Campi ed alleanze[1]
Sulle relazioni possibili fra i contesti dell’educazione e il mondo della Musicoterapia molto è stato scritto e dibattuto a partire dalla fine degli anni ’70[2]. Da ricordare che già nel 1978 il Centro Educazione Permanente della Pro Civitate Christiana di Assisi aveva organizzato un convegno intitolato “Educazione Musicale o Musicoterapia?” e un altro nel 1994 dal titolo “Handicap e musica: educazione e terapia” (Piatti 1982 e 1994)[3].
Tuttavia, anche dopo tanti anni di tentate chiarificazioni, spesso si incontra ancora un uso disinvolto del termine “Musicoterapia” che ripropone ciò che Mario Piatti descriveva già, appunto, nel 1994, come la tendenza ad attribuire al termine specifico una valenza maggiore rispetto, ad esempio, ad “Educazione Musicale” o “Didattica della Musica”, un valore socialmente e professionalmente più utile e redditizio, almeno in termini di “immagine”, una tendenza che porta ad utilizzarlo in situazioni in cui la distinzione con l’Educazione Musicale o la didattica non è chiara. (Piatti 1994, p. 8)
Certamente i due termini non sono contrapposti e non definiscono aree nettamente delimitate, anzi, al contrario, sono diversi i punti di contatto sul piano teorico, come pure la condivisione di alcune pratiche, con la possibilità che l’una (didattica musicale) influenzi l’altra (Musicoterapia) e viceversa. D’altra parte, evidentemente, non sono neppure equivalenti, per cui è necessario distinguere e specificare le premesse epistemologiche, i contesti operativi, le metodologie di intervento e le modalità di ciascuna pratica[4].
In questa direzione penso che occorra “difendere” la Musicoterapia da una considerazione che rischia di farla intendere come una pratica ibrida, poco definita, senza un paradigma teorico di riferimento che, al contrario, è ormai molto articolato e ricco di metodologie specifiche a cui far riferimento. L’uso incondizionato del termine, molto spesso venduto, o meglio “svenduto” a buon prezzo, non fa bene alla Pedagogia, che si vede scavalcata da approcci che rivendicano pensieri e teorie che le appartengono, ma nemmeno alla Musicoterapia, che perde il suo peso specifico per disperdersi fra e confondersi con altre pratiche limitrofe.
Ancora oggi, ad esempio, spesso si propende a definire con la parola “Musicoterapia” qualsiasi intervento o processo realizzato da un professionista che ha una formazione “musicoterapica”. Ma tale equivalenza non è automatica: all’interno della scuola, ad esempio, può risultare utile e forse anche da prevedere una formazione di questo tipo in dote alla professione di “insegnante di musica”[5], o anche l’eventuale collaborazione fra due figure professionali con proprie specifiche caratteristiche: la figura dell’insegnante che, all’interno dell’istituzione scolastica, garantisce continuità e unitarietà dei processi formativi, e la figura del musicoterapeuta (o musicoterapista) come specialista “esterno” che interviene in casi specifici, a patto che si muovano però sempre all’interno di un’alleanza che definirei “educativo-formativa”, con le finalità specifiche di tale contesto. Il contesto è quindi il tratto fondamentale per qualificare ciò che succede al proprio interno, rappresentandone lo sfondo concettuale e progettuale. Un insegnante e un musicoterapeuta che collaborino in un progetto scolastico svolgerebbero, quindi, un’attività educativa non definibile con il termine “Musicoterapia”.
In questa prospettiva va sottolineato che attengono ai contesti educativi non soltanto finalità disciplinari specifiche ma anche quelle più generali relative al “prendersi cura” delle relazioni, del ben-vivere e ben-essere di bambini e bambine, ragazzi e ragazze.
L’Educazione Musicale nella scuola di base, ad esempio, non è da considerarsi come un’azione didattica orientata primariamente ad acquisizioni tecniche ma come incontro, confronto e trasformazione di comportamenti, risorse, desideri, valori, che trovano nella musica un canale di espressione e di dialogo, ponendo quindi il valore dell’educazione con la musica a un livello superiore all’educazione alla musica, non escludendo quest’ultima semplicisticamente, bensì inglobandone il senso nella prima e coordinandola operativamente in funzione dei progetti umano-sociali.
Non è dunque sostenibile oggi una differenziazione fra didattica e Musicoterapia che basi la prima sull’apprendimento e la trasmissione di conoscenze e la seconda sulle relazioni, sul benessere e la crescita personale.
