Musicheria. La rivista digitale di educazione al suono e alla musica

Sbocciati a scuola

Alessandra Anceschi

Nel campo dell’educazione musicale da diverso tempo si pone l’accento anche sull’importanza del lavoro autobiografico, con riferimento sia ai vissuti e alle esperienze dei ragazzi, sia all’autobiografia dell’insegnante. Alessandra Anceschi ha in qualche modo intrecciato la propria autobiografia con quella di un gruppo di suoi studenti, raccontando esperienze ed emozioni nel volume Sbocciati a scuola. Un’insegnante di musica racconta (Interlinea, Novara 2021). Abbiamo rivolto ad Alessandra alcune domande su questa sua esperienza.

 

>>> In allegato il video dell’incontro organizzato dall’Associazione Musica e Società il 5 giugno 2021.

Intervista ad Alessandra Anceschi

Musicheria: Dopo molti anni di insegnamento hai deciso di mettere nero su bianco pensieri ed emozioni che sono scaturiti dal rapporto educativo con i tuoi allievi: Quale ruolo pensi abbia l’empatia nella diade insegnamento/apprendimento?

Alessandra Anceschi: Agli esordi della mia carriera scolastica le mie preoccupazioni erano quasi esclusivamente orientate all’oggetto dell’insegnamento. Impensierita come ero dal cosa e dal come insegnare (inquietudine peraltro assai comune a tanti insegnanti alle prime armi) per qualche tempo non ho compreso quale fosse il ruolo e il valore della relazione. Poi, un’inclinazione che vorrei definire “facilmente e felicemente” orientata alla riflessione mi ha presto spinto a pormi quesiti su quali fossero le motivazioni dei successi e degli insuccessi didattici che andavo collezionando. Quel fare indagatorio, accompagnato dal sostegno di molte letture utili a incentivare la formulazione di domande ancor più che la costruzione di risposte, mi ha progressivamente reso cosciente del fatto che le esperienze maggiormente gratificanti si palesavano nel momento in cui ero in grado di restituire senso alla relazione educativa, laddove cioè mi sentivo capace non solo di costruire un sapere, ma di farlo con il coinvolgimento (con il dono, con la condivisione) del mio universo emozionale. Vorrei però fugare un possibile equivoco: questa progressiva ricollocazione dell’oggetto disciplinare dialogante con i soggetti in azione non è da figurarsi con l’adozione di un approccio per così dire “amicale” nei confronti di allieve e allievi, ma piuttosto con l’incentivazione di un atteggiamento attento alle diverse individualità e sensibilità, agli sguardi e ai corpi che coabitano, con gli adulti, gli spazi scolastici. Ho cioè provato a interpretare il ruolo di mediatore della Musica facendo sì che la Musica stessa fosse il tramite “sensibile” per portare loro anche un poco di ciò che io ero. Questa via empatica, con la quale si è dato spazio a condivisioni trasparenti, aperture dialoganti, disponibilità d’ascolto, e – vorrei dire – sorrisi, non nascondendo debolezze e incertezze, si è rivelata il canale privilegiato per la costruzione di alleanze, per l’accensione di scintille e per la restituzione di senso e valore alle esperienze educative.

M.: Tu scrivi che sei insegnante di musica «per scelta e mio malgrado». Ci puoi chiarire perché «mio malgrado»? Hai mai pensato di lasciare l’insegnamento? Quali sono secondo te le difficoltà maggiori per un insegnante oggi?

