Intervista ad Antonio Giacometti
Compositore, didatta, insegnante, Antonio Giacometti attualmente dirige l’istituto Superiore di Studi Musicali “O. Vecchi” di Modena. In occasione dell’uscita del suo libro MUSICA D’INSIEME. Anche senza leggìo (Rugginenti, Milano, pp. 338), lo abbiamo intervistato.
Ringraziamo l’Autore e l’Editore per aver concesso la riproduzione della presentazione di Carlo Delfrati (vedi allegato).
Musicheria: Il tuo libro si basa su una concezione di “Musica d’insieme” fondata su una visione laboratoriale e creativa del fare musica. Potresti sinteticamente descrivere questa prospettiva evidenziandone le differenze rispetto alla strada più normalmente battuta?
Antonio Giacometti: Sono ormai decenni che, tenendo conferenze e partecipando a convegni, o scrivendo articoli e saggi sull’argomento, sono molto critico sulla tendenza generale a concepire i gruppi di bambini e ragazzi che suonano insieme come “orchestre piccole”, i cui membri sono tenuti a timbrare il cartellino suonando la propria parte con diligenza e ubbidendo incondizionatamente all’adulto concertatore che li coordina. Non che questo sia un male in assoluto, naturalmente. Ma non aiuta i giovani musicisti in formazione a comprendee appieno ciò che stanno suonando, né promuove in essi un affiatamento cosciente e una crescita musicale ed umane permanente e duratura. Trascrivere pezzi famosi di Strawinsky o di Beethoven o, qualche gradino più sotto, le colonne sonore dei film di Holliwood, e imporre ad un’orchestra di cento ragazzini di eseguirli agitando la bacchetta e casomai tirandola in testa a qualcuno non è formazione, per quanto il risultato possa essere buono e accattivante. Questo dovrebbe essere semmai lo stadio finale di un processo in cui l’affiatamento, l’ascolto di sé e dell’altro, il rispetto per le scelte di ognuno, l’autonomia di scelta e di lavoro, individuale e di gruppo, sono valori da conquistare giorno per giorno e non presupposti su cui fondare orchestre giovanili che gratifichino le scelte degli adulti e aasecondino bacchette per sentirsi “parte di un tutto”. Certo, l’impostazione laboratoriale che traccio nei primi due capitoli del libro è faticosa e richiede tempo, molto, per cui è bandita la fretta di arrivare all’esecuzione natalizia, di esibire il prodotto lungo e complesso ignorando il come e il perché è stato realizzato. Un’impostazione che non vuole essere né prodromica né antagonista del fare orchestra, né, tantomeno, porsi come verità rivelata, ma solo valorizzare i bambini e i ragazzi, mettendo al loro servizio le nostre competenze e sviluppandone in modo consapevole il desiderio di creare e di comunicare insieme e i mezzi per poterlo fare. Autonomia progettiale, affiatamento e consapevolezza i suoi pilastri fondanti.
M.: Come musicista sei una figura più unica che rara. Sei tra i pochi ad unire l’attività di compositore, diciamo, “per grandi” alla composizione “per bambini”. Perché secondo te è così rara la compresenza di questi due ambiti?
A.G.: In realtà, oggi è meno rara di quanto non lo fosse trent’anni fa, perché molti sono ormai i giovani compositori che stanno spendendo le proprie competenze e la propria creatività al servizio dell’educazione. Un po’ per forza (devono inventarsi situazioni d’insegnamento se vogliono continuare a credere nel sogno di vivere di musica) e un po’ per curiosità e per passione. Indubbiamente, la maggior parte degli insegnanti di composizione della mia generazione non si è spesa, e non si spende, molto nella riflessione sulle possibili applicazioni didattiche deile strutture e dei linguaggi che va insegnando con maggiore o minore consapevolezza, né tantomeno si adopera per offrire ai giovani studenti significative relazioni con “l’esterno che vive e pulsa” ed esperienze compositive da spendere in diversi ambiti scolastici. Risulta allora chiaro che una “metariflessione” sulla didattica della composizione, come quella che Carlo Delfrati afferma di scorgere tra le pieghe del mio testo, può costituire un punto di riferimento importante per il compositore che voglia iniziare a porsi domande sul senso stesso della sua professione oggi e sulla sua spendibilità sociale nel settore della formazione dei giovani.