Non definirei quindi “terapeutico” un dispositivo, un processo o un intervento, individuale o di gruppo, solo perché realizzato da – o con la partecipazione di – un musicoterapeuta.
Allo stesso modo non definirei un’attività con il termine “Musicoterapia” soltanto perché coinvolge una qualche disabilità[6]. Anche quando si abbia a che fare con contesti in cui sono presenti disabilità è importante chiarire che «la Musicoterapia [quindi] non è la semplice giustapposizione di musica e patologia o il possibile o momentaneo benessere procurato da un ascolto o da una produzione musicale» (Raglio 2008, p. 17).
In questa prospettiva, riprendo quanto affermato da Piatti (1993) quando indica il pericolo che
[…] qualsiasi attività coinvolga coloro che si trovano in situazione di handicap sembra debba assumere di per sé valore terapeutico. Si viene a stabilire quasi una associazione inevitabile: gioco + handicap = ludoterapia; lavoro + handicap = ergoterapia; equitazione + handicap = ippoterapia; musica + handicap = Musicoterapia, e così via. […] coinvolgere l’handicappato in attività musicali (fruizione e/o produzione) non è, di per sé, fare Musicoterapia. L’azione terapeutica prevede criteri e metodologie proprie (lascio ai terapeuti il compito di esplicitarle). (Piatti 1993, pp. 82-84)
Allo stesso modo mi paiono ancora estremamente attuali le considerazioni di Postacchini, Ricciotti e Borghesi quando affermano che
Far star “meglio” l’handicappato a scuola, ma anche in ospedale o nei centri di accoglienza, farlo sorridere, farlo interagire è opera meritoria, ma se non si esce da questa genericità hanno buon gioco quanti si chiedono dove stia esattamente, nella Musicoterapia, il confine tra educazione e terapia, e in quale dei due ambiti debba essere inserito l’apprendimento di comportamenti più adeguati. (Postacchini, Ricciotti e Borghesi 1997, p. 58).
Da questo punto di vista anche definizioni come quelle di Musicoterapia “ricreativa”, “partecipativa” o “compartecipata”, o ancora Musicoterapia “di coinvolgimento”, “di condivisione”, “di solidarietà” o “di comunità” indicano contesti che paiono essere del tutto afferenti al mondo dell’educazione. Per cui non si vede l’esigenza di chiamarli con nuove espressioni[7] nel momento in cui i propri obiettivi siano
incrementare le possibilità di azione dell’individuo, [ad] incoraggiare la partecipazione, le relazioni e lo sviluppo del singolo tenendo in considerazione i suoi bisogni culturali e sociali, il suo essere inserito all’interno di uno specifico contesto con il quale quotidianamente interagisce […], unire il divario tra gli individui e le comunità creando uno spazio comune per un far musica e mostrare le abilità e il valore artistico e umano. (Caneva, Mattiello 2018, p. 24)
La Musicoterapia potrà dichiararsi tale quando chiarisca per ogni intervento il contesto e le finalità, individuando principalmente in questi due fattori i tratti pertinenti e dirimenti fra un approccio che rimane educativo ed uno terapeutico:
La disciplina musicoterapica molto spesso viene confusa e mescolata con attività musicali o pensata solo in relazione a momenti di rilassamento: capita infatti di leggere il termine “Musicoterapia” in aree-benessere, o in contesti che tutto sono tranne che terapeutici. Per poter parlare di percorso terapeutico è necessario stabilire una presa in carico; un progetto chiaro, con frequenza e durata specifiche e basato su evidenze scientifiche; un setting definito; obiettivi da raggiungere e da valutare: si determina in ciò la Musicoterapia. (Nobili, in Bertazzoni, Filippa, Rizzo, 2019, pp. 153-175).
In questa prospettiva il concetto di setting è fondamentale, e in Musicoterapia consiste in una cornice spazio-temporale (luogo, tempi, oggetti, strumenti, regole, comportamenti) che va progettata con cura e che rappresenta “la condizione necessaria affinché si possa parlare di psicoterapia e di arteterapia” (Vizzano 2009, p. 52; Chiappetta Cajola, Rizzo 2016, pp. 118-119). Ci sono consolidate esperienze, osservazioni, riflessioni sul ruolo e le opportunità del setting che lo propongono come un contesto progettato per l’osservazione di quanto accade al suo interno, contenitivo e protettivo, regolato e flessibile allo stesso tempo, condizioni difficilmente realizzabili all’interno dei contesti scolastici[8].
