irrigidimento delle potenzialità espressive, in questo caso quelle musicali. Molti miei colleghi, qui a Roma, ottengono da sempre premi prestigiosi, riconoscimenti e soprattutto apprezzamenti da parte di chi ascolta, partendo da cori nei quali non viene operata alcuna selezione, nonostante la difficoltà dei repertori affrontati sia spesso altissima. Si può tranquillamente affermare che, la competenza di chi dirige un coro e la motivazione, uniti alla passione e al piacere di cantare insieme dei bambini, possono produrre dei veri e propri prodigi.
M.: Hai composto molti canti per i bambini. Quali sono i criteri che un compositore dovrebbe tener presente e come interpreti la “musicalità” dei testi? (per un approfondimento si rimanda all’articolo Comporre per bambini e ragazzi: riflessioni “oblique”)
T.V.: Partendo dal presupposto che anche la musicalità stessa dei bambini è in continua evoluzione, un compositore deve anzitutto conoscere la voce dei bambini, sapere che, con la crescita c’è uno sviluppo, una progressione in queste stesse voci e che, in rapporto a un apparato vocale ancora in formazione, sono sostanzialmente fragili. Non dico che occorra essere dei foniatri o dei logopedisti, ma, che occorre conoscere la fisiologia della voce dei bambini e riconoscerne le caratteristiche principali, compresse le possibili disfunzioni. Molto spesso, ci sono raccolte di canti destinate ai bambini della scuola dell’infanzia o primaria con estensioni impossibili anche per chi studia canto in Conservatorio. A causa di questo motivo assistiamo a saggi di bambini che urlano e si affannano su basi musicali che sostengono canti fuori estensione, sia nella parte acuta che – fatto non abbastanza sottolineato e ugualmente (se non di più) dannoso – nella regione grave.
Chi compone musica per bambini deve saper graduare e dosare le difficoltà, elaborando con cura la sue proposte musicali, immedesimandosi nelle stesse difficoltà dei bambini e nei loro ‘punti di forza’. Inoltre, il fatto di produrre, per i più piccoli, materiali ‘semplici’ e allo stesso tempo efficaci, può diventare un grande stimolo e trasformarsi in una sfida appassionante, dove si può scoprire che, in realtà, questa semplicità – allorché si realizza – è la sintesi di operazioni più o meno consapevoli e di notevole complessità.
Come interpretare la “musicalità” dei testi? Anche qui, i buoni autori non mancano e la scelta è davvero molto ampia. Di solito compongo musica a partire da un testo poetico preesistente: ho una cartella nella quale inserisco i testi sui quali intendo lavorare, ordinanti e stampati su fogli in A4. Li porto con me un po’ ovunque. In un primo tempo li leggo, immaginando che l’opera del compositore sia quella di trarre dai testi poetici la musica ‘possibile’, ciò che in realtà già essi racchiudono. Poi, sedendomi al pianoforte, con la matita o dei pennarelli colorati traccio dei pentagrammi accanto alle strofe e annoto le idee musicali che a mano a mano si presentano, trascrivendo anche altre voci, le sigle di eventuali accordi o i motivi dell’accompagnamento. Alla fine il risultato assomiglia più a una poesia visiva che a una partitura, questo perché, col tempo, mi sono accorto che un normale quaderno pentagrammato mi allontanava dal contatto diretto e costante con il testo, che devo poter osservare nella sua interezza. In questa fase è già possibile che, con qualche bambino, io provi a sperimentare l’efficacia (o meno) di qualche spunto compositivo. Superata questa fase, inizio a scrivere direttamente al computer, affiancando a ciò una costante verifica al pianoforte e alla voce cantata (ovviamente,la mia). Tra gli autori da me più frequentati vorrei citare: Franca Renzini, Elio Pecora, Sabrina Giarratana, Antonella Abbatiello, Ambretta Vernata e, anche se qui il rapporto è evidentemente su un piano ideale, Gianni Rodari. Non mancano i miei contributi personali, quelli dei miei familiari e, per qualche canto come ad esempio Goccia dopo goccia (dedicato al ciclo dell’acqua) la collaborazione delle maestre e degli stessi bambini. Di recente, sullo spunto di un racconto di Rodari, con una librettista di Treviso, Elisa Gastaldon, stiamo lavorando a un’opera per bambini che vedrà come protagonista un coro di voci bianche
M.: Spesso l’attività didattica sfocia nella produzione di piccoli o grandi eventi, dalla performance del coro o della classe a cui partecipano prevalentemente genitori e parenti, a manifestazioni che vogliono riempire e “incantare” le piazze. Qual è la tua opinione in proposito?