M.: Alcune delle esperienze presentate nel libro si devono alla pluriennale attività del “gruppo della domenica”. Vuoi raccontare di che si trattava?
A.G.: I “gruppi della domenica”, nati quasi per caso nel 1997 come sorta di Hausmusik per mio figlio allora novenne e uno sparuto gruppetto di figli di amici musicisti e non, hanno costituito per più di un decennio, di generazione in generazione, un punto di osservazione importante per le mie riflessioni sulla musica d’insieme ed hanno avuto la peculiare caratteristica di portare dentro la scuola un modello didattico nato fuori di essa, con il suo carico di ludica spensieratezza, ma anche di quell’entusiasmo totale e di quell’amicale dedizione al gruppo, che solo fuori dalle mura scolastiche si possono esprimere appieno. Ho sempre pensato che per acquisire “senso” (parola ricorrente nel mio libro, sia come “direzione” he come “significato”), il fare musica insieme debba uscire dai confini del perimetro scolastico e della limitata finestra temporale che gli viene dedicata dai programmi. Con i “gruppi della domenica” è stato fatto addirittura il percorso inverso e i risultati sono stati in molti casi sorprendenti … La verità e l’onestà intellettuale della mia trattazione, che chi ha avuto la bontà di leggere mi ha detto di aver quasi empaticamente avvertito, si devono al fatto che ogni singola proposta è frutto di un percorso vissuto con i bambini e i ragazzi al fianco, fino a quelle sul microteatro musicale contenute nell’ultimo capitolo, che sto ancora in questi anni sviluppando e perfezionando perché meritano una serie di approfondimenti teorici e almeno un’altra decina d’anni di sperimentazioni sul campo.
M.: La tua attività di compositore si nutre, a tutti i livelli, di molte musiche del mondo. Potresti descrivere brevemente la modalità con cui ti accosti a musiche lontane dalla nostra cultura?
A.G.: Beh, su questo punto permettimi di citare lo Steve Reich profeta del 1970 (Some optimistic predictions about the future of music). La risposta è tutta lì. «La musica non occidentale in generale e quella africana, indonesiana, indiana in particolare, fungeranno da nuovi modelli strutturali per la musica occidentale. Non come nuovi modelli sonori (cioè il vecchio viaggio esotico). Chi di noi ami queste sonorità se ne dovrebbe speranzosamente andare ad imparare come questa musica si suona. Le scuole musicali risorgeranno attraverso l’offerta d’istruzione di teoria e prassi delle nuove musiche del mondo. I giovani compositori ed esecutori daranno vita ad ogni tipo di nuovi ensemble che cresceranno da una o più delle tradizioni musicali del mondo.”. Applicalo ad uno schema educativo ed è fatta. Le poliritmie afro-brasiliane e le strutture cicliche dei Tala indiani sono state il pane quotidiano per tutti i miei bambini, che hanno potuto interiorizzare la pulsazione facendo a meno dei solfeggi malati e dannosi, mentre le stratificazioni dei cicli colotomici del gamelan balinese hanno insegnato loro a vivere il contrappunto meglio di qualsiasi trattato scolastico più o meno elementare».
M.: Qual è il lettore modello del tuo libro? In altre parole, a chi ti rivolgi?
A.G.: Verrebbe da dire agli uomini di buona volontà. Un libro di trecentrotrenta pagine, che si annuncia così specifico nei contenuti e così provocatorio (nel senso più ampio del termine) lo legge solo chi cerca davvero qualcosa e penso che ad una tale categoria possano appartenere solo insegnanti impegnati con gruppi d’insieme, a vario titolo e in diverse tipologie di scolarità, compositori umili e curiosi, docenti di strumento delle secondarie inferiori ad indirizzo musicale e di Liceo musicale, che cercano qualcosa di più completo della solitaria lezioncina individuale.