Aggiungo che un ulteriore tratto dirimente potrebbe essere – per esperienze che si definiscono con il termine “Musicoterapia” – la presenza di un’equipe di operatori che supervisioni il progetto stesso, esperienze in cui consapevolezza, conoscenza e trasformazione di sé avvengono all’interno di contesti stabili e percorsi specifici, non estemporanei ma di media/lunga durata, guidata da specialisti che si riferiscano ad un approccio teorico di riferimento chiaro.
Ciò non toglie che l’intervento all’interno della scuola di un professionista esterno possa portare linfa positiva, che possa introdurre qualche crepa, stimolare qualche scarto rispetto a situazioni che, non raramente, rimangono ancorate nel campo musicale a concezioni didattiche superate. I paradigmi della MT, alcuni suoi principi, insieme ad alcune sue pratiche, possono dunque essere riletti, adattati e orientati in chiave psicopedagogica in modo da arricchire l’orientamento di un’Educazione Musicale spesso ancora troppo ristretta a un insegnamento quasi del tutto grammaticale, centrato sull’esercizio e sul dispensare informazioni. (Galante, Martone, Trusio, 2016).
Un musicoterapeuta che collabori con l’insegnante può certamente aiutare a realizzare un’Educazione Musicale equa, in cui sia presente il pensiero della cura educativa, in cui si valorizzino le diversità, in cui chi ha difficoltà venga sostenuto, in nome di un’alleanza che non tenda però a sostituirsi ad un pensiero che è fondamentalmente pedagogico (Cfr. Borghesi, Strobino, 2017).
I contesti educativi sono campi di apprendimento che coincidono con campi di esperienze relazionali che non possono essere demandate a specialisti esterni. C’è il pericolo che relazioni sociali complesse si trasformino immediatamente in problemi o, peggio ancora, in patologie che necessitano, quindi, di interventi “terapeutici”. Al contrario, difficoltà di apprendimento e contesti comunicativi complessi sono implicati nello sguardo pedagogico e da un approccio educativo che ha nel “aver cura” uno dei suoi caposaldi.
Nei processi educativi, familiari e scolastici, il rapporto pedagogico si trasforma spesso in rapporto terapeutico. Qualunque difficoltà di apprendimento o di comunicazione viene Letta come deficit psicologico o relazionale e attiva un processo di trattamento settoriale, che non è in genere che l’inizio di una catena di interventi. […] Si verifica così una estesa terapeutizzazione del quotidiano e l’imperativo sembra quello di guarire la vita anziché viverla. (Melucci 1991, pp. 87-88).
La Pedagogia, in questa prospettiva, può tenere desta l’attenzione della Musicoterapia verso il pericolo di terapeutizzare il quotidiano, invitandola invece a de-patologizzarlo.
L’aumento delle diagnosi e delle patologie è forse il segno di una sofferenza del tessuto sociale e comunitario che fa sempre più fatica ad accogliere, a mettersi in dialogo, a riconoscere la varietà che diviene subito differenza da correggere o eliminare.
Inclusione
L’educazione inclusiva è stata inserita come elemento fondante fra gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile della Nazioni Unite. Il quarto obiettivo dell’Agenda 2030 si propone di «Fornire un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti», a prescindere dalle diversità di ciascuno (disabilità, svantaggio socio-economico e culturale).
Una definizione articolata di inclusione è proposta dall’Index for inclusion (Booth, Ainscow 2002), in cui tra l’altro si legge:
L’inclusione comincia a realizzarsi non appena ha inizio il processo per la crescita della partecipazione. […] Partecipazione significa apprendere insieme agli altri e collaborare attraverso esperienze di apprendimento condivise. Richiede un coinvolgimento attivo nell’apprendimento e una consapevolezza propria rispetto a come l’educazione è vissuta. In un senso più ampio e profondo, riguarda l’essere riconosciuti, accettati e apprezzati per sé stessi. (Booth, Ainscow 2008, p. 110)
Nella scuola italiana il concetto di inclusione è parte integrante del pensiero pedagogico, anche con riferimento alla musica, che ha individuato nel “laboratorio” il dispositivo privilegiato per un curricolo inclusivo (Chiappetta Cajola, Rizzo 2016b) che dovrebbe prevedere una corrispettiva formazione iniziale dei futuri insegnanti (Bagnus 2024).
