Musicheria. La rivista digitale di educazione al suono e alla musica

Dalla quotidiana rumorosità-sonorità alla sonorità rumorosa del quotidiano

Loredano Matteo Lorenzetti

La voce della scrittura

La vita è rumorosa. Cosa risaputa.
Si sperimentano suoni e rumori già nel grembo materno. Altra affermazione nota.
E’ stata scoperta la traccia del suono del Big-Bang con cui ha avuto inizio l’universo.
Pure andando a ritroso nel tempo, e negli eventi, il concetto-principio della relazione fra l’esistente e la sonorità ritorna.
Inutile citare il “Fiat”, parola creatrice con cui Iddio avrebbe dato avvio al creato, secondo i sacri testi biblici.
Ma non poi tanto inutili, queste scarne iniziali conosciute affermazioni, visto che sulla parola intenderei soffermarmi. Brevemente.
E partendo da ciò che tutti continuiamo ad avvertire nel e del quotidiano: la rumorosità che diamo per scontata e sulla quale raramente ci soffermiamo. Poiché il consuetudinario, purtroppo, finisce col trasformarsi in abitudinario e ovvio, anche se scontato e di scarsa importanza non è. Talvolta l’ovvio non s-vela ma vela e non rivela quel che sfugge alla routinarietà.
Infilare le pantofole, la mattina, e ciabattare fino alla cucina per il caffè, è una sequenza di rumori, più o meno ritmici, comprese tutte le azioni per fare e bere il caffè.
L’agire umano è rumoroso. Quello degli animali e quello della natura lo sono altrettanto.
Dunque siamo destinati al e dal suono.
Sì, perché se piove il ticchettio delle gocce sui vetri delle finestre ci avverte di prendere l’ombrello, perciò ci ‘destina’ a una scelta.
Sia l’eventualità degli eventi, sia gli eventi nelle loro possibili eventualità, fanno in modo che possano attuare o declinare in condizioni diverse le sonorità del quotidiano a cui partecipiamo o mettiamo in atto nei comportamenti.
Uscire a piedi, in bicicletta, in moto, in auto o con altri mezzi di trasporto fa sì che i rumori che produciamo, ascoltiamo, viviamo siano diversi.
Allora il binomio circostanza-rumore/suoni trova un nesso specifico con l’universo del sonoro in cui siamo immersi e nel quale partecipiamo con diversi ruoli: agenti, reagenti, subenti…
Al di là di quest’arruffata, sconfusionata introduzione (che tuttavia meriterebbe qualche tomo di ben chiare, connesse, distese considerazioni), qual è la questione?

