In margine alla rilettura di alcune pagine di Franco Fabbri
Finalità
Ogni tanto ho necessità di richiedermelo: qual è la finalità dell’educazione musicale, e, specificamente, dell’educazione musicale nella scuola di base?
È forse quella di far conoscere uno o più generi? È quella di “imparare a suonare”? È quella di poter incontrare una serie di capolavori e di saperne illustrare le caratteristiche? È quella di “formare gli ascoltatori di domani”, quindi di “costruire un pubblico”?
In questa riflessione non mi soffermerò su queste domande, dicendo subito che sì, sicuramente qualcosa di tutto questo, opportunamente interpretato, deve entrare fra le finalità dell’E.M., ma che forse non sta qui il centro, la finalità principale, quella che poi orienta le scelte più specifiche.
Rileggendo alcune pagine di Franco Fabbri (L’ascolto tabù. Le musiche nello scontro globale, Il Saggiatore, Milano 2005, rilette qui come base di partenza per una riflessione sull’educazione musicale) ho ritrovato questo passo, già sottolineato in passato, ma sul quale non mi ero mai soffermato a pesarne le parole:
Ciò che legittima uno studio non è l’appartenenza dell’oggetto a un piccolo Pantheon, ma la qualità e la profondità dello studio medesimo, la sua capacità di farci conoscere meglio la musica e, attraverso questa, il mondo” (Ivi, p. 12).
L’affermazione di Fabbri mi pare interessante se letta dal punto di vista di chi opera nella Scuola. Se Musica è una materia, una disciplina o, se preferiamo, un campo o un’area di studio, l’osservazione precedente diventa particolarmente significativa: non è l’oggetto di studio che legittima un percorso didattico (quindi non un genere, o un brano, o un’epoca storica…) quanto la qualità del percorso didattico, il modo di incontrare, di ascoltare, di fare (nel nostro caso) musica.
Non dovremmo quindi forse occuparci – primariamente – di promuovere la conoscenza di un genere piuttosto che di un altro, o di uno stile, o di un canone linguistico-musicale, ma dovrebbe forse essere nostra cura proporre sguardi, itinerari di ricerca, esperienze e riflessioni che tengano conto della complessità del territorio, o meglio, del paesaggio che abitiamo: un complesso, intricato e forse sovrappopolato tessuto di suoni e musiche, in costante mutazione, incontrati (ascoltati, fruiti, scelti…) in cento modi diversi.
Allora, intanto, sarebbe utile conoscere gli abitanti di questo territorio in cui intendiamo andare ad insegnare. Naturalmente parlo delle loro abitudini culturali, nello specifico che cosa sanno di musica, che cosa ne fanno, che cosa intendono con questo termine, come la usano, quali esperienze mettono in campo e così via. Sarebbe utile osservare, descrivere, acquisire consapevolezza di condotte e comportamenti, di scelte, di predilezioni, di valori, che fra l’altro sono in costante mutazione. Sarebbe utile farlo cercando di superare alcuni tabù pregiudiziali: quello ancora oggi purtroppo presente in molta pedagogia e in molte didattiche è quello, ad esempio, per cui certe musiche sarebbero superiori ad altre, o che un certo modo di ascoltare sia più giusto di un altro, più desiderabile, più “valido”, come predicava il buon Adorno.
Dell’udire e dell’ascoltare
Il senso comune dice questo: ormai quasi sempre si sente senza ascoltare, la musica è un rumore di fondo; tutta la musica è ridotta ad essere parte dell’ambiente, al massimo è oggetto di un ascolto disattento, quasi mai esclusivo ma sempre accompagnato da altre attività, con buona pace di Erik Satie, di Brian Eno e compagnia bella.
Di questa deriva sono responsabili e principali soprattutto i giovani e le loro musiche.
Ma questa non sarà una descrizione semplicistica di quello che avviene veramente?
Rileggendo le pagine di Franco Fabbri direi di sì.
Intanto sgombriamo il campo da un corollario che spesso accompagna le affermazioni precedenti. Un certo tipo di ascolto non è legato a maglie strette ad un certo genere musicale: possiamo usare come sottofondo musiche molto diverse, possiamo udire senza ascoltare Music for airports di Brian Eno ma anche il Quintetto in Mib di Schumann o Kind of blue di Miles Davis.
Certo, ogni genere porta con sé l’idea di un ascoltatore modello, una sua tipologia di ascolto desiderato, una postura d’ascolto, un atteggiamento, un’attitudine a…; ma poi esiste la complessità dei contesti e delle circostanze a far sì che non sempre la richiesta venga esaudita.
Seconda considerazione: siamo proprio sicuri che l’ascolto attento, assimilabile all’ascolto strutturale di Adorno (teso a cogliere rapporti e relazioni fra i suoni e le parti di un oggetto musicale) sia il più desiderabile? E siamo sicuri che il suo contrario, l’ascolto disattento, o quello emotivo, o quello fisico, siano tutti specifici del pubblico giovanile?
