Musicheria. La rivista digitale di educazione al suono e alla musica

Embodied Cognition e direzione d’orchestra

Marco Corcella

Corpo e mente in relazione

Introduzione

Il rapporto tra il gesto e il suono è naturale; la stessa fonazione, la produzione di suoni o rumori per mezzo degli organi vocali prevede un gesto visibile, quale una particolare impostazione fisica e un gesto interno, con il movimento di una serie di catene muscolari che fa risuonare la cassa di risonanza del nostro corpo. Il suono è prodotto anche da gesti eseguiti su oggetti esterni; tra questi “oggetti” i più particolari sono gli altri uomini con le loro voci e nel corso del tempo, questi gesti si sono trasformati in altro: il gesto di una mano che sale e scende è diventata rappresentazione di movimento ascendente e discendente di una linea di canto, dapprima stilizzato e dopo codificato, passando da icona (immagine di una curva) a simbolo con l’utilizzo dei neumi, da immediata comprensione a precisa cognizione.
Il gesto e il suono sono così strettamente correlati: l’intensità, il ritmo del primo, agisce direttamente sul secondo in modo direttamente proporzionale.
I bambini piccoli sanno bene che quando afferrano un oggetto e lo sbattono per terra, vogliono sentire che rumore faccia o che suona produca: comprendono molto spontaneamente che in riferimento al tipo di oggetto che hanno in mano, a quanta forza ci mettono per percuoterlo e a dove lo percuotono, otterranno risultati diversi; il gesto si trasforma quindi in forma di conoscenza, il corpo apprende qualcosa con il movimento che compie e sembra averlo compiuto spontaneamente, o meglio, è come se avesse avuto una “mente” non razionale in senso stretto ad averlo guidato.
Dagli anni ’90 questa è la grande rivoluzione nel campo d’indagine della neurofisiologia, della psicologia e della filosofia, quella di considerare il corpo come motore della conoscenza e non come l’esecutore di ciò che elabora e decide il cervello, ritenuto dal cognitivismo computazionale per eccellenza il super computer produttore di sistemi complessi di pensiero: è la rivoluzione della teoria della “conoscenza incarnata”, conosciuta come Embodied cognition.

Embodied Cognition per musicisti

Contro le scienze cognitive classiche, le teorie embodied affermano che i processi di alto livello siano radicati nei cosiddetti processi sensorimotori di basso livello (Barsalou 1999; Glenberg, Gallese 2012; Pulvermüller 2005). “Secondo tali teorie, infatti, non esiste una separazione tra processi cognitivi superiori e inferiori perché «lattività cognitiva ha luogo nel contesto di un ambiente reale e coinvolge, in modo fondamentale, la percezione e lazione» (Wilson 2002)” (Adornetti, Chiera, Fernetti, 2018). A fondamento dell’Embodied Cognition, vi è l’idea che la cognizione abbia a che fare con le azioni sul mondo, piuttosto che con le rappresentazioni del mondo: la cognizione non è una contemplazione distaccata della realtà, ma un insieme di processi che determinano possibili azioni su di essa (Varela et al. 1991). Il gesto che produce suono ed è a esso strettamente riferito, diviene quindi esempio di agire incarnato che determina conoscenza, elaborata successivamente dal cervello, in una visione dal basso verso l’alto “bottom-up” e non più “top-down”: a questa nuova visione guarda con favore la moderna pedagogia fenomenologica, partendo soprattutto dagli ambiti delle scienze motorie, ma con risvolti interessanti per gli aspetti motorio-musicali utilizzandone principi e possibilità per lo sviluppo delle competenze musicali, con la cosiddetta Embodied Music Cognition.

L’Embodied cognition predica una reciprocità generativa, uno scambio continuo ed un dualismo strettissimo fra esperienza e conoscenza: l’una genera l’altra e viceversa, con l’utilizzo del corpo indissolubilmente legato alla mente.
Shaun Gallagher, uno dei più importanti filosofi americani ed uno dei massimi studiosi di cognizione incarnata, aggiunge anche un particolare importante per l’ambito musicale; riprendendo le parole del filosofo greco Anassagora, in una recente intervista per “Il Corriere della Sera”, afferma che l’uomo sarebbe meno intelligente senza mani, ed in effetti è stato notato che i neuroni si specializzano nel prendere in diversi modi gli oggetti, determinando una diversa configurazione prensile delle mani. Gomez Paloma, docente del Dipartimento di Scienze Umane, Filosofiche e della Formazione dell’Università di Salerno, in un bellissimo articolo del 2016 dedicato in particolare all’inclusività delle pratiche sportive e a come queste siano un esempio chiaro e lampante di come il corpo apprenda, ci parla della Pedagogia del Corpo, concetto che ritornerà a breve sotto altri termini. Con le parole di Alessandro Antonietti, docente di psicologia generale dell’Università Cattolica di Milano: “Se la musica è in grado di suscitare con alta frequenza e intensità esperienze corporee e queste possono essere facilmente associate alle caratteristiche delle produzioni sonore, si può congetturare che la comprensione della musica, e la qualità della sua fruizione, possa essere potenziata nella misura in cui si diventa consapevoli delle valenze fisico-corporee del linguaggio musicale. Nello stesso tempo, ma nella direzione opposta, questa consapevolezza può essere utile per affinare l’“intelligenza corporeo-cinestesica”, ossia il complesso di capacità che riguardano la sensibilità, sia recettiva che espressiva, del nostro corpo e la pianificazione ed esecuzione dei movimenti. Quindi si può immaginare un percorso di reciproco potenziamento che muove dal corpo per andare alla musica e che dalla musica muove verso il corpo”. Ma allora perché non appropriarsi di questi principi, in campi della formazione musicale che utilizzano il corpo non propedeuticamente per uno sviluppo formativo dell’identità personale, ma per la formazione accademica di cantanti e direttori d’orchestra?
L’esperienza sembrerebbe suggerire che questo avvenga molto parzialmente.