Spero che ognuna di queste categoria riesca a trovarci qualcosa di utile e di stimolante. In fondo il libro, così chiuso nei suoi capitoli, paragrafi e sottoparagrafi, è molto più open di quanto non si possa/voglia immaginare.
Ringraziamo l’Autore e l’Editore per aver concesso la riproduzione della presentazione di Carlo Delfrati (vedi allegato).
Musicheria: Il tuo libro si basa su una concezione di “Musica d’insieme” fondata su una visione laboratoriale e creativa del fare musica. Potresti sinteticamente descrivere questa prospettiva evidenziandone le differenze rispetto alla strada più normalmente battuta?
Antonio Giacometti: Sono ormai decenni che, tenendo conferenze e partecipando a convegni, o scrivendo articoli e saggi sull’argomento, sono molto critico sulla tendenza generale a concepire i gruppi di bambini e ragazzi che suonano insieme come “orchestre piccole”, i cui membri sono tenuti a timbrare il cartellino suonando la propria parte con diligenza e ubbidendo incondizionatamente all’adulto concertatore che li coordina. Non che questo sia un male in assoluto, naturalmente. Ma non aiuta i giovani musicisti in formazione a comprendee appieno ciò che stanno suonando, né promuove in essi un affiatamento cosciente e una crescita musicale ed umane permanente e duratura. Trascrivere pezzi famosi di Strawinsky o di Beethoven o, qualche gradino più sotto, le colonne sonore dei film di Holliwood, e imporre ad un’orchestra di cento ragazzini di eseguirli agitando la bacchetta e casomai tirandola in testa a qualcuno non è formazione, per quanto il risultato possa essere buono e accattivante. Questo dovrebbe essere semmai lo stadio finale di un processo in cui l’affiatamento, l’ascolto di sé e dell’altro, il rispetto per le scelte di ognuno, l’autonomia di scelta e di lavoro, individuale e di gruppo, sono valori da conquistare giorno per giorno e non presupposti su cui fondare orchestre giovanili che gratifichino le scelte degli adulti e aasecondino bacchette per sentirsi “parte di un tutto”. Certo, l’impostazione laboratoriale che traccio nei primi due capitoli del libro è faticosa e richiede tempo, molto, per cui è bandita la fretta di arrivare all’esecuzione natalizia, di esibire il prodotto lungo e complesso ignorando il come e il perché è stato realizzato. Un’impostazione che non vuole essere né prodromica né antagonista del fare orchestra, né, tantomeno, porsi come verità rivelata, ma solo valorizzare i bambini e i ragazzi, mettendo al loro servizio le nostre competenze e sviluppandone in modo consapevole il desiderio di creare e di comunicare insieme e i mezzi per poterlo fare. Autonomia progettiale, affiatamento e consapevolezza i suoi pilastri fondanti.
M.: Come musicista sei una figura più unica che rara. Sei tra i pochi ad unire l’attività di compositore, diciamo, “per grandi” alla composizione “per bambini”. Perché secondo te è così rara la compresenza di questi due ambiti?
A.G.: In realtà, oggi è meno rara di quanto non lo fosse trent’anni fa, perché molti sono ormai i giovani compositori che stanno spendendo le proprie competenze e la propria creatività al servizio dell’educazione. Un po’ per forza (devono inventarsi situazioni d’insegnamento se vogliono continuare a credere nel sogno di vivere di musica) e un po’ per curiosità e per passione. Indubbiamente, la maggior parte degli insegnanti di composizione della mia generazione non si è spesa, e non si spende, molto nella riflessione sulle possibili applicazioni didattiche deile strutture e dei linguaggi che va insegnando con maggiore o minore consapevolezza, né tantomeno si adopera per offrire ai giovani studenti significative relazioni con “l’esterno che vive e pulsa” ed esperienze compositive da spendere in diversi ambiti scolastici. Risulta allora chiaro che una “metariflessione” sulla didattica della composizione, come quella che Carlo Delfrati afferma di scorgere tra le pieghe del mio testo, può costituire un punto di riferimento importante per il compositore che voglia iniziare a porsi domande sul senso stesso della sua professione oggi e sulla sua spendibilità sociale nel settore della formazione dei giovani.