A.A.: Di questo mestiere – benché scelto con consapevolezza – ho presto avvertito quali potessero essere le difficoltà e le pesantezze. L’ambiente scolastico che avevo deciso di frequentare non mi era estraneo, anche per contesto familiare (mio padre era preside). L’ingresso come docente a tempo indeterminato nella scuola, avvenuto appena dopo la conclusione degli studi con la vincita del concorso, senza nemmeno (s)contare un giorno di precariato, mi aveva posto in una condizione di immediata irreversibilità: da quel momento in poi quella sarebbe stata la mia collocazione. Non nego che le pulsioni ancora in ricerca di giovane musicista fortemente interessata all’approfondimento didattico, allo studio pedagogico e alla formazione della professionalità docente vennero, con quell’esito, non poco allentate e forse anche frustrate. L’assorbimento nell’insegnamento fu totale e dovetti riconquistarmi modi e spazi per continuare a coltivare gli interessi in fermento. L’essere insegnante a tutto tondo, a quel tempo, significava esserlo – appunto – mio malgrado. Ed è stato in conseguenza di quei fermenti mai sedati che, sì, ho pensato di lasciare l’insegnamento. O per dirla meglio, ho cercato vie che affiancassero l’insegnamento a qualche sua “naturale” espansione o evoluzione. Il risultato di queste “insofferenze” (che mi hanno fatto percepire di essere un’“insegnante incompiuta”, per prendere a prestito una bella espressione di Pier Cesare Rivoltella) è stato un altalenante allontanamento e riavvicinamento alla scuola: dapprima la decennale esperienza universitaria nelle Scuole di Specializzazione per l’insegnamento Secondario (con il mantenimento, però, di mezza cattedra di insegnamento), successivamente il compimento di un dottorato di ricerca e – occasione più recente – l’assunzione della docenza di Pedagogia musicale nel Corso di Didattica del conservatorio. Da quest’ultima esperienza – è doveroso che lo confessi – ho però fatto presto retromarcia. Tra le molteplici ragioni di questo ultimo rientro in classe ne paleserò solo una: la percezione che dare nuova casa a parole, pensieri, umori, conoscenze di un vissuto didattico e pedagogico percepito e studiato nei suoi malesseri e nelle sue gioie volesse dire ricollocare quei saperi e quelle esperienze in un contesto – quello conservatoriale – in cui temevo di non sapere restituire la più intima essenza. E di tradire così – “traducendola” con apparati concettuali e lessicali che lontano dall’azione perdevano i loro significati più profondi – la mia esperienza viva. Quindi, giunta oramai al trentesimo anno di insegnamento, la ragione prima di una fuga azzardata e non riuscita è probabilmente da ricondurre alla difficoltà di rimodulare un imprinting – da tempo definito – che fatica a rinunciare al mettere le mani in pasta. Perché se è vero che il fare didattico senza guide è cieco, è altrettanto vero che il sapere teoretico, senza la sua applicazione è muto. E lontano dalla scuola, mi sono sentita muta: nel pensiero, nell’animo, nel cuore.
È tuttavia rinvenibile in questa via senza uscita una delle maggiori difficoltà dell’insegnante nella scuola d’oggi; una scuola che rimane tutta tesa a rincorrere e a sedare le continue problematiche della contingenza ed è ben poco attrezzata a formulare pensieri di lungo corso, a costruire visioni di sistema, a proiettarsi in avanti e immaginare azioni generative. L’inesistenza, ad esempio, di occasioni per il corpo docente che possano essere strutturalmente riconosciute e riconoscibili per risignificare il fare attraverso il pensare chiude ogni via di sviluppo personale e professionale all’insegnante. Che, ingabbiato in ritmi didattici frenetici e irrimediabilmente sommerso da burocratismi asfissianti, è prigioniero, come dice Marco Dallari, della maschera di “professionista della formazione” non riuscendo però a prospettare un ruolo differente da quello di “operaio specializzato”. La negazione della costruzione di una carriera docente che permetta all’insegnante di non abbandonare la didattica di classe – limitandone però il carico – e al contempo di assumere ruoli di natura maggiormente riflessiva (e perché no, di ricerca), è tra le cause che alimentano i malesseri del docente che vede davanti a sé una prospettiva piatta e incolore. Il libro nasce pertanto anche dall’esigenza di muovere, sono ancora parole di Marco Dallari, «un’identità deontologica, etica e estetica ancor prima che “professionale”». Per suggerire un antidoto a una scuola anestetizzante a tutti i professionisti dell’educazione che vi passano gran parte della propria vita.

M.: Nella seconda parte del libro hai raccolto dieci “storie di scuola”. Come hai coinvolto i ragazzi in questi racconti? 

A.A.: Molti di loro, benché con cadenze altalenanti, hanno continuato a mantenere con me contatti diversificati. Io stessa, in molte occasioni, ho alimentato delle vicinanze. Ho seguito le loro scie in volo, da lontano, ogni tanto avvicinandomi. La percezione che avrei potuto coinvolgerli con facilità è stato un altro dei fattori che mi ha spronato a intessere questi dialoghi con loro. E a quel punto, altro non hanno fatto se non assecondarmi nell’ennesima proposta di lavoro, questa volta costruita al di fuori di un formale perimetro formativo.