Embodied cognition per direttori

Le didattiche musicali a cavallo tra fine ottocento e novecento, come quelle sviluppate da Dalcroze, Orff, Willems, Gordon, pur nelle loro specifiche peculiarità hanno un denominatore comune nel considerare il movimento come punto focale per sviluppare musicalità; invece la didattica della direzione sembra sia spesso impegnata solo a rendere chiari gli schemi con cui si batte un tempo in quattro, in tre e così via, lasciando all’indicazione generica di cercare di “essere musicali”, la responsabilità dello studente nel migliorare il proprio gesto: tutto ciò, alla luce di quanto detto finora potrebbe essere notevolmente implementato da altro, anche perché la scansione metrica non è il principale problema nella guida musicale di un gruppo.
Va detto che in generale la didattica degli strumenti musicali omette la parte “corpo” e “persona” con i propri specifici bisogni, la propria capacità di apprendere e soprattutto, le proprie emozioni, persistendo nel seguire un paradigma didattico “statico” anziché “dinamico” (Delfrati, 2008) e nonostante ormai la scienza proponga altro.
La guida di un gruppo di persone è invece soprattutto una questione di percezione del contesto attorno a sé e percezione del proprio sé nello spazio, di propriocezione. Ma quale relazione fra percezione e propriocezione?
La propriocezione, il senso cinestesico, è una metacognizione, un guardarsi da fuori mentre si svolge un’azione. Secondo Piaget, con idee poi riprese da Marco De Natale nel suo libro “Per una teoria dellascolto musicale” non c’è movimento senza una continua anticipazione del movimento, senza il quale il movimento non esisterebbe nella precisione di esecuzione e senza una continua immaginazione di come il movimento sia percepito all’esterno.
In questo modo la didattica può essere considerata con una visione enattivista, nella quale si crea una relazione di scambio tra il soggetto che impara e l’ambiente in cui vive, ciò che Varela (1985) definisce accoppiamento strutturale a doppio feedback.
In questo paradigma teorico, l’ambiente influenza chi compie azioni ma ne viene a sua volta influenzato. Nella visione enattivista l’azione stessa è conoscenza, in questo caso particolare il gesto diventa conoscenza e quest’ultima, non è un oggetto esterno al soggetto che apprende come secondo l’Istruttivismo e anche in parte lo stesso Costruttivismo, ma si co-costruisce con chi apprende. In un ambito musicale orchestrale, entrambi i protagonisti della produzione di conoscenza sono musicisti e direttore; nel momento stesso in cui quest’ultimo alza il braccio qualcosa accade, sperando che abbia corrispondenza col suo pensiero interpretativo. Proprio per questo motivo, è quindi importantissimo che il direttore abbia una chiara idea di ciò che vuole far emergere, o meglio co-emergere da parte dell’orchestra. Interessanti le parole di Muti quando parlando della “Missa Solemnis” di Beethoven, afferma di non aver osato toccarla fino al 2022, dalla sua prima partitura ricevuta negli anni Settanta: la partitura va assimilata, interiorizzata, immaginata (operando ciò che Gordon ha teorizzato con la sua Audiation) ma solo con la reazione dell’orchestra si comprendono altre cose, co-emergendo pesi sonori e significati musicali non altrimenti sperimentabili. In questo senso la didattica enattiva favorisce la sperimentazione sul campo di un gesto che diventa conoscenza, un elemento soggettivo che oggettiva un significato. L’insegnante mantiene il suo ruolo imprescindibile di facilitatore, semplificatore e acceleratore dei processi di apprendimento, ma una didattica innovativa dovrebbe considerare di non passare sotto lente “inquisitoria” qualsiasi gesto: l’allievo come detto, co-costruisce con chi ha davanti la sua conoscenza, che sarà incarnata e quindi maggiormente appresa, principi alla base dell’educazione musicale “motoria” di Dalcroze o di certe scuole musicali direttoriali sudamericane che fanno dell’acquisizione del ritmo con il corpo un punto focale. Con quest’approccio si può spiegare la relazione che si crea tra un direttore e l’orchestra: non ci sono altro che reazioni a degli input offerti dal direttore, che a sua volta viene condizionato dai musicisti davanti a lui. Tra le competenze utili a un comunicatore molto specializzato quale deve essere un direttore, quelle derivanti dalla Teoria della mente (ToM) sono certamente tra le più importanti: secondo tale teoria, si comunica con l’altro figurandosi già la sua reazione. Da questo è chiaro che enattivismo e ToM, nella loro logica bidirezionale, devono permettere un esercizio continuo di tali competenze.
Come esercitare per esempio l’enattivismo? Per esempio attraverso l’acquisizione di un gesto musicale come condotta musicale, che ha l’elasticità necessaria per avere efficacia. La condotta musicale è infatti, secondo Delalande, un gesto che si finalizza per raggiungere un obiettivo.