In generale il concetto di inclusione nei contesti formativi prevede che ci sia attenzione, cura e salvaguardia di ogni diversità all’interno di uno spazio etico in cui tutti possono “stare”, riconoscersi e riconoscere l’altro.
In ambito formativo si potrebbe addirittura pensare al superamento del concetto stesso di didattica inclusiva (che implica un contesto che accoglie al suo interno qualcuno che è fuori e che si desidera che “entri”, qualcuno che è inizialmente non-adatto, e quindi non-compreso) a favore di un’idea di scuola equa, che immagina e progetta un arcipelago di contesti che si fondano su differenze che convivono senza creare disuguaglianze.
Gli individui sono tutti diversi fra loro. E non è solo una questione di genere, femminile o maschile. Non è una questione di colori, di pelle, di capelli, di iride negli occhi. Neppure una questione di statura. Ciascuno lascia un’impronta, magari digitale, che è solo sua, diversa da quelle che lasciano gli altri. E questo non vale solo per la dimensione della fisicità. Vale anche per il carattere, le emozioni, le simpatie e le antipatie, i ritmi del pensare e del vivere. […] Dovremmo sapere che non esistono le razze umane: apparteniamo tutti alla medesima specie, con diversità individuali. Siamo 7,2 miliardi di diversità. Potremmo dire 7,2 miliardi di fragilità differenti. (Canevaro 2015, pp. 5-6)
Se dunque vogliamo prendere sul serio il lungo percorso che ancora dobbiamo fare verso una scuola inclusiva meglio abbandonare il termine «inclusione», perché vogliamo parlare del 100% degli alunni/e, non solo di una parte di esso. (Canevaro, Ianes, 2021. p. 10).
Seymour Papert parlava di tecnologie che devono essere come case dal pavimento basso e soffitto alto: abbastanza semplici e intuitive da permettere a tutti di utilizzarle (pavimento basso), ma sufficientemente flessibili per permettere alle persone di costruire e scoprire usi complessi e/o non previsti[9]. La metafora può essere estesa agli ambienti, ai contesti, ai processi, agli stili e ai percorsi didattici, a partire da un’idea di competenza, di molteplicità, di policromia, o di polifonia, educativa.
Il passo seguente di A.L. Rizzo chiarifica ulteriormente il significato di “inclusione”:
La scelta della scuola inclusiva, quindi, non rappresenta una questione marginale su come le allieve e gli allievi con DSA, o con altro BES, possano essere inseriti nel sistema scolastico ordinario […] ma è un approccio che deve trasformare i sistemi di istruzione e gli ambienti di apprendimento per rispondere alla diversità di tutti e di ciascuno, fornendo risposte adeguate all’ampio spettro dei bisogni formativi. (in Rizzo, Spadolini 2024, p. 5).
Quali sono dunque le condizioni per immaginare un’educazione al suono e alla musica che sappia fare questo?
Le condizioni sono quelle che promuovono una musicalità polifonica, in cui le varie dimensioni dell’Homo Musicus siano esplorate e vissute[10], che promettono ascolto fra alunni e alunne, fra studenti e insegnanti, dove gli insegnanti entrano in classe con uno spirito di ricerca, con la voglia di farsi interrogare dai comportamenti, dai valori, dai pensieri e dalle difficoltà di ragazzi e ragazze, e dove tutto questo è considerato come una risorsa per il confronto che passa “anche” per lo studio delle varie discipline. (Rizzo, Lietti 2013, p. 15).
Questa postura deve appartenere all’Educazione Musicale, come lo deve essere di tutte le altre discipline, non come progetto “speciale” ma come tratto organico all’idea stessa di scuola.
Il fine educativo è quello di usare, o meglio, di “pensare” la musica (e le arti in generale) come mezzi per stabilire relazioni di bellezza, bellezza che non va cercata principalmente nelle “forme” di oggetti specifici, ma nei “modi di stare” fra le persone e nel mondo. Il campo non è quindi la Musica, ma, primariamente, la musicalità, ovvero i vari modi di incontro fra la musica e le persone.