M.: Concludi il tuo racconto con una citazione di Edgar Morin: «Sbocciare nella qualità poetica dell’esistenza». In base alla tua esperienza quali sono le caratteristiche di una educazione musicale che favorisca questo sbocciare?

A.A.: Non vorrei limitare la riflessione allo specifico disciplinare, vorrei allargare lo “sbocciare” all’educazione tutta, che sia questa musicale, artistica, storica, scientifica, linguistica o altro ancora. Un’educazione che permette “poeticamente” di far spiccare il volo, è un’educazione che costruisce identità. E le strategie di una scuola che aiuta studenti e studentesse a (ri)trovarsi da soli e insieme ad altri, a individuare le proprie nicchie, collocazioni, direzioni di senso, sono strategie che l’educazione musicale conosce bene:

  • “dare parola” (nel senso di affinare la costruzione e l’uso di tutti i linguaggi simbolici) per poter dire chi siamo, per essere produttori di cose e pensieri. «Non è sufficiente consumare cultura: è necessario produrla» diceva Augusto Boal. Per questo l’atto inventivo, creativo della materia sonora o di qualsiasi altra materia (concreta o astratta che sia) è un atto pedagogicamente fondante;
  • riconoscere la metaforizzazione (incentivando l’uso e la costruzione di metafore, anche attraverso i suoni) come forma evoluta di conoscenza che accoglie una significazione plurale, multiversa, generativa, non stabile; una conoscenza che lascia posto al credibile, al condivisibile piuttosto che al certo e al vero;
  • aprire i pori del sensibile, coinvolgendo tutte le aree ricettive del nostro corpo, e guidare a riconoscerle, sollecitando le parole per qualificare questo sentire; incentivare, cioè, una sorta di ermeneutica metariflessiva che nasca dall’atto fabrile, dal fare esperienza; un dare pensiero alla forma che includa inestricabilmente anche il processo inverso, dare forma al pensiero.

L’augurio di questo sbocciare, tuttavia, è anche rivolto a noi insegnanti. Così, mi sono emozionata quando Barbara (di nuovo una ex allieva, ora anche lei insegnante di Musica) dopo la lettura del libro mi ha restituito questa coinvolgente testimonianza: «Ho gustato tutto di questo libro: le storie, la carta (anche l’odore!!!), l’impaginazione, i “semini” di esperienza raccolti alla fine di ogni capitolo: come se fossero i sassolini di Pollicino, indispensabili per non perdersi, che manifestano la necessità di fermarsi e riflettere».

Intervista ad Alessandra Anceschi

Musicheria: Dopo molti anni di insegnamento hai deciso di mettere nero su bianco pensieri ed emozioni che sono scaturiti dal rapporto educativo con i tuoi allievi: Quale ruolo pensi abbia l’empatia nella diade insegnamento/apprendimento?

Alessandra Anceschi: Agli esordi della mia carriera scolastica le mie preoccupazioni erano quasi esclusivamente orientate all’oggetto dell’insegnamento. Impensierita come ero dal cosa e dal come insegnare (inquietudine peraltro assai comune a tanti insegnanti alle prime armi) per qualche tempo non ho compreso quale fosse il ruolo e il valore della relazione. Poi, un’inclinazione che vorrei definire “facilmente e felicemente” orientata alla riflessione mi ha presto spinto a pormi quesiti su quali fossero le motivazioni dei successi e degli insuccessi didattici che andavo collezionando. Quel fare indagatorio, accompagnato dal sostegno di molte letture utili a incentivare la formulazione di domande ancor più che la costruzione di risposte, mi ha progressivamente reso cosciente del fatto che le esperienze maggiormente gratificanti si palesavano nel momento in cui ero in grado di restituire senso alla relazione educativa, laddove cioè mi sentivo capace non solo di costruire un sapere, ma di farlo con il coinvolgimento (con il dono, con la condivisione) del mio universo emozionale. Vorrei però fugare un possibile equivoco: questa progressiva ricollocazione dell’oggetto disciplinare dialogante con i soggetti in azione non è da figurarsi con l’adozione di un approccio per così dire “amicale” nei confronti di allieve e allievi, ma piuttosto con l’incentivazione di un atteggiamento attento alle diverse individualità e sensibilità, agli sguardi e ai corpi che coabitano, con gli adulti, gli spazi scolastici. Ho cioè provato a interpretare il ruolo di mediatore della Musica facendo sì che la Musica stessa fosse il tramite “sensibile” per portare loro anche un poco di ciò che io ero. Questa via empatica, con la quale si è dato spazio a condivisioni trasparenti, aperture dialoganti, disponibilità d’ascolto, e – vorrei dire – sorrisi, non nascondendo debolezze e incertezze, si è rivelata il canale privilegiato per la costruzione di alleanze, per l’accensione di scintille e per la restituzione di senso e valore alle esperienze educative.