Proposte pratiche

Numerose esperienze didattiche, ormai da decenni pongono l’accento sull’importanza del movimento e del canto per il miglioramento di parametri esecutivi (Mercone 2012) e secondo Davidson (2005), un’esecuzione diventa musicale quando anzitutto è esperienza corporea. Alla luce di quanto detto quindi, la didattica della direzione di coro e orchestra dovrebbe diventare una “Pedagogia del Corpo” come proposto da Gomez Paloma. Come mettere in pratica tutto questo?
Evitando il rischio di soluzioni semplicistiche e banalizzazioni dell’effettiva complessità del problema, avanzerei qualche proposta che fonda le proprie motivazioni sugli assunti teorici di cui ho parlato finora, ma che hanno certamente bisogno di conferme sperimentali.

Corpo in movimento: lasciare libero il corpo nello spazio, anche al di fuori di un setting accademico tradizionale potrebbe essere, come già John Locke e Jean-Jacques Rousseau ipotizzavano, un utile svincolo da regole ingabbianti e astratte, un modo di fare esperienza diretta delle cose. Il fatto stesso di essere al di fuori di un contesto formale di apprendimento è allo stesso tempo spiazzante e stimolante poiché induce dei sistemi di autoregolazione della propria autonomia nel scegliere come e cosa apprendere e nel caso specifico della direzione, l’autoregolazione è stimolata dalla continua interlocuzione col gruppo di persone che condividono l’esecuzione musicale nel momento presente.

Uso dei gesti: i gesti si distinguono tra quelli per il loro uso puramente strumentale come aprire la porta o attraversare la strada, da quelli che assumono un intento comunicativo (Kendon, 2004) e alla base dello sviluppo di una tecnica direttoriale efficace e intelligibile universalmente, bisognerebbe considerare che esiste un repertorio condiviso fatto di gesti finalizzati e significativi che generano responsività dei neuroni specchio (Proverbio 2019). Il repertorio di gesti del direttore è quindi personale fino ad un certo punto: esisterebbero degli “universali”, un lessico gestuale condiviso scritto geneticamente, che è riscontrabile anche nei primati come il macaco come  gesti iconici, metaforici e deittici. Inoltre, considerando che serve circa mezzo secondo per comprendere questi gesti istintivamente e un altro mezzo secondo per programmare un’azione a livello di corteccia premotoria (Sugarawa et al., 2013), appare chiaro come sia importante un gesto anticipato ed esercitare abilità di lettura a prima vista, che consentano al direttore di essere avanti di circa 5-6 secondi sulla partitura rispetto agli esecutori. La pratica costante di questi gesti, consente loro di diventare coscientemente istintivi: circuiti cerebrali che sovrintendono all’apprendimento di un gesto o di una sequenza di azioni e all’automazione di questi, seguono strade diverse e mentre due gesti automatici tra loro non interferiscono (possiamo parlare e guidare), due gesti in apprendimento non possono essere simultanei senza avere conseguenze. E’ necessario inoltre del tempo perché le sequenze motorie passino da un circuito a un altro e per questo motivo, serve tanta pratica per suonare uno strumento come per acquisire un gesto direttoriale corretto.
La ragione di questo è scientifica, dovendo esserci una traslazione da un circuito cerebrale dedicato all’apprendimento a uno dedicato agli automatismi: questo passaggio richiede tempo, pratica e ripetizioni, alla stessa maniera con il quale si apprendono passi di danza o a guidare (Proverbio, 2019). E’ per questo motivo che non bisognerebbe insistere troppo sulla correzione di imperfezioni fino al raggiungimento della perfezione del gesto in un’unica sessione didattica, ma lasciare il tempo che tale competenza “lieviti” spontaneamente. In tal senso, le esperienze della ritmica Dalcroze per la propedeutica musicale e quelle della pedagogista svizzera Tina Strinning, che focalizza l’attenzione sull’uso del corpo per il superamento delle rigidità nello studio del violino (mutuando da Dalcroze), possono essere spunti interessanti di riflessione e sviluppo di esercizi mirati. Un modo di apprendere uno schema motorio potrebbe per esempio quella di esercitarlo inizialmente al di fuori del proprio contesto: l’esecuzione di un gesto delicato su di una musica dolce per esempio, come quello che rappresenti accarezzare qualcosa, per poi essere inserito nel contesto musicale appropriato, può favorire lo stupore nello studente (agendo quindi su di un aspetto emozionale dell’apprendimento) nel vedere che ciò che fa ha un senso e non è fine a se stesso.  Affinché un gesto sia appreso efficacemente infatti, serve appropriarsi della sua funzione: se se ne comprende l’utilità, il fine lo trasforma in una condotta, termine che comparirà più avanti e che indica un gesto che ha un obiettivo e uno scopo, un cosiddetto atto motorio. Di conseguenza se si comprende lo scopo per cui il gesto è progettato, il perfezionamento di questo è successivo, non può precedere la comprensione della sua funzione. Si distinguono pertanto tre fasi, derivate da studi in scienze motorie:
1) La produzione del risultato. Rappresenta il primo obiettivo, che si ottiene ordinando anche grossolanamente gli elementi che compongono il gesto compiuto per arrivare comunque al risultato.
2) Il miglioramento della presa d’informazione finalizzato allo sviluppo del “senso del movimento”. (processi percettivi) Si ottiene attraverso ripetizioni in forma sempre più controllata e quindi propriocettivamente cosciente.
3) La rielaborazione “mentale”, cioè la presa di coscienza e la rielaborazione delle sensazioni cinestesiche comprese pienamente e assimilate, fatte proprie in modo tale da poter fluire spontaneamente ed essere sempre a disposizione. Fa parte di un sapere esperto tipico di sportivi ad alto livello o strumentisti di tutti i generi.
Queste tre fasi sono fortemente interconnesse e sono la radice stessa dell’apprendimento motorio, che incide fortemente su nuovi processi di apprendimento e miglioramento delle performance.