Prevenzione e cura
Nella nostra cultura il termine “cura” è normalmente associato a una situazione problematica che ha a che fare, in generale, con il peso del vivere[11]. Ma c’è un significato che attribuisce a questa parola il senso di “aver cura” della propria esistenza in modo che sia vissuta nella forma migliore possibile. L’educazione oggi non può non fondarsi su tale paradigma, il cui obiettivo formativo fondamentale è l’aver cura di sé, in cui la conoscenza di sé stessi accompagna la conoscenza del mondo, in cui accanto alle capacità cognitive sono ugualmente importanti la vita emozionale della mente legata al sapere del corpo. In questa prospettiva l’educare significa – oltre che tirar fuori, ovvero educere – anche alimentare, promuovere, nutrire, insieme a istruire e formare (Mortari 2006).
C’è quindi un pensiero pedagogico che si fonda in modo forte su un modo di intendere la salute non come “assenza di malattia” ma, come indicato dall’OMS, come “buona qualità della vita” nella dimensione sociale, mentale, morale, affettiva e fisica, un pensiero che sostiene che
il processo di acculturazione è enormemente facilitato se viene sviluppato in un contesto che riconosce la primarietà della cura nel processo di formazione. Assumere la cura come asse paradigmatico dell’agire formativo significa assumere la fenomenologia di una buona pratica di cura come riferimento per tracciare il profilo di un educatore che, proprio allo scopo di svolgere al meglio la funzione di promuovere il processo di acculturazione, sappia affrontare un ambiente di apprendimento autenticamente facilitante lo sviluppo dei soggetti educativi. (Mortari 2006, p. 26).
Sul concetto di “prevenzione” si fonda l’incontro fra il sistema scolastico e gli ambiti del sociale e del sanitario, incluse le varie “consulenze” e i vari “progetti” (Massa 1997, pp. 21-22).
La prevenzione intesa come preoccupazione a che una “buona qualità della vita” sia cercata, facilitata e mantenuta attiene al mandato educativo delle varie istituzioni preposte, e, quindi, al pensiero pedagogico:
Un altro nucleo irrisolto è dunque relativo alla valenza della scuola come contesto relazionale. […] La futura scuola di specializzazione per insegnanti e i futuri corsi di laurea per maestri, ad esempio, devono affrontare a livello accademico questo problema, analogo alla formazione ad altre professioni educative.
Questo non significa che l’insegnante debba sostenere un training analitico, ma che debba avere esperienza della dimensione clinica dei processi formativi come interpretazione continua dei vissuti che sono suscitati nel suo mondo interno dalla relazione educativa. E ciò non implica affatto che l’attenzione alla relazione debba andare a scapito di quella ai contenuti, né che si tratti di enfatizzarla indebitamente. […] E proprio non riconoscendo la centralità della dimensione clinica in educazione che la si lascia esposta alla confusività, all’abuso e all’immediatezza. (Massa, 1997, pp. 84-85).
Secondo l’AIM[12] il professionista della Musicoterapia interviene in due ambiti specifici, quelle preventivo e quello riabilitativo.
Nel regolamento dell’Associazione viene affermato quanto segue:
I Musicoterapeuti AIM operano per il benessere individuale e collettivo così come formulato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità: “stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia”. In questo senso il termine “terapia”, all’interno della disciplina Musicoterapia, non è inteso in una accezione strettamente sanitaria, ma in riferimento alla nozione estensiva di “salute”.
La Musicoterapia è pertanto impiegata come risorsa complementare aggiuntiva in contesti educativi, preventivi nonché, esclusivamente su indicazione e sotto la responsabilità del competente personale sanitario, in contesti riabilitativi e socio- sanitari.
Il carattere di risorsa “complementare e aggiuntiva” per quanto riguarda l’impiego della Musicoterapia nei contesti educativi e preventivi è chiaro, cosa che non dovrebbe in alcun modo cambiare né il nome né le finalità degli interventi relativi a questi ambiti, che rimarrebbero quindi da identificare come “educativi”.
Allo stesso modo mi pare possa essere interpretata la “Musicoterapia integrativa” intesa come teorie e pratiche che «possono concorrere allo sviluppo armonico e completo della persona […]» (Chiappetta, Rizzo 2016, p. 100).
Gli interventi di tipo “preventivo” definibili come “Musicoterapia” dovrebbero quindi indicare condizioni più specifiche, che abbiano a che fare con finalità che tendono a «sciogliere e trasformare potenziali nuclei patogeni», in contesti «connotati dal disagio sociale e/o psichico» (Manarolo 2011, p. 350).
