Intervista a Loredano Matteo Lorenzetti
L’uscita del romanzo di Loredano Matteo Lorenzetti, intitolato “La maiuscola di Osvaldo”, per conto dell’editrice Ripostes di Salerno, favorisce l’occasione di un colloquio con l’autore sul tema del rapporto fra musica e poesia. Nel testo di Anna Carelli riportato nella quarta di copertina, di tale opera, è scritto: «Una narrazione accattivante in cui l’autore con grande abilità e sensibilità riesce a simboleggiare il destino dell’arte che, attraverso la parola, suono o immagine, si può considerare la vera rappresentazione della “tessitura dell’essere”». Concetto intrigante che vale la pena discutere con Lorenzetti.
Musicheria: Il tuo ultimo scritto racconta uno strano percorso – avvincente e ironico – alla ricerca della poesia con la p maiuscola. Esiste anche una musica con la m maiuscola?
Loredano Matteo Lorenzetti: La maiuscola si può applicare a qualsiasi parola che nella vita di ciascuno riesce a trovare un senso particolare, profondo, decisivo per mettere in forma estetica la propria esistenza. Ma sicuramente esiste un rapporto fra musica e poesia, poiché l’una è l’ombra dell’altra. Nel senso che la musica getta dietro di sé la sagoma identitaria ombreggiante del poetico che contiene, mentre la poesia disegna e scaglia alle calcagna delle sue parole il musicale ritmico-sonoro che la sostanzia.
Orazio ha sostenuto che «noi siamo polvere e ombra». Stupenda definizione, che aumenta la sua bellezza con l’affermazione shakespeariana che anche «il sogno non è che un’ombra». Divenendo la persona, in tal modo, polvere, sogno, ombra. Tra l’appena più di nulla e la possibilità d’essere nelle eventualità che ci consentono d’essere: fra inconsistente consistenza e irreale realtà.
La parola poetica, così come la musica, sono gesti la cui ‘sostanza’ è una diafana apparenza che crea spazio affinché immaginazione, sentimenti, ragione possano danzare l’invenzione d’un senso. Prima sconosciuto o inesplorato, o sorprendente e inatteso.
M.: Le maiuscole d’ognuno, dunque, potrebbero equivalere a ciò che ciascuno sogna si possa avverare di sé. Perciò a qualsiasi contesto appartengano – musicale, poetico, pittorico, scultoreo, dei personali progetti di vita… – possono prefigurare le attese individuali, piuttosto che un significato vitale che attende di trovare il modo d’essere realizzato nella propria esistenza?
L.M.L.: Direi di sì. Ciascuno ha il proprio tema di vita. Esattamente come un tema musicale che va sviluppato. Occorre scoprirlo, per poi elaborarlo. Farlo diventare ciò che si vuole esso esprima. Come una narrazione. La narrazione di noi stessi, in quell’andare là dove ancora non si è. Con una ricerca inventiva di sé stessi e la continua invenzione della scoperta che tale ricerca ci mette dinnanzi. Come se dovessimo provare a diventare, continuamente, quell’oltre se stessi che già conosciamo, che c’è noto, abituale. Un frequentare l’infrequentato di noi. Avanzare, come si sviluppa, nota dopo nota, una musicale melodia, una parola dietro l’altra nel grafare un verso poetico. Non solo, né tanto, per dare sonorità al silenzio, prezioso e stupendo, ma per circondare i silenzi della nostra rumorosa presenza.
Johann Sebastian Bach era dell’opinione che la musica aiuta a non sentire dentro il silenzio che c’è fuori.
Ovunque il silenzio lo si avverta, lo si cerchi, lo si trovi, ha pure esso un suono. Talvolta una parola. O più parole, se lo si deve motivare, oppure definire.
Elias Canetti ha scritto che alcuni raggiungono la loro massima cattiveria nel silenzio.