Prime esperienze in classe

Delle prime indicazioni da me raccolte in una breve esperienza con ragazzi di classe prima di una scuola media ad indirizzo musicale, sembrerebbero esserci dei risvolti interessanti e delle iniziali conferme di quanto ipotizzato; punto di partenza è stata una libera interpretazione corporea dell’ouverture de “Il Barbiere di Siviglia”. Ai ragazzi è stato proposto di muoversi liberamente col corpo, ma non nello spazio per motivi di dimensioni ridotte dell’aula, seguendo ciò che la musica di Rossini suggeriva loro, senza dare nessuna indicazione preliminare ed in qualche modo influenzante. Ascolto ripetuto tre volte e dopo ogni volta cercando di porre l’attenzione su determinati aspetti della musica (accelerazione, rallentamento, crescendo, diminuendo, forte e piano); quindi ad una fase di warm-up nella quale prendere confidenza col brano è seguita una parte di liberazione di energia “controllata” seguendo un minimo di traccia di lavoro. Si è notata una cosa interessante, nonostante l’esperienza embrionale: tutti i ragazzi hanno mostrato una certa corrispondenza fra ciò che la musica esprimeva in quel momento e le loro reazioni fisiche, in maniera più accentuata in un ragazzo in particolare, agonista di ginnastica artistica, quindi con un bagaglio di schemi motori sviluppato ed una naturale propensione all’armonicità dei movimenti. Una primissima parziale conferma che il corpo dimostra di saper apprendere anche molto rapidamente, senza medium mentale inteso come una elaborazione superiore e “complicante” e soprattutto, di esprimere musicalità anche senza acculturamento musicale, che può in qualche modo “falsare” il risultato.
Sembrerebbe una base per un’attività di training fisico da applicare subito con chi si avvicina alla pratica direttoriale, come liberante energia e rilassante per il corpo (Antonietti, 2020), ma chiaramente ha bisogno di essere vagliato e attentamente monitorato e migliorato, per giungere ad una valida proposta didattica.

Conclusioni

Quanto esposto finora, non deve far pensare ad un approccio puramente spontaneista (Delfrati, 2018), che rischia di mettere in stallo il progresso nell’acquisizione delle competenze; la forza generatrice del corpo dovrà essere comunque sempre guidata poiché il bambino, il ragazzo o lo studente, non vive di una corporeità “vergine” ma sempre comunque “acculturata” a gradi più o meno avanzati. L’uomo a qualunque età vive immerso nella sua società, nella sua cultura e ne riceve continuamente stimoli più o meno consapevolmente, “la cultura formale svolge unopera strettamente analoga allistinto secondo l’antropologo Edward Hall. Concludo con un’ultima riflessione che apre ai necessari sviluppi di cui si è parlato, con le parole del già citato Carlo Delfrati: “Tra la Scilla dellautoritarismo e le Cariddi dello spontaneismo naviga lintrepida navicella dellinsegnante dinamico, che incoraggia sì la liberazione delle risorse personali dell’alunno, ma non può farlo se non offrendogli occasioni, strumenti e materiali derivati dalla sua cultura di appartenenza”. 

BIBLIOGRAFIA

Crepaldi, M & Antonietti, A. (2018), Musica embodied: Dal corpo al linguaggio dei suoni: un percorso operativo, Psy Print, edizioni online.

Dalcroze, J.E. (1986), Il ritmo, la musica, l’educazione, Rai ERI, Torino.