In un mondo possibile in cui ci fosse una buona formazione iniziale e in servizio per gli/le insegnanti non ci sarebbe bisogno di altre figure specialistiche per assicurare le attenzioni specifiche di una buona pratica di cura. Insegnare avendo cura del ben essere di chi si incontra dovrebbe essere preoccupazione e competenza di ogni insegnante che si ponga il fine di mettere i propri alunni e alunne nelle condizioni migliori possibili per esprimere i propri bisogni, i propri desideri, le proprie potenzialità, Si tratta di fare del concetto di cura uno dei contenuti fondamentali del proprio insegnamento, intendendolo come qualsiasi attività fatta per conservare e riparare il mondo perché si possa vivere la miglior vita possibile, integrando nel “mondo” anche i nostri corpi, l’ambiente che abitiamo, la nostra creatività, le nostre conoscenze.
Sappiamo bene che così non è, che la scuola è spesso in difetto, cosa che vale anche per gli insegnanti di musica, che molte volte sono ancora orientati, come già detto, verso un esclusivo insegnamento tecnico.
Ecco allora la possibilità di far entrare nella scuola professionisti diversamente formati, come i musicoterapeuti.
In molti casi la giustificazione per l’utilizzo del termine “Musicoterapia” agganciandola all’aggettivo “preventiva” per qualificare l’intervento pare quasi un escamotage per poter fare ciò che non si potrebbe fare.
Ma l’aggettivo è ambiguo: intervenire su un gruppo classe considerandolo come un organismo complesso mettendo in atto interventi volti alla facilitazione di un equilibrio armonico e all’apprendimento dei meccanismi necessari a conquistarlo e mantenerlo attiene ad un’educazione fondata sull’inclusione e sul paradigma della cura e deve essere preoccupazione prima di tutto pedagogica.
Ugualmente se con questo termine si rimanda a un tipo di intervento che cerchi di impedire l’insorgenza di un disturbo (prevenzione primaria) e per questo promuova esperienze genericamente qualificabili come legate al ben-essere, con la promozione delle cosiddette life skills (capacità di gestire relazioni sociali, emozioni, empatia, senso critico, comunicazione efficace, creatività ecc.) va comunque riconosciuto che tali obiettivi nella scuola di oggi attengono completamente ad una dimensione che rimane educativa e, dunque, ad un pensiero pedagogico.
In questa prospettiva si utilizza normalmente il concetto di prevenzione primaria, che si riferisce ad interventi che riguardano la totalità della popolazione e che puntano a evitare l’insorgenza di problematiche piscologiche e /o sociali. Forse sarebbe utile mantenere tale ambito all’interno dell’area pedagogico-educativa, riservando l’uso della denominazione Musicoterapia Preventiva soltanto per contesti in cui ci si riferisca a tipologie di prevenzione secondaria (interventi su sintomi iniziali di situazioni problematiche individuali e/o di gruppo) o terziaria (riduzione dell’impatto di disagi o disturbi in atto)[13]. All’interno della scuola ciò è possibile forse in alcuni casi, in cui si progettino percorsi individuali o con piccolissimi gruppi, supervisionati, all’interno di un setting con obiettivi specifici. (Si vedano ad esempio i casi descritti in Oberegelsbacher, Rezzadore 2003).
Conclusioni
Tengo a sottolineare, in conclusione, l’idea che sottostà alla locuzione Educazione al suono e alla musica, riprendendo una vecchia denominazione della “disciplina” scolastica[14], abbandonata a favore di una più ristretta Educazione Musicale, poi ulteriormente ridotta a Musica, riproponendola con forza: prendiamo in esame, cioè, un suono che eccede la musica e abbraccia i suoni del mondo, in una prospettiva per cui l’educazione estetica viene prima dell’educazione artistica, ne disegna un contorno più ampio all’interno del quale l’esperienza artistica rappresenta un caso particolare. Quest’area più ampia, aperta, è di per sé più inclusiva: riguarda le aree dell’estetico, dell’attivazione polisensoriale, intesa come formazione civica degli abitanti del pianeta verso una sensibilità ecologica sempre più necessaria.
Allo stesso modo le aree della musicalità che fanno riferimento al corpo e al movimento, alla parola, al canto, all’utilizzo di oggetti e strumenti per suonare, alle nuove tecnologie, all’ascolto, alle varie pratiche dell’invenzione (esplorazione, improvvisazione, composizione), a tutti gli aspetti di conoscenza anche teorica che accompagnano il mondo dei suoni e delle musiche, costituiscono il campo di ricerca e al tempo stesso di formazione per l’insegnante.