M.: Alcune delle esperienze presentate nel libro si devono alla pluriennale attività del “gruppo della domenica”. Vuoi raccontare di che si trattava?
A.G.: I “gruppi della domenica”, nati quasi per caso nel 1997 come sorta di Hausmusik per mio figlio allora novenne e uno sparuto gruppetto di figli di amici musicisti e non, hanno costituito per più di un decennio, di generazione in generazione, un punto di osservazione importante per le mie riflessioni sulla musica d’insieme ed hanno avuto la peculiare caratteristica di portare dentro la scuola un modello didattico nato fuori di essa, con il suo carico di ludica spensieratezza, ma anche di quell’entusiasmo totale e di quell’amicale dedizione al gruppo, che solo fuori dalle mura scolastiche si possono esprimere appieno. Ho sempre pensato che per acquisire “senso” (parola ricorrente nel mio libro, sia come “direzione” he come “significato”), il fare musica insieme debba uscire dai confini del perimetro scolastico e della limitata finestra temporale che gli viene dedicata dai programmi. Con i “gruppi della domenica” è stato fatto addirittura il percorso inverso e i risultati sono stati in molti casi sorprendenti … La verità e l’onestà intellettuale della mia trattazione, che chi ha avuto la bontà di leggere mi ha detto di aver quasi empaticamente avvertito, si devono al fatto che ogni singola proposta è frutto di un percorso vissuto con i bambini e i ragazzi al fianco, fino a quelle sul microteatro musicale contenute nell’ultimo capitolo, che sto ancora in questi anni sviluppando e perfezionando perché meritano una serie di approfondimenti teorici e almeno un’altra decina d’anni di sperimentazioni sul campo.
M.: La tua attività di compositore si nutre, a tutti i livelli, di molte musiche del mondo. Potresti descrivere brevemente la modalità con cui ti accosti a musiche lontane dalla nostra cultura?
A.G.: Beh, su questo punto permettimi di citare lo Steve Reich profeta del 1970 (Some optimistic predictions about the future of music). La risposta è tutta lì. «La musica non occidentale in generale e quella africana, indonesiana, indiana in particolare, fungeranno da nuovi modelli strutturali per la musica occidentale. Non come nuovi modelli sonori (cioè il vecchio viaggio esotico). Chi di noi ami queste sonorità se ne dovrebbe speranzosamente andare ad imparare come questa musica si suona. Le scuole musicali risorgeranno attraverso l’offerta d’istruzione di teoria e prassi delle nuove musiche del mondo. I giovani compositori ed esecutori daranno vita ad ogni tipo di nuovi ensemble che cresceranno da una o più delle tradizioni musicali del mondo.”. Applicalo ad uno schema educativo ed è fatta. Le poliritmie afro-brasiliane e le strutture cicliche dei Tala indiani sono state il pane quotidiano per tutti i miei bambini, che hanno potuto interiorizzare la pulsazione facendo a meno dei solfeggi malati e dannosi, mentre le stratificazioni dei cicli colotomici del gamelan balinese hanno insegnato loro a vivere il contrappunto meglio di qualsiasi trattato scolastico più o meno elementare».
M.: Qual è il lettore modello del tuo libro? In altre parole, a chi ti rivolgi?
A.G.: Verrebbe da dire agli uomini di buona volontà. Un libro di trecentrotrenta pagine, che si annuncia così specifico nei contenuti e così provocatorio (nel senso più ampio del termine) lo legge solo chi cerca davvero qualcosa e penso che ad una tale categoria possano appartenere solo insegnanti impegnati con gruppi d’insieme, a vario titolo e in diverse tipologie di scolarità, compositori umili e curiosi, docenti di strumento delle secondarie inferiori ad indirizzo musicale e di Liceo musicale, che cercano qualcosa di più completo della solitaria lezioncina individuale.
Spero che ognuna di queste categoria riesca a trovarci qualcosa di utile e di stimolante. In fondo il libro, così chiuso nei suoi capitoli, paragrafi e sottoparagrafi, è molto più open di quanto non si possa/voglia immaginare.