Intervista-dialogo con Paolo Cerlati
L’intervista è una forma di dialogo un po’ particolare, in quanto una persona fa le domande e l’altro risponde. Ma che succede se oltre che a dare una risposta l’altro fa a sua volta una domanda? Nasce un’intervista-dondolo. E’ quello che è successo tra me e Paolo Cerlati quando, dopo aver letto il suo libro La musica è un cavallo a dondolo… (… anche). Musica e complessità, pubblicato nella collana didattica OSI (Lilium Editions, Brescia 2018) e dopo aver ascoltato il CD allegato, che ha realizzato insieme a Emilio Cimma, ho pensato di fargli un’intervista. Ecco allora questa intervista a dondolo tra me e Paolo (le domande sono in corsivo).
Mario: Caro Paolo, da tanti anni tu intrecci canzoni e pensieri dentro e intorno all’educazione musicale, in particolare nel tuo Atelier di musica a Biella, ma anche incontrando tante insegnanti e tanti bambini in tante città. Da giovane però, se non sbaglio, facevi il batterista in una band. Quando e come hai iniziato a occuparti di didattica e di formazione musicale?
Paolo: Caro Mario sì, ho incominciato da ragazzo a suonare la batteria, il gruppo si chiamava Black Davils ed eravamo tutti studenti del primo anno delle superiori; poi a 19 anni quella “bella cosa” nata per gioco diventa la mia professione. Attraversando generi e stili e diversi gruppi musicali ho suonato fino a 33 anni, l’ultimo gruppo si chiamava Odissea: cinque musicisti che per otto anni suonano insieme: bellissima esperienza! Eravamo uno dei gruppi del rock progressive, genere che ha caratterizzato l’inizio degli anni ’70. Abbiamo fatto un L.P. promosso in trasmissioni radio-televisive (Festival di Venezia – Under 20 – Radio Montecarlo…) – nel primo tour italiano dei Genesis aprivamo i loro concerti – un tour con il Banco del Mutuo soccorso – turnisti alla Rifi Record per creare le basi musicali di alcune pop star italiane – tour negli USA a New York, Boston e Filadelfia… Tutto questo fa parte della mia prima vita musicale e in quegli anni mi sono successe parecchie cose che non ti sto a raccontare che mi hanno portato a fare alcune scelte importanti: smettere di suonare, andare a vivere con sette persone e a iscrivermi all’università di Torino alla facoltà di lettere a indirizzo artistico, siamo nel 1977. Nel 1978 inizia la mia fase pedagogica: frequento i corsi estivi all’Università di Estergom in Ungheria, dove si tenevano corsi sulla metodologia Kodaly e subito dopo quelli tenuti da Goitre, parallelamente insegno nell’allora Scuola Media ed Elementare. E poi ci saranno i CEMEA – Urbino con Louisa di Segni e con le danze di Paola Della Camera – Fiesole con John Paynter – Assisi con l’Orff e la musicoterapia …: ed è lì mio caro Mario che ci siamo incontrati! Anch’io dei tuoi inizi non so proprio niente! Della tua fisarmonica che magari ti ha portato, ti ha traghettato verso la pedagogia della musica e verso l’animazione: raccontami un po’…
Mario: Sì, diciamo che tutto inizia quando i miei genitori mi regalarono una fisarmonica per il mio ottavo compleanno. Ho seguito poi dei corsi di musica imparando anche un po’ a suonare il pianoforte e la chitarra, oltre che approfondire le regole dell’armonia e della composizione. Tutte attività da quasi autodidatta che mi hanno permesso, all’occasione, di intervenire musicalmente nelle attività dei gruppi di animazione che operavano nell’area fiorentina negli anni ’70-’80, e di operare nelle scuole in supporto agli insegnanti. Da lì le varie richieste di laboratori di aggiornamento mi hanno portato ad approfondire la didattica della musica avendo come punti di riferimento gli scritti di autori che ben conosci: Gino Stefani, Boris Porena, Carlo Delfrati, Maurizio Della Casa, Giovanni Piazza per citare i principali. Contemporaneamente mi sono laureato in pedagogia approfondendo le problematiche della creatività, percorsi che mi hanno fatto conoscere altri autori importanti, tra cui ovviamente Gianni Rodari e la sua Grammatica della fantasia. Le mie conoscenze ed esperienze tra pedagogia e musica sono state considerate valide per accedere all’insegnamento di Pedagogia musicale nelle scuole di Didattica della musica dei conservatori, insegnamento che ho praticato dal 1982 al 2009. E ora, da pensionato, cerco di dare una mano a far sì che si possa migliorare la qualità e la quantità di educazione e formazione musicale per tutti. Anche la tua ricerca e i tuoi studi sono ricchi di autori e opere importanti. Nei tuoi scritti, in particolare l’ultimo “La musica è un cavallo a dondolo”, fai molti riferimenti ad autori e opere che ruotano attorno al tema della “complessità”. Potresti fare un elenco sintetico delle parole chiave della complessità che possono avere importanza per l’educazione musicale?