Un’educazione al suono e alla musica equa ed equilibrata dovrebbe saper attivare queste dimensioni nei contesti quotidiani, senza bisogno dell’intervento di specialisti, in modo da poter accogliere le differenti musicalità, permettendo ad esse di attivarsi, di sperimentare, esplorare, di riconoscersi, di esprimersi; ma anche eventualmente di ritrarsi, di non fare, di non partecipare, di scegliere.
Mi pare importante pensare all’insegnante come un accompagnatore, che ha a sua disposizione numerosi modelli per stare accanto a qualcuno, come ci insegna Canevaro:
Però possiamo avere diversi modi di accompagnare. Le differenze non sono vistose ma sono tuttavia sostanziali. Si può accompagnare dove vuole l’accompagnatore; accompagnare stabilendo prima insieme la destinazione (ad esempio, mostrando diverse immagini di luoghi raggiungibili e facendo scegliere l’immagine del luogo in cui recarsi); accompagnare spingendo la carrozzella; accompagnate affiancando la carrozzella azionata, magari a motore, da chi viene accompagnato; accompagnare facendo il percorso con chi viene accompagnato, che si sostiene utilizzando un bastone. (Canevaro 2015, pp. 33-34).
Si tratta allora di prevedere contesti in cui ci si prenda cura sia di competenze che di emozioni, bisogni e desideri e che vede proprio nella scuola il luogo più specifico per la ricomposizione di questi due orientamenti spesso considerati alternativi e che devono invece trovare cittadinanza nella figura dell’insegnante-educatore.
La scuola delle emozioni non è alternativa a quella delle competenze, delle maestrie, del padroneggiamento di alcune pratiche. Così la stessa figura di insegnante dovrebbe fare sintesi delle figure di maestro/a, educatore/trice, formatore/trice, animatore/trice, attore/trice. L’attenzione alle dimensioni emotive e affettive non deve rimuovere i percorsi legati alle dinamiche dell’istruzione, che sono a fondamento di ogni apprendimento, ad esempio, di tipo artigianale. Al contrario, gli affetti e le emozioni devono inserirsi all’interno delle trame dell’instruere. Concludo con una citazione ripresa da un saggio di Riccardo Massa, in cui viene proposta la dialettica fra educatore e insegnante. Si provi a sostituire i termini di educazione (o educatore) con Musicoterapia (o musicoterapeuta), e il termine istruzione con “Educazione Musicale” e tutto tornerà chiaro:
Dunque: l’istruzione [l’Educazione Musicale] sarebbe dalla parte delle competenze, l’educazione [la Musicoterapia] da quella dei bisogni. Infatti l’educatore [il musicoterapeuta] è chi pensa agli handicappati, ai drogati, ai devianti, mentre l’insegnante vuole comprendersi come intellettuale addetto ai processi di apprendimento. Un conto è ‘’insegnante”, un conto l’educatore [il musicoterapeuta]. Gli insegnanti si faranno vanto di non essere degli educatori [dei musicoterapeuti] e questi rivendicheranno a loro merito di non indottrinare nessuno ma di lavorare sulla relazione ed elaborare i bisogni verso obiettivi di benessere individuale. Qui siamo già alla spaccatura tra scuola ed extra-scuola. È chiaro che un po’ di buon senso richiede, e talora ottiene, una sorta di ricomposizione di tutto questo. Però il superamento autentico sia di tale scissione, sia di forme superficiali di integrazione, dipende da un’analisi in profondità del sapere pedagogico. Una partita che deve giocare la Pedagogia è quella di far valere una competenza professionale trasversale rispetto tanto al ruolo di educatore [musicoterapeuta] quanto a quello di insegnante e di formatore. (Massa 1997, pp. 29-30).
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Piatti M., Postacchini P.L. (a cura di) (1990), Musicoterapia: esperienze e riflessioni, Edizioni fonografiche e musicali Pro Civitate Christiana, Assisi.
Postacchini P.L., Ricciotti A., Borghesi M. (1997), Lineamenti di Musicoterapia, La Nuova Italia Scientifica, Roma.
Raglio A. (2008), Musicoterapia e scientificità: dalla clinica alla ricerca, FrancoAngeli, Milano.
Rizzo A., Lietti M. T. (2013), La didattica inclusiva dalla scuola dell’infanzia al Conservatorio, Rugginenti, Milano.