Delalande, F. (1993), Le condotte musicali. Comportamenti e motivazioni del fare e ascoltare musica, CLUEB, Bologna.

Delalande, F. (2004), La Musica è un gioco da bambini, FrancoAngeli, Milano.

De Natale, M. (2015), Per una teoria dell’ascolto musicale: tra soglie vegetative e immaginario eccentrico, Mimesis, Milano.

Delfrati, C. (2008), Fondamenti di pedagogia musicale, EDT, Torino.

Di Segni, J. (1979), Il metodo Dalcroze, Nuova Rivista Musicale Italiana, Torino.

Dorsi, F. (2018), Elementi di direzione dorchestra, Casa musicale Eco, Monza.

Landriscina, A. (2005), Manuale di direzione, Risorsa open source.

Mado Proverbio, A. (2019), Neuroscienze cognitive della musica. Il cervello musicale tra arte e scienza, Zanichelli, Bologna.

Mado Proverbio, A. (2022), Percezione e creazione musicale, Zanichelli, Bologna.

Mazzoli, F. (1997), Musica per gioco, Educazione Musicale e progetto, EDT, Torino.

Visentin, G. (2017), Dal vedere al fare: lapprendimento motorio, Risorsa open source.

Embodied Cognition per musicisti

Contro le scienze cognitive classiche, le teorie embodied affermano che i processi di alto livello siano radicati nei cosiddetti processi sensorimotori di basso livello (Barsalou 1999; Glenberg, Gallese 2012; Pulvermüller 2005). “Secondo tali teorie, infatti, non esiste una separazione tra processi cognitivi superiori e inferiori perché «lattività cognitiva ha luogo nel contesto di un ambiente reale e coinvolge, in modo fondamentale, la percezione e lazione» (Wilson 2002)” (Adornetti, Chiera, Fernetti, 2018). A fondamento dell’Embodied Cognition, vi è l’idea che la cognizione abbia a che fare con le azioni sul mondo, piuttosto che con le rappresentazioni del mondo: la cognizione non è una contemplazione distaccata della realtà, ma un insieme di processi che determinano possibili azioni su di essa (Varela et al. 1991). Il gesto che produce suono ed è a esso strettamente riferito, diviene quindi esempio di agire incarnato che determina conoscenza, elaborata successivamente dal cervello, in una visione dal basso verso l’alto “bottom-up” e non più “top-down”: a questa nuova visione guarda con favore la moderna pedagogia fenomenologica, partendo soprattutto dagli ambiti delle scienze motorie, ma con risvolti interessanti per gli aspetti motorio-musicali utilizzandone principi e possibilità per lo sviluppo delle competenze musicali, con la cosiddetta Embodied Music Cognition.

L’Embodied cognition predica una reciprocità generativa, uno scambio continuo ed un dualismo strettissimo fra esperienza e conoscenza: l’una genera l’altra e viceversa, con l’utilizzo del corpo indissolubilmente legato alla mente.
Shaun Gallagher, uno dei più importanti filosofi americani ed uno dei massimi studiosi di cognizione incarnata, aggiunge anche un particolare importante per l’ambito musicale; riprendendo le parole del filosofo greco Anassagora, in una recente intervista per “Il Corriere della Sera”, afferma che l’uomo sarebbe meno intelligente senza mani, ed in effetti è stato notato che i neuroni si specializzano nel prendere in diversi modi gli oggetti, determinando una diversa configurazione prensile delle mani. Gomez Paloma, docente del Dipartimento di Scienze Umane, Filosofiche e della Formazione dell’Università di Salerno, in un bellissimo articolo del 2016 dedicato in particolare all’inclusività delle pratiche sportive e a come queste siano un esempio chiaro e lampante di come il corpo apprenda, ci parla della Pedagogia del Corpo, concetto che ritornerà a breve sotto altri termini. Con le parole di Alessandro Antonietti, docente di psicologia generale dell’Università Cattolica di Milano: “Se la musica è in grado di suscitare con alta frequenza e intensità esperienze corporee e queste possono essere facilmente associate alle caratteristiche delle produzioni sonore, si può congetturare che la comprensione della musica, e la qualità della sua fruizione, possa essere potenziata nella misura in cui si diventa consapevoli delle valenze fisico-corporee del linguaggio musicale. Nello stesso tempo, ma nella direzione opposta, questa consapevolezza può essere utile per affinare l’“intelligenza corporeo-cinestesica”, ossia il complesso di capacità che riguardano la sensibilità, sia recettiva che espressiva, del nostro corpo e la pianificazione ed esecuzione dei movimenti. Quindi si può immaginare un percorso di reciproco potenziamento che muove dal corpo per andare alla musica e che dalla musica muove verso il corpo”. Ma allora perché non appropriarsi di questi principi, in campi della formazione musicale che utilizzano il corpo non propedeuticamente per uno sviluppo formativo dell’identità personale, ma per la formazione accademica di cantanti e direttori d’orchestra?
L’esperienza sembrerebbe suggerire che questo avvenga molto parzialmente.