Paolo: Come sai nel 1983 ho progettato e realizzato L’Atelier di Musica di Biella che ho diretto fino al 2014. Già nello svolgersi delle varie attività l’Atelier aveva una tensione verso la complessità. Ai corsi propedeutici per i bambini e a quelli strumentali si affiancavano i corsi di pedagogia e didattica rivolti ad insegnanti di ogni ordine e grado che tenevo con Enrico Strobino, Daniele Vineis, Daniele Albarello, che interagivano con i seminari dei fine settimana. Cito alcuni dei docenti che sono intervenuti nei week end: Tu, Giovanni Piazza, Sergio Liberovici, Giulio Castagnoli, Lucia Stopper, Christian Hamouy, Tiziana Ghiglioni… Tutto questo riguardava la musica, ma accadevano altre cose altrettanto interessanti: dinamiche di gruppo tenute da uno psicanalista freudiano, dinamiche relazionali a partire dal sogno tenute da uno psicanalista con un indirizzo psicosintetico; nell’ambito artistico corsi di murales e di stencil art … . mi fermo qui e da tutto questo fare differenziato non poteva non nascere un mio interesse per il pensiero complesso. Mi chiedi le parole chiave utili per l’educazione musicale, prima di tutto nell’etimo del lemma complesso e nelle sue coniugazioni c’è già molto: deriva da ‘complectere’ la cui radice ‘plectere’ significa collegare – piegare insieme, intrecciare, tessere e rimanda a ‘complexus’ che vuol dire che abbraccia, ed anche a ‘complexio’ che equivale ad unione o insieme. Un altro concetto importante per la teoria della complessità è relianza che traduce la parola-valigia francofona reliance che nasce dall’unione di relier e alliance (legame-alleanza) ed elaborata in ambito psicosociale. Concordo con Morin quando parla di etica della relianza che potremmo sintetizzare con tutto ciò che ci rende solidali e quindi ci unisce. Il centro del processo educativo è la relazione che dovrebbe saper connettere, collegare, creare legami prima di tutto tra le persone e non ultimo tra le discipline, i saperi e i linguaggi in una visione sistemica del modo. Tutto questo vale per la musica come per tutte le discipline, che per poter assolvere ad una funzione educativa adeguata, devono saper tessere interazioni significative con altre. Come sai la storia dell’occidente è fatta di dicotomie e di separazioni che si riflettono ancora pesantemente nel sistema educativo; non credi anche tu che il pensiero complesso sia una risposta positiva per creare ponti e legami salutari?
Mario: Sicuramente, caro Paolo. Una delle difficoltà maggiori oggi in campo educativo è proprio quella non tanto di andare oltre le differenze, ma di valorizzarle come risorsa per arricchire le nostre conoscenze e le nostre esperienze emotive. La paura del diverso, sia in senso fisico (il colore della pelle, i deficit e gli handicap motori o cognitivi, ecc.) che anche in senso culturale, sembra un male che non si riesce a estirpare dalla mentalità comune, e certamente il clima culturale, oltre che politico, diffuso non aiuta in questo. Il campo dei saperi artistici è per sua natura un territorio dove la diversità, la molteplicità, la variazione è un valore importante. La musica in questo è un emblema: pensiamo alla varietà di generi, di forme, di repertori, di strumenti, di pratiche sociali, che vivificano l’esperienza musicale in tutte le latitudini del mondo. Chi pratica la musica non può rinchiudersi in canoni estetici preconfezionati e l’educazione musicale sarà tanto più efficace quanto più saprà, come hai detto tu, creare legami e far interagire saperi e discipline. Accennavo prima ai deficit e agli handicap. Tu hai avuto diverse esperienze anche nel campo della musicoterapia. Qual è il tuo punto di vista in merito a possibili rapporti tra educazione musicale e musicoterapia? Ci sono elementi comuni?
Paolo: Dal mio punto di vista queste due discipline si basano sullo stesso paradigma che prende forme diverse. Come sai da sei anni dirigo il Biennio di Specializzazione di Musicoterapia in Oncologia e Cure Palliative promosso dalla Fondazione Elvo ed Edo Tempia di Biella; su questa esperienza ho curato una pubblicazione per la FrancoAngeli che aveva come titolo quello del master e il sottotitolo recitava: Prendersi cura dell’altro con uno sguardo sistemico-complesso. Questo tipo di sguardo riguarda sia l’educazione che la terapia e l’aver cura e il prendersi cura è quello che di più forte hanno in comune queste due discipline. Molte pratiche che riguardano la dimensione educativa sono le stesse che utilizza la musicoterapia: l’improvvisazione, la musica d’insieme, il canto, la danza, la composizione … e quindi oserei dire che appartengono alla stessa famiglia. La differenza sostanziale sta che nel setting musicoterapeutico: i terapisti intrecciano relazioni musicali con persone che hanno dei problemi specifici. Nel biennio che ho appena citato, le persone che un musicoterapista incontra sono o malati di cancro o sono all’interno di un hospice e quindi la preparazione di chi si deve prendersi cura di questi malati – bambini, adulti, donne e uomini – è decisamente diversa da quella di un insegnante. Il Master affronta la formazione attraverso queste cinque aree: Musicoterapia, Oncologia e Cure Palliative, Psicologia Clinica e Psiconcologia, Antropologia Culturale e Psicologia, Pratica clinica. Senza zumare sulle singole aree è evidente come la preparazione di un musicoterapista sia per forza di cose diversa da un insegnante. Per concludere vorrei ribadire una cosa che dovrebbe essere ovvia , ma che in realtà non lo è: la formazione deve essere permanente per tutti perchè nessuna scuola è in grado di formare una volta per tutte nessun tipo di professionista e in particolare per tutte quelle professioni che riguardano la relazione umana, sia essa educativa che terapeutica e d’aiuto. La formazione permanente è una necessità e per dirla in un modo sorridente molte volte uso una frase napoletana: “Nisciuno nasce imparato!”
Mario: … e si può imparare anche da belle canzoni, come quelle contenute nel tuo libro. Ne proponiamo qui una. Grazie e ciao.