Excursus su un aspetto della musica durante il fascismo
Sono trascorsi ormai novant’anni dalla fondazione dei Fasci di Combattimento, eppure il ventennio fascista, a dispetto del distacco temporale, ci appare vicino, quasi tangibile. A volte si presenta in un grandioso edificio marmoreo simbolo dell’architettura razionale o in una semplice stazione ferroviaria di paese, altre in uno splendido manifesto futurista; talora riaffiora dalle radio balilla in vendita ai mercatini delle pulci, altre dalla voce di chi decide di riproporre, magari con arrangiamenti “al passo con i tempi”, le amate canzoni trasmesse dall’EIAR negli anni Trenta e Quaranta. E mentre gli ultimi testimoni delle efferatezze di quel periodo vanno scomparendo, a noi rimane l’immagine-cliché, per qualcuno un po’ nostalgica, di un’epoca in cui i treni arrivavano puntuali, il controllo sociale funzionava alla perfezione e gli italiani erano davvero “brava gente”. Manganello e olio di ricino, intervento massiccio sulla vita del cittadino, persecuzione degli oppositori politici, leggi razziali. Tutto questo sembra in qualche modo offuscarsi quando si tratta di raccontare la “nostra storia”.
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