T.V.: Incantare? Non c’è niente di più incantevole di un coro di bambini, magari della scuola dell’infanzia, che canta in maniera naturale e modulando la voce con il giusto peso, con energia ritmica e espressività. Tutti quelli che come me insegnano, lo comprendono benissimo. Sanno anche che le costruzioni estetiche dei bambini sono delicate e estemporanee e, non sempre, si può programmare di manifestare questa stessa bellezza di un attimo in una pubblica performance. Le grandi manifestazioni, se ben condotte, hanno il merito di sensibilizzare l’attenzione verso il canto dei bambini e di dimostrare quanto questa esperienza possa essere arricchente, contagiosa e entusiasmante. Certamente si tratta di educare anche il pubblico e di fargli capire che cosa andrà ad ascoltare o a vedere, così come lo si educa quando, per la prima volta, assiste a un concerto di musica da camera o entra in una galleria d’arte. La musica e il canto dei bambini richiedono necessariamente l’attenzione e l’educazione di chi ascolta, non si producono per imporsi, per gridare più forte di altre voci ma, piuttosto, per stimolare in chi ascolta un rapporto diretto con la sorgente profonda della musica e della comunicazione sonora. A un genitore che mi domandava come mai il figlio di quattro anni non avesse cantato in occasione della festa di fine d’anno, ho risposto: “Non si preoccupi, i bambini sono liberi come gli uccelli, cantano quando ne sentono la necessità. Suo figlio, questa volta, ha preferito mettersi in ascolto e ha cantato dentro di sé. Questo non è poco, mi deve credere!”.
M.: Cosa pensi della pubblicistica didattica italiana riferita al canto? Che opinione hai rispetto al vasto utilizzo di basi preregistrate?
T.V.: Sono da sempre sorpreso dal grande numero di diplomati in pianoforte che escono dai nostri Conservatori, così come dai numerosi chitarristi – sia professionisti che di buon livello amatoriale – e dalle difficoltà che incontra un direttore di coro nel trovare qualcuno che lo aiuti ad accompagnare il canto dei bambini in occasione di una performance musicale. Dove sono improvvisamente finiti tutti questi musicisti? Lo sappiamo bene e ne abbiamo già parlato: se le scuole musicali tendono a produrre, tecnicamente e mentalmente, dei solisti, sarà poi difficile avvicinarsi alla difficile professione del musicista accompagnatore. Eppure, cerco sempre di ricordare che un grande pianista come Bruno Canino ha costruito molto del suo successo a partire dalla sua maestria di pianista accompagnatore e che, talvolta, è così bravo da togliere la scena al musicista o al cantante che beneficia del suo sostegno. Per questo, le basi pre-registrate costituiscono, in questo clima di emergenza, un supporto necessario per la diffusione dell’attività musicale. Io stesso ho prodotto più volte delle basi musicali per i miei canti, sia dietro richiesta esplicita di qualche direttore di coro, sia per permettere a chi insegna di essere svincolato dal tenere le mani sulla chitarra o sulla tastiera in fase di apprendimento e di concertazione di un brano musicale. In questo modo il gesto direttoriale e l’interazione con i cantori sono molto più liberi e comunicativi. Più che altro, come ho già affermato, sono preoccupato dalle basi musicali prodotte per canti assolutamente inadatti alla voce dei bambini. Certo, esistono percorsi di formazione che deprecano l’utilizzo stesso dell’accompagnamento, privilegiando il canto a cappella. Quest’ultimo è definito come più puro del canto accompagnato e garanzia di grandi risultati, ma richiede impegno e motivazione particolari e non dovrebbe essere di preclusione a una scelta che integri tranquillamente le due possibilità.