M.: Tu scrivi che sei insegnante di musica «per scelta e mio malgrado». Ci puoi chiarire perché «mio malgrado»? Hai mai pensato di lasciare l’insegnamento? Quali sono secondo te le difficoltà maggiori per un insegnante oggi?

A.A.: Di questo mestiere – benché scelto con consapevolezza – ho presto avvertito quali potessero essere le difficoltà e le pesantezze. L’ambiente scolastico che avevo deciso di frequentare non mi era estraneo, anche per contesto familiare (mio padre era preside). L’ingresso come docente a tempo indeterminato nella scuola, avvenuto appena dopo la conclusione degli studi con la vincita del concorso, senza nemmeno (s)contare un giorno di precariato, mi aveva posto in una condizione di immediata irreversibilità: da quel momento in poi quella sarebbe stata la mia collocazione. Non nego che le pulsioni ancora in ricerca di giovane musicista fortemente interessata all’approfondimento didattico, allo studio pedagogico e alla formazione della professionalità docente vennero, con quell’esito, non poco allentate e forse anche frustrate. L’assorbimento nell’insegnamento fu totale e dovetti riconquistarmi modi e spazi per continuare a coltivare gli interessi in fermento. L’essere insegnante a tutto tondo, a quel tempo, significava esserlo – appunto – mio malgrado. Ed è stato in conseguenza di quei fermenti mai sedati che, sì, ho pensato di lasciare l’insegnamento. O per dirla meglio, ho cercato vie che affiancassero l’insegnamento a qualche sua “naturale” espansione o evoluzione. Il risultato di queste “insofferenze” (che mi hanno fatto percepire di essere un’“insegnante incompiuta”, per prendere a prestito una bella espressione di Pier Cesare Rivoltella) è stato un altalenante allontanamento e riavvicinamento alla scuola: dapprima la decennale esperienza universitaria nelle Scuole di Specializzazione per l’insegnamento Secondario (con il mantenimento, però, di mezza cattedra di insegnamento), successivamente il compimento di un dottorato di ricerca e – occasione più recente – l’assunzione della docenza di Pedagogia musicale nel Corso di Didattica del conservatorio. Da quest’ultima esperienza – è doveroso che lo confessi – ho però fatto presto retromarcia. Tra le molteplici ragioni di questo ultimo rientro in classe ne paleserò solo una: la percezione che dare nuova casa a parole, pensieri, umori, conoscenze di un vissuto didattico e pedagogico percepito e studiato nei suoi malesseri e nelle sue gioie volesse dire ricollocare quei saperi e quelle esperienze in un contesto – quello conservatoriale – in cui temevo di non sapere restituire la più intima essenza. E di tradire così – “traducendola” con apparati concettuali e lessicali che lontano dall’azione perdevano i loro significati più profondi – la mia esperienza viva. Quindi, giunta oramai al trentesimo anno di insegnamento, la ragione prima di una fuga azzardata e non riuscita è probabilmente da ricondurre alla difficoltà di rimodulare un imprinting – da tempo definito – che fatica a rinunciare al mettere le mani in pasta. Perché se è vero che il fare didattico senza guide è cieco, è altrettanto vero che il sapere teoretico, senza la sua applicazione è muto. E lontano dalla scuola, mi sono sentita muta: nel pensiero, nell’animo, nel cuore.
È tuttavia rinvenibile in questa via senza uscita una delle maggiori difficoltà dell’insegnante nella scuola d’oggi; una scuola che rimane tutta tesa a rincorrere e a sedare le continue problematiche della contingenza ed è ben poco attrezzata a formulare pensieri di lungo corso, a costruire visioni di sistema, a proiettarsi in avanti e immaginare azioni generative. L’inesistenza, ad esempio, di occasioni per il corpo docente che possano essere strutturalmente riconosciute e riconoscibili per risignificare il fare attraverso il pensare chiude ogni via di sviluppo personale e professionale all’insegnante. Che, ingabbiato in ritmi didattici frenetici e irrimediabilmente sommerso da burocratismi asfissianti, è prigioniero, come dice Marco Dallari, della maschera di “professionista della formazione” non riuscendo però a prospettare un ruolo differente da quello di “operaio specializzato”. La negazione della costruzione di una carriera docente che permetta all’insegnante di non abbandonare la didattica di classe – limitandone però il carico – e al contempo di assumere ruoli di natura maggiormente riflessiva (e perché no, di ricerca), è tra le cause che alimentano i malesseri del docente che vede davanti a sé una prospettiva piatta e incolore. Il libro nasce pertanto anche dall’esigenza di muovere, sono ancora parole di Marco Dallari, «un’identità deontologica, etica e estetica ancor prima che “professionale”». Per suggerire un antidoto a una scuola anestetizzante a tutti i professionisti dell’educazione che vi passano gran parte della propria vita.