Ora viene il bello!
Quando siamo in casa, nella quiete e in un relativo silenzio, seduti comodamente in poltrona e pensiamo, o leggiamo non ad alta voce un libro, o preghiamo mentalmente, il vissuto della sonorità scompare, se ne va?
Del tutto no.
Una sintetica digressione utile: un riferimento a un episodio accadutomi parecchio tempo addietro.
Molti anni or sono, al teatro Lirico di Milano, vi fu un’esecuzione di John Cage[1]. Aperto il sipario si vide sul palcoscenico, verso il lato destro, un tavolinetto, con sopra una lampada, un bicchiere d’acqua e un libro. A fianco una sedia. Entrato il musicista, sedutosi, si mise a leggere[2] bisbigliando, con varia intensità e ritmo.
Trascorsi 10 minuti il pubblico iniziò a mormorare. Poi, dopo altro tempo, si sentivano commenti ad alta voce. Cage proseguiva imperturbato. Finché si passò a qualche fischio, quindi a dissenso più marcato e, infine, a grida e insulti. Il compositore, senza scomporsi, seguitava a leggere. Nonostante crebbe il malumore degli astanti e talune persone tentarono di salire sul palcoscenico, ostacolando quella performance, il musicista continuava, senza curarsene. A un certo punto alcuni giovani provarono a far smettere Cage: gli spensero la luce, gli bevvero l’ acqua, lo bendarono…  Il risentimento e la rabbia non fecero presa sul procedere del musicista. Si concluse così il concerto, con pessimi apprezzamenti e collettivo disappunto, sebbene con applausi che contraddicevano la reazione avuta[3]. Mentre si usciva, alcuni protestavano, urlando di volere restituito il costo del biglietto. Come se non fosse accaduto niente, alcun avvenimento sonoro-musicale fosse stato effettuato.
Nessuno – almeno così sembrava – aveva capito l’intento del compositore-esecutore, né il senso dell’evento: quella era la musica! Quella della parola letta e ‘messa in scena’ nel racconto ritmico di se stessa. D’ogni parola nella sua teatralità: scritta, discorsiva, colloquiante, declamativa, detta con il pensiero non esternamente verbalizzato…
Pareva stranamente incomprensibile l’accaduto. Assai difficile il rendersi conto che Cage intendeva affidare o, forse e meglio o anche di più, restituire alla parola letta la musicalità di cui ci si stava dimenticando. La sonorità che le appartiene per identità. La sua materica sostanza e gestualità sonoro-musicale degna di un concerto. Se ascoltata con l’intenzionalità con cui viene proposta.
Pure se ascoltata nell’intimità della propria mente. Poiché la mente è il retroscena della parola, ancor prima d’essere pronunciata ed esposta alla ribalta delle labbra.
In quell’occasione c’erano molti elementi non colti: il testo letto di seguito, con brevi pause, era la partitura; il libro, lo strumento; l’intonazione, il modo per suonarlo; la fonazione diversamente ritmata, la musica che si poteva ricavare; il lettore, il direttore dell’esecuzione.
E pure altro, nella simbologia: il tavolo, il leggio; l’opera testuale, la creazione compositiva musicale parlata quale soggettiva (ri-)elaborazione.
La musica va scritta, letta, interpretata, mentalmente, afferrata nella musicalità, dapprima in forma notazionale, ancor prima che eseguita. E’ pensata, esattamente come una parola che prima d’essere compresa e interpretata risuona nella mente.
Dunque si può affermare che è presente – inscindibile e profonda – la relazione fra parola romanzata, poetizzata, narrativa, o d’altro genere e il carattere musicale della scrittura.
Scrittura-parola che pur se solo letta con gli occhi è suono mentale che ri-prende la qualità della nostra voce interna e del nostro modo di musicarla, ritmarla attraverso il ‘come’ leggiamo un testo e/o come si fa leggere ‘quel’ tipo di testo. Perché ogni testo, da come è scritto, propone (persino con la punteggiatura) una struttura – in sé – sonora. Direi perfino che lo è già nella forma mentale dello scrittore, anticipatamente rispetto il renderla grafata.
La scrittura, la parola – pure quella cosiddetta ‘muta’ – li si potrebbero definire come gesti che tra-s-mutano dal mentale all’atto fonatorio. E come tutti i gesti hanno una loro ‘tonalità motoria’, piuttosto che altre modalità espressive riconducibili al musicale. Come per esempio, movenze armoniche o disarmoniche.
Il segno scritturale – nella sua testualità/contestualità/argomentatività – può portare allo stesso rapimento di quello notazionale musicale, perché entrambi rappresentano e ‘contengono’ suoni.
In più la lettura d’un testo, se effettuata ad alta voce, può assumere le connotazioni di un tipo di canto recitativo. Anch’esso con potere incantante.
La voce, in talune situazioni, è in grado d’emozionare fortemente. La voce della scrittura lo fa nelle sue forme, nei suoi rimandi a immagini, nei contenuti…
La bellezza del suono, la sua efficacia cognitivo-affettiva, il suo potere stregante, risiede sia nella parola scritta sia in quella musicata, sia in quella pensata ma non pronunciata.
Poiché, paradossalmente, risiede anche nella parola che pur priva d’articolazione fonica emessa nell’essere pronunciata risuona dentro di noi, con le caratteristiche del nostro potenziale recitativo, del nostro renderla sonoramente ideata in un dicibile musicalizzato.
Benché le riflessioni possibili su questo tema sarebbero numerose, chiuderei con una supposizione – forse errata, ma comunque a mio avviso da valutare bene e da approfondire – circa la scarsa presenza nelle riviste di musica di riflessioni su ciò che si potrebbe definire: l’infra, l’intra, la co-partecipazione delle sonorità riscontrabili in numerosi campi. Vuoi del rapporto con le diverse tipologie di scrittura, vuoi con il sonoro del quotidiano, vuoi con i condizionamenti comportamentali presenti in taluni ambienti, vuoi dell’ampio settore dell’ecologia acustica. Con notevoli ripercussioni in una didattica musicale di base inter-multi e transdisciplinare.
Mi sbaglio sicuramente, però le riviste di musica, generalmente, nel loro fondamentale tratto e nella loro principale funzione, sembrano dedicare maggiore, e più frequente attenzione, – appunto – al ‘musicale della musica’ e meno a quel che, apparentemente limitrofo, riguarda la sonorità delle pratiche quotidiane.
Forse, e l’esperienza che stiamo attraversando che ci fa stare in casa in un silenzio dell’ambiente esterno difficile da vivere in situazioni diverse da questa, chiama in causa l’argomento della quotidiana rumorosità-sonorità e della sonorità rumorosa del quotidiano, in maniera quanto mai attuale. Foriera d’utili riflessioni, non solo psicologiche, pedagogiche, sociali, educative, ma e soprattutto esistenziali.

Note

[1] Prima assoluta, e unica esecuzione, in forma ridotta, dell’opera: “Empty Words (Parte III)”, eseguita il 2 dicembre 1977.

[2] Lettura tratta dal “Diario” del poeta americano Henry David Thoreau: frasi, parole, sillabe. In un divenire intervallato da silenzi e riprese, con un procedere finalizzato a rendere la parola ‘sminuzzata’ e il leggere sonoro sempre più rarefatto.

[3] Probabilmente si trattava in parte a un voluto omaggio al noto musicista, in parte a uno ‘sfogo’ della tensione accumulata dai sentimenti provati, in parte come risposta a un evento disorientante che, proprio per l’effetto che procura un inatteso e il potere che ha lo smarrimento e il conseguente turbamento, l’applauso diviene confortante, perché scaramantico, in quanto allontanante il senso d’oppressione che procura l’assenza di un senso preciso da dare all’esperienza vissuta.

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