M.: Sappiamo della tua passione per il progressive. Quali sono state le esperienze musicali che più hanno condizionato il tuo lavoro di oggi?
T.V.: Il progressive ha rappresentato un momento di evoluzione importante per la storia del rock e per la cultura musica in generale e, a mio parere, a caratterizzare quel periodo, subito successivo all’ondata del ’68, era la richiesta, condivisa dalle nuove generazioni, di un nuovo modo di intendere e di fare la musica, a partire dagli ultimi dischi prodotti in studio dei Beatles. Qualche protagonista, come il tastierista Tony Pagliuca – che ho avuto il piacere di invitare all’Università di Roma 3 – ha espresso come in quell’epoca ci fossero una spinta e un’euforia che alimentavano un intenso desiderio di cambiare il mondo attraverso la musica. Perciò (e ne ho esperienza diretta) anche la musica antica o classica eseguita con strumenti originali, lo studio e il recupero delle prassi esecutive, la ricerca di nuove sonorità, fecero ugualmente parte del movimento progressive. Un flauto dolce, una viola da gamba, un clavicembalo, un oboe barocco avevano lo stesso significato di un sintetizzatore moog, di un mellotron o di un set di batteria ampliato con timpani e campane tubolari, per non pensare al flauto traverso di Jan Anderson o al’impiego di svariati tipi di chitarre acustiche o di strumenti classici. In altri termini, gli strumenti classici volevano apprendere altre lingue (dal rock al jazz, passando per le contaminazioni flolkloriche) e chiedevano pure, se così posso dire, di entrare ‘in analisi’ per ritrovare le sonorità perdute degli strumenti che li avevano preceduti. Tutto ciò non è stato senza conseguenze: i musicisti ‘barocchi’ che negli anni ’70 venivano quasi derisi per le loro pretese, ora sono dei modelli e nessun flautista o violinista, pur servendosi di uno strumento moderno, eseguirebbe più Bach o Corelli con stilemi tardo-romantici. La mentalità progressive è talmente legata alla dimensione della prassi esecutiva, che attualmente, i gruppi ‘storici’ eseguono la musica degli anni ’70 con strumenti originali, per ricreare le stesse sonorità dei dischi e dei live di quel periodo. Per ciò che mi riguarda direttamente, nella musica che scrivo sono evidenti le influenze di questo genere musicale e, per chi li sa riconoscere, affiorano passaggi e armonie che ricordano i Genesis, gli ELP, i Gentle Giant, gli Yes, Le Orme (un gruppo da me prediletto), il Banco, la Pfm o gli Area. Se siamo ciò che ‘mangiamo’ (materialmente e spiritualmente), siamo ovviamente anche tutto ciò che ascoltiamo. A queste esperienze aggiungerei tutto ciò che ho praticato e approfondito: la musica rinascimentale e barocca, l’opera, la coralità e la musica vocale da camera dell’800 italiano, senza tralasciare i grandi del ‘900, come Carl Orff. E qui a Roma, approfittando del fatto di insegnare presso la Scuola Popolare di Musica di Testaccio, ho studiato pianoforte jazz con Andrea Alberti e musica elettronica con Luca Spagnoletti, maestri che, oltre a produrre ottima musica, hanno formato decine e decine di allievi attivi e affermati. Per ciò che riguarda l’aspetto specificamente melodico, è per me rilevante l’influsso della musica orientale che ho studiato e praticato, soprattutto taluni canti della musica estatica persiana che, utilizzando scale poco più che tetracordali e combinando sapientemente ritmica e cantabilità, ottengono risultati di estrema efficacia. Nulla di più utile per il mio genere di scrittura musicale, in particolare per quello destinato ai più piccoli.