Embodied cognition per direttori

Le didattiche musicali a cavallo tra fine ottocento e novecento, come quelle sviluppate da Dalcroze, Orff, Willems, Gordon, pur nelle loro specifiche peculiarità hanno un denominatore comune nel considerare il movimento come punto focale per sviluppare musicalità; invece la didattica della direzione sembra sia spesso impegnata solo a rendere chiari gli schemi con cui si batte un tempo in quattro, in tre e così via, lasciando all’indicazione generica di cercare di “essere musicali”, la responsabilità dello studente nel migliorare il proprio gesto: tutto ciò, alla luce di quanto detto finora potrebbe essere notevolmente implementato da altro, anche perché la scansione metrica non è il principale problema nella guida musicale di un gruppo.
Va detto che in generale la didattica degli strumenti musicali omette la parte “corpo” e “persona” con i propri specifici bisogni, la propria capacità di apprendere e soprattutto, le proprie emozioni, persistendo nel seguire un paradigma didattico “statico” anziché “dinamico” (Delfrati, 2008) e nonostante ormai la scienza proponga altro.
La guida di un gruppo di persone è invece soprattutto una questione di percezione del contesto attorno a sé e percezione del proprio sé nello spazio, di propriocezione. Ma quale relazione fra percezione e propriocezione?
La propriocezione, il senso cinestesico, è una metacognizione, un guardarsi da fuori mentre si svolge un’azione. Secondo Piaget, con idee poi riprese da Marco De Natale nel suo libro “Per una teoria dellascolto musicale” non c’è movimento senza una continua anticipazione del movimento, senza il quale il movimento non esisterebbe nella precisione di esecuzione e senza una continua immaginazione di come il movimento sia percepito all’esterno.
In questo modo la didattica può essere considerata con una visione enattivista, nella quale si crea una relazione di scambio tra il soggetto che impara e l’ambiente in cui vive, ciò che Varela (1985) definisce accoppiamento strutturale a doppio feedback.
In questo paradigma teorico, l’ambiente influenza chi compie azioni ma ne viene a sua volta influenzato. Nella visione enattivista l’azione stessa è conoscenza, in questo caso particolare il gesto diventa conoscenza e quest’ultima, non è un oggetto esterno al soggetto che apprende come secondo l’Istruttivismo e anche in parte lo stesso Costruttivismo, ma si co-costruisce con chi apprende. In un ambito musicale orchestrale, entrambi i protagonisti della produzione di conoscenza sono musicisti e direttore; nel momento stesso in cui quest’ultimo alza il braccio qualcosa accade, sperando che abbia corrispondenza col suo pensiero interpretativo. Proprio per questo motivo, è quindi importantissimo che il direttore abbia una chiara idea di ciò che vuole far emergere, o meglio co-emergere da parte dell’orchestra. Interessanti le parole di Muti quando parlando della “Missa Solemnis” di Beethoven, afferma di non aver osato toccarla fino al 2022, dalla sua prima partitura ricevuta negli anni Settanta: la partitura va assimilata, interiorizzata, immaginata (operando ciò che Gordon ha teorizzato con la sua Audiation) ma solo con la reazione dell’orchestra si comprendono altre cose, co-emergendo pesi sonori e significati musicali non altrimenti sperimentabili. In questo senso la didattica enattiva favorisce la sperimentazione sul campo di un gesto che diventa conoscenza, un elemento soggettivo che oggettiva un significato. L’insegnante mantiene il suo ruolo imprescindibile di facilitatore, semplificatore e acceleratore dei processi di apprendimento, ma una didattica innovativa dovrebbe considerare di non passare sotto lente “inquisitoria” qualsiasi gesto: l’allievo come detto, co-costruisce con chi ha davanti la sua conoscenza, che sarà incarnata e quindi maggiormente appresa, principi alla base dell’educazione musicale “motoria” di Dalcroze o di certe scuole musicali direttoriali sudamericane che fanno dell’acquisizione del ritmo con il corpo un punto focale. Con quest’approccio si può spiegare la relazione che si crea tra un direttore e l’orchestra: non ci sono altro che reazioni a degli input offerti dal direttore, che a sua volta viene condizionato dai musicisti davanti a lui. Tra le competenze utili a un comunicatore molto specializzato quale deve essere un direttore, quelle derivanti dalla Teoria della mente (ToM) sono certamente tra le più importanti: secondo tale teoria, si comunica con l’altro figurandosi già la sua reazione. Da questo è chiaro che enattivismo e ToM, nella loro logica bidirezionale, devono permettere un esercizio continuo di tali competenze.
Come esercitare per esempio l’enattivismo? Per esempio attraverso l’acquisizione di un gesto musicale come condotta musicale, che ha l’elasticità necessaria per avere efficacia. La condotta musicale è infatti, secondo Delalande, un gesto che si finalizza per raggiungere un obiettivo.

