Musicheria. La rivista digitale di educazione al suono e alla musica

L’ordinario è straordinario

Michela Testi

Processi di ricerca espressiva in un atelier di scuola dell’infanzia

Da circa tre anni l’Istituto scolastico nel quale lavoro, il Collegio A. Volta di Lecco, ha deciso di offrire alle famiglie dei  bambini di età compresa fra i nove mesi e i sei anni un indirizzo internazionale e uno creativo-espressivo, in aggiunta alle ore curricolari della scuola.
La scelta di investire in spazi e personale aggiuntivo ha fatto si che, dopo sedici anni di lavoro come insegnante di sostegno e come educatrice del Centro Prima Infanzia, mi sia trovata a sperimentare  il ruolo di atelierista nella fascia 0/6.
Il termine atelierista fa riferimento alle figure presenti  nelle scuole di Reggio Children,  il ruolo è stato nel mio caso riadattato però al contesto scolastico in cui lavoro. Tra le caratteristiche della figura dell’atelierista nel nostro istituto ci sono quelle di:
– gestire gruppi di bambini omogenei per età che, a rotazione durante la settimana, vivono in piccolo gruppo lo spazio dell’atelier;
– essere completamente svincolata da qualsiasi programmazione educativa che si svolge nelle sezioni;
– occuparsi di valorizzare tutto quello che attiene i linguaggi espressivi, comunicativi e artistici dei bambini.