Probabilmente per questo, il poeta rumeno ebreo Paul Celan – al quale la nascosta, silenziosa barbara, inaudita, cattiveria nazista ha inflitto dolori indicibili – ha scritto i versi: “Parla anche tu / parla per ultimo, / dì cosa pensi. / Parla – / ma non dividere il sì dal no / Dà senso anche al tuo pensiero: / dagli ombra. / Dagli ombra che basti, tanta / quanta tu sai / attorno a te divisa fra /
mezzanotte e mezzodì e mezzanotte”.
Mentre Santa Caterina da Siena urlava: “Avete taciuto abbastanza. E’ ora di finirla di stare zitti! Gridate con centomila lingue. Io vedo che a forza di silenzio il mondo è marcito”.
M.: Allora musica e poesia possono prospettarsi come un antidoto al silenzio che fa marcire coscienze e mondo?
L.M.L.: Mahatma Gandhi era solito esortare le persone dicendo loro: “Sii il cambiamento che vorresti vedere avvenire nel mondo”. Il cambiamento positivo, estetico ed etico.
L’arte, in qualsiasi sua declinazione espressiva, è un tramite, un filtro creativo, per guardarsi dentro, ascoltarsi – musicalmente e poeticamente – al fine di realizzarsi in quella novità che ciascuno è, nel suo essere unico e irripetibile, architetto delle proprie speranze. Nel proprio soggettivo inedito che il mondo attende per rinnovarsi.
Il mio romanzo va in questa direzione. Compreso, talvolta, il surreale. Perché la visionarietà butta lo sguardo, e indugia, là dove l’occhio e la mente stentano a inoltrarsi. E’ uno scritto dove la parola si fa spesso immagine e viceversa, come la poesia o la musica. Entrambe, ciascuna a modo proprio, aumentano la coscienza di sé e del mondo.
Alda Merini scrive in una sua poesia: “I poeti lavorano di notte / quando il tempo non urge su di loro, / quando tace il rumore della folla / e termina il linciaggio delle ore”.
Forse è così per gli scrittori, i musicisti, tutti quelli che separandosi dal mondo, in qualsiasi momento della giornata o di notte, lo scoprono come esso non è. O come è, o potrebbe essere, se fosse musicale, poetico, pittorico…
“La maiuscola di Osvaldo”, volendo, è un breve intervallo che ci separa, distanzia, da quel che urge quotidianamente; dai rumori dei discorsi futili; dalla persecuzione d’un tempo che ci costringe alla ripetizione, fino alla monotonia e alla noia. Una pausa con la p maiuscola, nel caso in cui il contenuto della narrazione di quest’opera può servire a pensare un qualche impensato qualunque.
M.: Qualche volta la musica sostituisce o fa le veci della parola, allorché quest’ultima non riesce a pronunciare quel che vorrebbe dire. Nel tuo romanzo la maiuscola ha la stessa funzione, cioè prova a far dire un di più o meglio alle parole che ci stanno maggiormente a cuore?
L.M.L.: Questo è uno degli intenti del libro. Tuttavia lo è se si esce, si smargina, dalla logica grammaticale e si entra nel luogo della filosofia di vita. Soprattutto del piacere e della bellezza della vita quando sappiamo sognarla e farla somigliare al nostro sogno. In tal caso ogni parola che appartiene al sogno ha un ‘significato maiuscolo’, grande almeno tanto quanto lo è il sogno che tentiamo d’avverare.
M.: Per concludere, quale rapporto c’è ne La maiuscola di Osvaldo fra musica e scrittura narrativa?
L.M.L.: Mi verrebbe da citare Stendhal: “Un romanzo è come un arco, la cassa del violino che emette suoni è l’anima del lettore”. Ma intrigante, a tal punto d’andare a pennello per questo mio romanzo, è la domanda di Fernando Pessoa, che vale anche per la musica e – pertanto – pure per il rapporto fra letteratura e musica: “Chissà se il romanzo non sarà una realtà più perfetta e una vita che Dio crea attraverso noi, e se noi – chissà – esistiamo soltanto per creare?”.