Proposte pratiche

Numerose esperienze didattiche, ormai da decenni pongono l’accento sull’importanza del movimento e del canto per il miglioramento di parametri esecutivi (Mercone 2012) e secondo Davidson (2005), un’esecuzione diventa musicale quando anzitutto è esperienza corporea. Alla luce di quanto detto quindi, la didattica della direzione di coro e orchestra dovrebbe diventare una “Pedagogia del Corpo” come proposto da Gomez Paloma. Come mettere in pratica tutto questo?
Evitando il rischio di soluzioni semplicistiche e banalizzazioni dell’effettiva complessità del problema, avanzerei qualche proposta che fonda le proprie motivazioni sugli assunti teorici di cui ho parlato finora, ma che hanno certamente bisogno di conferme sperimentali.

Corpo in movimento: lasciare libero il corpo nello spazio, anche al di fuori di un setting accademico tradizionale potrebbe essere, come già John Locke e Jean-Jacques Rousseau ipotizzavano, un utile svincolo da regole ingabbianti e astratte, un modo di fare esperienza diretta delle cose. Il fatto stesso di essere al di fuori di un contesto formale di apprendimento è allo stesso tempo spiazzante e stimolante poiché induce dei sistemi di autoregolazione della propria autonomia nel scegliere come e cosa apprendere e nel caso specifico della direzione, l’autoregolazione è stimolata dalla continua interlocuzione col gruppo di persone che condividono l’esecuzione musicale nel momento presente.

Uso dei gesti: i gesti si distinguono tra quelli per il loro uso puramente strumentale come aprire la porta o attraversare la strada, da quelli che assumono un intento comunicativo (Kendon, 2004) e alla base dello sviluppo di una tecnica direttoriale efficace e intelligibile universalmente, bisognerebbe considerare che esiste un repertorio condiviso fatto di gesti finalizzati e significativi che generano responsività dei neuroni specchio (Proverbio 2019). Il repertorio di gesti del direttore è quindi personale fino ad un certo punto: esisterebbero degli “universali”, un lessico gestuale condiviso scritto geneticamente, che è riscontrabile anche nei primati come il macaco come  gesti iconici, metaforici e deittici. Inoltre, considerando che serve circa mezzo secondo per comprendere questi gesti istintivamente e un altro mezzo secondo per programmare un’azione a livello di corteccia premotoria (Sugarawa et al., 2013), appare chiaro come sia importante un gesto anticipato ed esercitare abilità di lettura a prima vista, che consentano al direttore di essere avanti di circa 5-6 secondi sulla partitura rispetto agli esecutori. La pratica costante di questi gesti, consente loro di diventare coscientemente istintivi: circuiti cerebrali che sovrintendono all’apprendimento di un gesto o di una sequenza di azioni e all’automazione di questi, seguono strade diverse e mentre due gesti automatici tra loro non interferiscono (possiamo parlare e guidare), due gesti in apprendimento non possono essere simultanei senza avere conseguenze. E’ necessario inoltre del tempo perché le sequenze motorie passino da un circuito a un altro e per questo motivo, serve tanta pratica per suonare uno strumento come per acquisire un gesto direttoriale corretto.
La ragione di questo è scientifica, dovendo esserci una traslazione da un circuito cerebrale dedicato all’apprendimento a uno dedicato agli automatismi: questo passaggio richiede tempo, pratica e ripetizioni, alla stessa maniera con il quale si apprendono passi di danza o a guidare (Proverbio, 2019). E’ per questo motivo che non bisognerebbe insistere troppo sulla correzione di imperfezioni fino al raggiungimento della perfezione del gesto in un’unica sessione didattica, ma lasciare il tempo che tale competenza “lieviti” spontaneamente. In tal senso, le esperienze della ritmica Dalcroze per la propedeutica musicale e quelle della pedagogista svizzera Tina Strinning, che focalizza l’attenzione sull’uso del corpo per il superamento delle rigidità nello studio del violino (mutuando da Dalcroze), possono essere spunti interessanti di riflessione e sviluppo di esercizi mirati. Un modo di apprendere uno schema motorio potrebbe per esempio quella di esercitarlo inizialmente al di fuori del proprio contesto: l’esecuzione di un gesto delicato su di una musica dolce per esempio, come quello che rappresenti accarezzare qualcosa, per poi essere inserito nel contesto musicale appropriato, può favorire lo stupore nello studente (agendo quindi su di un aspetto emozionale dell’apprendimento) nel vedere che ciò che fa ha un senso e non è fine a se stesso.  Affinché un gesto sia appreso efficacemente infatti, serve appropriarsi della sua funzione: se se ne comprende l’utilità, il fine lo trasforma in una condotta, termine che comparirà più avanti e che indica un gesto che ha un obiettivo e uno scopo, un cosiddetto atto motorio. Di conseguenza se si comprende lo scopo per cui il gesto è progettato, il perfezionamento di questo è successivo, non può precedere la comprensione della sua funzione. Si distinguono pertanto tre fasi, derivate da studi in scienze motorie:
1) La produzione del risultato. Rappresenta il primo obiettivo, che si ottiene ordinando anche grossolanamente gli elementi che compongono il gesto compiuto per arrivare comunque al risultato.
2) Il miglioramento della presa d’informazione finalizzato allo sviluppo del “senso del movimento”. (processi percettivi) Si ottiene attraverso ripetizioni in forma sempre più controllata e quindi propriocettivamente cosciente.
3) La rielaborazione “mentale”, cioè la presa di coscienza e la rielaborazione delle sensazioni cinestesiche comprese pienamente e assimilate, fatte proprie in modo tale da poter fluire spontaneamente ed essere sempre a disposizione. Fa parte di un sapere esperto tipico di sportivi ad alto livello o strumentisti di tutti i generi.
Queste tre fasi sono fortemente interconnesse e sono la radice stessa dell’apprendimento motorio, che incide fortemente su nuovi processi di apprendimento e miglioramento delle performance.