Rizzo A.L., Spadolini A. (2024), Musica e compensazione dei DSA. Proposte didattiche tra neuroscienze e ricerca evidence based, Rugginenti, Milano.
Stefani G., Guerra Lisi S. (2004), Dizionario di musica nella Globalità dei Linguaggi, Lim, Lucca.
Vizzano G., (2009), “Setting musicoterapeutico: cornice e palcoscenico” in Ar-tè Quaderni Italiani delle Artiterapie, n. 5/2009, Cosmopolis, Torino.
[1] Mi sono avvalso in questo saggio delle preziose indicazioni e riflessioni di Silvia Cornara, Mario Piatti, Pier Luigi Postacchini e Alessio Surian, che ringrazio molto per l’attenta rilettura e i preziosi consigli. È tuttavia da ascriversi soltanto a me la responsabilità delle posizioni espresse.
[2] Cfr.: Lorenzetti 1989; Piatti, 1982; 1993; 1994; Piatti, Postacchini 1990; Postacchini, Ricciotti e Borghesi 1997; Borghesi e Strobino 2002; Borghesi e Strobino 2017, Bellomo 2024. Questi riferimenti non intendono essere esaustivi e indicano soltanto alcune delle fonti utilizzate per questo saggio.
[3] La Pro Civitate Christiana di Assisi avvia nel 1981 anche il primo corso in Italia di Musicoterapia, ancora oggi attivo.
[4] Cfr. Luca Bertazzoni, “All’ascolto. La musica nella relazione educativa e nella relazione di aiuto: un’introduzione”, in Bertazzoni, Filippa, Rizzo (a cura di) (2019).
[5] Cfr. Piera Bagnus, “La prospettiva dell’inclusività nella formazione del docente di scuola secondaria”, in Bagnus 2024, pp. 61-77.
[6] Si vedano a questo proposito il recente riconoscimento da parte del Senato Italiano della “Mototerapia” e le conseguenti proteste del mondo scientifico.
[7] D’altra parte, è vero che è tipico della lingua auto-ri-generarsi e quindi utilizzare nuove definizioni per cercare di indicare e descrivere oggetti di realtà che sono nuovi o, a volte, sono nuovi i modi di concepirli. In questo processo, se ci si pone con onestà e il giusto senso della propria relatività bisognerebbe evitare però toni troppo eclatanti e sensazionalistici.
[8] In questa prospettiva la Musicoterapia in ambito scolastico dovrebbe semmai proporsi come un intervento “speciale”, “non comune”, realizzato in orario extracurricolare, cosa che invece non avviene quasi mai, come testimoniato in varie ricerche (Chiappetta Cajola, Rizzo, 2016, p. 42).
[9] Cit in. Hi-Storia, https://www.hi-storia.it/demo/la-nostra-visione/inclusione/.
[10] Il pensiero dell’Homo musicus, teorizzato prima da Gino Stefani e poi ripreso da Maurizio Spaccazocchi in varie occasioni, propone l’idea di una musicalità polifonica che è comune alle persone e alle culture, i cui fondamenti si trovano nelle modalità antropologiche di appropriazione di suoni e musiche: con il corpo, con la voce, con oggetti e strumenti, con le emozioni e con la mente, attivando le varie aree (movens, loquens, cantans, sonans, audiens, videns, sapiens). (Stefani, Guerra Lisi, 2004; Maurizio Spaccazocchi, “I suoni e le musiche: umane «abit-abilità», Malaguti 2017 pp. 43-82).
[11] Nella lingua italiana, infatti, la parola “cura” è usata sia per indicare l’aver cura di qualcuno o qualcosa sia per indicare una terapia. Al contrario nel mondo anglosassone esistono a riguardo due parole distinte, cure e care.
[12] L’AIM è l’Associazione Italiana Professionisti della Musicoterapia (https://www.aim-Musicoterapia.it/trasparenza/)
[13] Ci riferisce qui alla distinzione fra prevenzione primaria, secondaria e terziaria proposta da Caplan 1964.
[14] I programmi di Educazione al Suono e alla Musica nella scuola elementare del 1985 rappresentarono un momento importante nell’evoluzione della didattica musicale in Italia. Questi programmi, contenuti nel Decreto del Presidente della Repubblica 12 febbraio 1985, n. 104, ponevano l’accento su un approccio globale e multidisciplinare alla musica, con l’obiettivo di promuovere nei bambini e nelle bambine una musicalità interdisciplinare e polisensoriale.