Intanto possiamo affermare che è possibile mettere in campo un ascolto strutturale anche nei confronti di una canzone pop o addirittura di un paesaggio sonoro naturale. Di contro, un ascoltatore esperto, abituato all’ascolto strutturale, sarebbe automaticamente in grado di farlo incontrando Free Jazz di Ornette Colemann o un Raga indiano? E quelle musiche, davvero implicano quel tipo di ascoltatore modello? Qual è l’ascoltatore modello di Music in twelve part di Philiph Glass? E quello di Over The rainbow suonato da Keith Jarrett?
L’ascolto contemplativo (estetico, attento, artistico…) è davvero più importante di quello fisico, o emotivo? E se sì, perché?
Occorre poi ricordare che ogni tipologia di ascolto non corrisponde a rispettive fasce di pubblico: ognuno di noi mette in scena diversi ascolti, magari anche della stessa musica, a seconda dei contesti in cui si trova, delle ore del giorno, dell’umore, e così via.
È un fatto che ogni ascolto pertinentizzi aspetti diversi di un oggetto sonoro, identificandoli come valori, così come ogni musica elegge a proprio valore aspetti diversi: se ascolto un blues non potrò lamentarmi della sua essenzialità armonica; se ho bisogno di swing non ascolterò l’Adagio di Albinoni o il Canto Gregoriano. Così posso apprezzare All the things you are come sfondo per una dischiarazone d’amore o per il fatto che lungo le sue 36 misure si incontrino accordi su tutti e dodici i gradi della scala cromatica.
Torniamo per un attimo a riflettere sull’ascolto attento. Che cosa significa, cosa indica esattamente l’aggettivo ”attento”?
Seguendo Fabbri è curioso e divertente il paragone fra l’ascoltatore esperto con l’automobilista esperto: l’expertise di quest’ultimo è sancita proprio dalla capacità di non prestare attenzione ad ogni particolare che gli si ponga innanzi; la sua competenza sta proprio nel trovare il giusto equilibrio fra aspetti diversi, alcuni dei quali sono oggetti d’attenzione mentre altri vengono percepiti in automatico, ad un basso livello di consapevolezza.
Forse anche in ogni ascolto accade questo, mettiamo in campo diversi gradi di consapevolezza, diversi piani, diversi livelli di attenzione. Quindi la distinzione fra ASCOLTARE e UDIRE non sarebbe da intendere come così netta, ma sarebbe un cursore che si sposta lungo l’asse del più e del meno, che reagisce a condizioni varie: la musica certo, ma anche il contesto, la circostanza e, assolutamente non ultimo, l’intenzionalità di chi ascolta in quel momento.
Cosa ascolta e come ascolta chi usa la musica come sottofondo per fare i compiti?
Quale musica sceglie? Cosa pensiamo noi di questo utilizzo della musica come genitori? E come insegnanti?
Mi pare che una logica prototipica sia da assumere come punto di vista centrale, applicabile sia alle musiche che agli ascolti:
Non tutti gli oggetti di un tipo sono uguali: alcuni sono “più uguali”, sono dei prototipi, e noi compiamo le nostre classificazioni non tanto dopo aver controllato una definizione dizionariale, ma perché ci sembra che l’oggetto da classificare assomigli al prototipo, o che abbia un’”aria di famiglia” (Ivi. P. 57).
La musica è arte (o lo era) in quanto vi si presta attenzione, e il luogo canonico di questo comportamento adeguato è la sala da concerto. Adorno incombe. Di conseguenza, qualunque comportamento diverso da quello non merita neppure di essere discusso, se non per consegnarlo alla spazzatura della cattiva musica e dell’inquinamento musicale (Ivi, p. 31.).
La prima citazione dovrebbe servire a contrastare, contestare, o forse sostituire la seconda nei nostri pensieri di educatori musicali.
Allora la considerazione finale, seppur provvisoria si intende, potrebbe essere questa: a scuola ci si dovrebbe occupare – in prima istanza – di fare incontrare e sperimentare varie tipologie (condotte, posture, esperienze…) di ascolto, insieme a vari tipi di musica, studiandone le peculiarità, cercando cioè di acquisirne consapevolezza, di far nascere un pensiero sonoro, acustico, musicale che ne colga e ne valorizzi la molteplicità.
Si tratterebbe quindi di fare e pensare la musica, nelle sue varie e multiformi espressioni.
È un fatto che spesso ancora assistiamo alla rappresentazione del mondo della musica come un universo semplice, fatto di territori, ognuno segnato dalle proprie frontiere, dalla propria lingua. Le musiche che non rientrano vengono infatti definite di frontiera. Il fatto è che chi abita questi territori ha vissuti più complessi: può esserci un consumo della musica classica, fatta oggetto di un ascolto “leggero”; oppure una canzone può diventare meta di un ascolto contemplativo, estetico e profondo.
È un territorio complesso.
La maggior parte degli abitanti possiede più di una cittadinanza, molti sono apolidi, molti sono nomadi, molti sono senza fissa dimora, alcuni sono addirittura senza casa.
I comportamenti sono complessi, così come le musiche, gli ascolti, i contesti.
La mappa non è il territorio.
Ma abbiamo bisogno di mappe che non siano bidimensionali.
Quelle non ci bastano più.
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