Prime esperienze in classe

Delle prime indicazioni da me raccolte in una breve esperienza con ragazzi di classe prima di una scuola media ad indirizzo musicale, sembrerebbero esserci dei risvolti interessanti e delle iniziali conferme di quanto ipotizzato; punto di partenza è stata una libera interpretazione corporea dell’ouverture de “Il Barbiere di Siviglia”. Ai ragazzi è stato proposto di muoversi liberamente col corpo, ma non nello spazio per motivi di dimensioni ridotte dell’aula, seguendo ciò che la musica di Rossini suggeriva loro, senza dare nessuna indicazione preliminare ed in qualche modo influenzante. Ascolto ripetuto tre volte e dopo ogni volta cercando di porre l’attenzione su determinati aspetti della musica (accelerazione, rallentamento, crescendo, diminuendo, forte e piano); quindi ad una fase di warm-up nella quale prendere confidenza col brano è seguita una parte di liberazione di energia “controllata” seguendo un minimo di traccia di lavoro. Si è notata una cosa interessante, nonostante l’esperienza embrionale: tutti i ragazzi hanno mostrato una certa corrispondenza fra ciò che la musica esprimeva in quel momento e le loro reazioni fisiche, in maniera più accentuata in un ragazzo in particolare, agonista di ginnastica artistica, quindi con un bagaglio di schemi motori sviluppato ed una naturale propensione all’armonicità dei movimenti. Una primissima parziale conferma che il corpo dimostra di saper apprendere anche molto rapidamente, senza medium mentale inteso come una elaborazione superiore e “complicante” e soprattutto, di esprimere musicalità anche senza acculturamento musicale, che può in qualche modo “falsare” il risultato.
Sembrerebbe una base per un’attività di training fisico da applicare subito con chi si avvicina alla pratica direttoriale, come liberante energia e rilassante per il corpo (Antonietti, 2020), ma chiaramente ha bisogno di essere vagliato e attentamente monitorato e migliorato, per giungere ad una valida proposta didattica.

Conclusioni

Quanto esposto finora, non deve far pensare ad un approccio puramente spontaneista (Delfrati, 2018), che rischia di mettere in stallo il progresso nell’acquisizione delle competenze; la forza generatrice del corpo dovrà essere comunque sempre guidata poiché il bambino, il ragazzo o lo studente, non vive di una corporeità “vergine” ma sempre comunque “acculturata” a gradi più o meno avanzati. L’uomo a qualunque età vive immerso nella sua società, nella sua cultura e ne riceve continuamente stimoli più o meno consapevolmente, “la cultura formale svolge unopera strettamente analoga allistinto secondo l’antropologo Edward Hall. Concludo con un’ultima riflessione che apre ai necessari sviluppi di cui si è parlato, con le parole del già citato Carlo Delfrati: “Tra la Scilla dellautoritarismo e le Cariddi dello spontaneismo naviga lintrepida navicella dellinsegnante dinamico, che incoraggia sì la liberazione delle risorse personali dell’alunno, ma non può farlo se non offrendogli occasioni, strumenti e materiali derivati dalla sua cultura di appartenenza”. 

BIBLIOGRAFIA

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Dalcroze, J.E. (1986), Il ritmo, la musica, l’educazione, Rai ERI, Torino.

Delalande, F. (1993), Le condotte musicali. Comportamenti e motivazioni del fare e ascoltare musica, CLUEB, Bologna.

Delalande, F. (2004), La Musica è un gioco da bambini, FrancoAngeli, Milano.

De Natale, M. (2015), Per una teoria dell’ascolto musicale: tra soglie vegetative e immaginario eccentrico, Mimesis, Milano.

Delfrati, C. (2008), Fondamenti di pedagogia musicale, EDT, Torino.

Di Segni, J. (1979), Il metodo Dalcroze, Nuova Rivista Musicale Italiana, Torino.

Dorsi, F. (2018), Elementi di direzione dorchestra, Casa musicale Eco, Monza.

Landriscina, A. (2005), Manuale di direzione, Risorsa open source.

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Mado Proverbio, A. (2022), Percezione e creazione musicale, Zanichelli, Bologna.

Mazzoli, F. (1997), Musica per gioco, Educazione Musicale e progetto, EDT, Torino.

Visentin, G. (2017), Dal vedere al fare: lapprendimento motorio, Risorsa open source.

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