È quindi da un tempo relativamente breve che la mia attenzione si concentra unicamente a quello che, normalmente, nei servizi e nelle scuole dell’infanzia, si definisce come “il momento delle attività” che si differenzia dalle altre routine quotidiane. La completa libertà di organizzazione e di gestione è sicuramente una risorsa fondamentale per la crescita e la ricerca delle esperienze che nascono spontaneamente all’interno di questo nuovo spazio di opportunità.
Nell’atelier i bambini trovano un luogo diverso da quelli a cui sono abituati: non ci sono giocattoli, ma esclusivamente materiali di recupero, materiali naturali, libri, strumenti musicali, oggetti di ascolto ed osservazione, come lenti di ingrandimento e stetoscopi, tavoli e lavagne luminose. Nell’aula sono presenti anche una LIM, registratori digitali, un impianto per l’ascolto con casse e un buon numero di cuffie.
I bambini trascorrono il loro tempo a costruire, osservare, sperimentare: le ore in atelier sembrano non bastare mai. Osservandoli mentre giocano, si direbbe che non abbiano bisogno di alcun supporto adulto: sanno quello che vogliono fare, si accordano e collaborano tra loro, trovano soluzioni ai problemi che incontrano, sono capaci di organizzare situazioni diverse e, più sono piccoli, più sembra che non abbiano nemmeno l’esigenza di mostrare all’adulto quello che hanno fatto, alla ricerca di una gratificazione.
Ovviamente le dinamiche fra loro non sono sempre tranquille: i conflitti e le contese, legate alle caratteristiche personali di ognuno, fanno sì che il mio intervento sia necessario e spesso decisivo, ma per quanto riguarda lo sviluppo delle conoscenze e delle competenze, mi sono più volte interrogata su  quale potesse essere il tipo di intervento più significativo da mettere in atto, il più possibile costruttivo e utile per loro.
Quali sono gli obiettivi di uno spazio e di un tempo diverso tale da offrirsi come occasione di crescita ai bambini? Dall’esperienza maturata in questi primi anni penso che tra questi obiettivi vi siano, per esempio, quelli che riguardano la capacità di “accorgersi” di quello che li circonda, nel momento presente[1] e nel futuro; di “abituarsi” ad osservare ciò che accade nel proprio quotidiano, ma anche di scoprire il particolare, l’imprevisto, ciò che rimane non visibile o si mimetizza, ancora di  “abituarsi” ad ascoltare i suoni più evidenti, ma anche ad “avere cura” di ricercarne altri più nascosti, quasi silenziosi; di “abituarsi” all’idea di poter pensare, di esserne capaci e di non fermarsi al primo problema, di coltivare l’abilità di trovar possibili soluzioni, alternative, strategie; riconoscere la “bellezza” nella quotidianità.
Come ci ricorda Marco Dallari, citando Hume, «Educare alla bellezza è educazione della competenza emotiva e della sensibilità, è formare quella “delicatezza dell’immaginazione”. Perché il contrario della bellezza non è la bruttezza ma la rozzezza e l’ignoranza emozionale»[2].
La mia riflessione va allora alla parola “educare”. Sono proprio sicura che il mio obiettivo sia quello di educare questi bambini alla sensibilità, alla bellezza e alla competenza emotiva? Osservandoli e ascoltandoli sento che tutto questo appartiene già a loro. È attraverso i loro comportamenti, le loro parole, le loro emozioni che io stessa riscopro la voglia di approfondire, di ricercare, di immaginare attraverso i loro pensieri, così il termine “educare” mi appare si apra a nuovi significati e prefiguri nuovi orizzonti operativi.
Come nel noto aforisma di Paul Klee: “Pur non così temerario da pensare di capire il nocciolo della creatività, sono curioso di spiarla quanto più possibile”, credo anch’io in alcuni momenti di “spiare” il mondo dei bambini, cercando esclusivamente di osservare, ascoltare, valorizzare, sostenere e approfondire il loro pensiero creativo. È un processo di interscambio continuo, fra me e loro, tra le idee e ciò che posso offrire come esperienza, in una spirale in continua evoluzione: una crescita e un arricchimento autenticamente reciproco. Ed è evidente che all’interno di questi processi di apprendimento il “tema” diventi relativo: poco importa se si lavora sull’alveare o sulla città, a volte i temi si incontrano, si incrociano, sconfinano fra di loro. È  ancora un problema adulto quello di separare continuamente contesti e situazioni. Il valore più grande che ha il tema, allora, è quello di motivare il processo: non basta però enunciarlo e declinarlo, occorre alimentarlo, tenerlo aperto, mantenendo vivo l’interesse per il processo dove la curiosità, lo stupore, la magia, l’immaginazione possono trasformarlo.
Loris Malaguzzi ci parla dei “cento linguaggi”[43] che utilizzano i bambini, noi adulti quanti pensiamo di conoscerne? A volte abbiamo delle preferenze, rafforziamo quelli che maggiormente ci appartengono, per cultura, per storia personale; altre volte ci comportiamo diversamente: come nel caso del linguaggio sonoro. L’ascolto del suono dei bambini e la sua valorizzazione sono raramente presenti nei servizi e nelle scuole dell’infanzia. Si crede, probabilmente, di non avere le competenze sufficienti per considerarlo e valorizzarlo nell’operatività, ma, come spesso accade, la soluzione è davanti a noi: ce la offrono i bambini. Basta osservare e ascoltare i loro giochi per capire che la dimensione sonora è viva e presente in loro, almeno al pari degli altri linguaggi.
Il linguaggio grafico nelle scuole dell’infanzia è molto utilizzato, come quello manipolativo nella prima infanzia, ma anche quello sonoro può diventare un’occasione in più, perché i bambini hanno preferenze, sensibilità, attitudini diverse: non a tutti piace disegnare e non tutti riescono a concentrarsi allo stesso modo in alcune attività. Meglio allora avere veramente a disposizione “cento” possibilità, tra cui il suono e la musica. Posso allora scoprire che, di fronte ad una domanda “difficile”, i bambini rispondono in modo straordinariamente creativo, che un imprevisto nel percorso può diventare una grande opportunità, o semplicemente che giocare con i suoni di uno scotch, che fino a quel momento avevo utilizzato solo per uno scopo funzionale, può trasformare l’ordinarietà in straordinarietà.

Note

[1] D.N. Stern, Il momento presente. In psicoterapia e nella vita quotidiana, RaffaelloCortina, Milano, 2005.  

[2] P. Ciarcià, M.Dallari, Arte per crescere, Artebambini, Bologna, 2016, p.68.

[3] C. Edwards, L. Gandini, G. Forman, I Cento linguaggi dei bambini, Junior, Bergamo, 2014.

 

 

 

 

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