M.: Nella seconda parte del libro hai raccolto dieci “storie di scuola”. Come hai coinvolto i ragazzi in questi racconti? 

A.A.: Molti di loro, benché con cadenze altalenanti, hanno continuato a mantenere con me contatti diversificati. Io stessa, in molte occasioni, ho alimentato delle vicinanze. Ho seguito le loro scie in volo, da lontano, ogni tanto avvicinandomi. La percezione che avrei potuto coinvolgerli con facilità è stato un altro dei fattori che mi ha spronato a intessere questi dialoghi con loro. E a quel punto, altro non hanno fatto se non assecondarmi nell’ennesima proposta di lavoro, questa volta costruita al di fuori di un formale perimetro formativo.

M.: Concludi il tuo racconto con una citazione di Edgar Morin: «Sbocciare nella qualità poetica dell’esistenza». In base alla tua esperienza quali sono le caratteristiche di una educazione musicale che favorisca questo sbocciare?

A.A.: Non vorrei limitare la riflessione allo specifico disciplinare, vorrei allargare lo “sbocciare” all’educazione tutta, che sia questa musicale, artistica, storica, scientifica, linguistica o altro ancora. Un’educazione che permette “poeticamente” di far spiccare il volo, è un’educazione che costruisce identità. E le strategie di una scuola che aiuta studenti e studentesse a (ri)trovarsi da soli e insieme ad altri, a individuare le proprie nicchie, collocazioni, direzioni di senso, sono strategie che l’educazione musicale conosce bene:

  • “dare parola” (nel senso di affinare la costruzione e l’uso di tutti i linguaggi simbolici) per poter dire chi siamo, per essere produttori di cose e pensieri. «Non è sufficiente consumare cultura: è necessario produrla» diceva Augusto Boal. Per questo l’atto inventivo, creativo della materia sonora o di qualsiasi altra materia (concreta o astratta che sia) è un atto pedagogicamente fondante;
  • riconoscere la metaforizzazione (incentivando l’uso e la costruzione di metafore, anche attraverso i suoni) come forma evoluta di conoscenza che accoglie una significazione plurale, multiversa, generativa, non stabile; una conoscenza che lascia posto al credibile, al condivisibile piuttosto che al certo e al vero;
  • aprire i pori del sensibile, coinvolgendo tutte le aree ricettive del nostro corpo, e guidare a riconoscerle, sollecitando le parole per qualificare questo sentire; incentivare, cioè, una sorta di ermeneutica metariflessiva che nasca dall’atto fabrile, dal fare esperienza; un dare pensiero alla forma che includa inestricabilmente anche il processo inverso, dare forma al pensiero.

L’augurio di questo sbocciare, tuttavia, è anche rivolto a noi insegnanti. Così, mi sono emozionata quando Barbara (di nuovo una ex allieva, ora anche lei insegnante di Musica) dopo la lettura del libro mi ha restituito questa coinvolgente testimonianza: «Ho gustato tutto di questo libro: le storie, la carta (anche l’odore!!!), l’impaginazione, i “semini” di esperienza raccolti alla fine di ogni capitolo: come se fossero i sassolini di Pollicino, indispensabili per non perdersi, che manifestano la necessità di fermarsi e riflettere».

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