Musicheria. La rivista digitale di educazione al suono e alla musica

Corone

Redazione

Riflessioni al tempo del coronavirus

In questi mesi abbiamo condiviso alcune riflessioni attinenti l’educazione, la scuola, l’insegnante, i genitori.
Con la chiusura dell’anno scolastico pubblichiamo l’ultima corona scritta da Enrico Strobino

Musica. Relazione finale del professor Enrico Strobino

Improvvisazione

Sono arrivato alla fine di questo faticoso anno scolastico e mi tocca tirare le somme, giungere a qualche riflessione complessiva, che possa anche funzionare da Relazione Finale, da inserire nel registro elettronico, a riempire un poco quei vuoti che ho lasciato.
No, questo spazio non posso lasciarlo vuoto, il mio Dirigente mi chiede di relazionare, giustamente, entro fine mese, possibilmente anche prima.
E allora mi metto d’impegno.
Di cosa potrei parlare?
La prima cosa che mi viene in mente è che è stata una grande improvvisazione collettiva.
Sì, finalmente dentro la scuola si è improvvisato, così come avviene nelle jam session che fanno i jazzisti.
Certo, quella è la metafora, perché non sto utilizzando questo termine come normalmente si fa, in senso negativo, come di chi fa senza essere preparato, con faciloneria e frettolosità. No, io parlo dell’improvvisazione che fanno i musicisti, quando inventano la musica mentre la fanno, lì sul momento, hic et nunc, reagendo all’istante a ciò che accade qui ed ora, confrontandosi con l’imprevisto, con l’inatteso. Questo è accaduto in questo stranissimo quadrimestre.
Ma forse non è neppure del tutto così.
Perché i jazzisti ci sanno fare, hanno tecniche di alto livello, ci dicono che per improvvisare occorre essere esperti.
No, qui, nella scuola, nella nostra scuola, non è andata così.
Forse siamo stati più simili ai bambini, che sì, improvvisano anche loro, ma al rovescio: non si basano su una competenza tecnica acquisita, procedono più per esplorazione di paesaggi ignoti, e proprio facendo in quel modo piano piano acquisiscono anche delle competenze, imparano dall’esperienza, come ci piace dire.
E allora mi viene di andare controcorrente, pensi un po’ Dirigente, mi viene quasi di fare l’elogio di questa famigerata DAD! Rischiando di tirarmi addosso un coro di improperi.
Ma a fronte di mille difficoltà, per una volta non si è eseguita una musica già scritta; per una volta abbiamo dovuto inventare una musica nuova. Per una volta non abbiamo suonato ciò che sapevamo già suonare.
Magari non ne è uscita sempre una musica bellissima, ma ci siamo trovati costretti ad inventare qualcosa.
Ce n’era bisogno? Sì, secondo me sì.
Forse tutto ciò che è accaduto si esaurirà, rimarrà legato a questo momento, come ogni improvvisazione del resto, che, per definizione, non può essere ripetuta e vive soltanto nella contingenza. Ma l’esercizio e l’esperienza rimangono, almeno lo spero.
Cosa ho fatto in questo tempo? Cosa abbiamo fatto?
A me pare che molti, moltissimi di noi abbiano fatto ciò che ci si aspetta da un insegnante, cioè che crei o almeno cerchi di creare luoghi e occasioni di “convivenza amorosa facendo attenzione a quello che si sta facendo e a come lo si sta facendo nel momento in cui lo si sta facendo”[1].
Che potrebbe essere poi anche un bel modo di descrivere l’improvvisazione.

Presenze e distanze

Gentile Dirigente, non condivido molto tutti i discorsi e le analisi che contrappongono la presenza alla distanza, vedendo nel primo termine tutto il positivo e nel secondo tutto il negativo. Mi pare che lo sguardo debba essere più complesso e non essere ridotto alla banalità dei minimi termini.
Intanto propenderei per declinare al plurale queste due parole: presenze e distanze.
Ci sono pratiche didattiche molto differenziate all’interno di entrambi i campi.
La didattica a distanza non è nata nell’emergenza, anche se molti di noi si sono resi conto lì della sua esistenza. Ci sono anni di ricerca e di sperimentazione, ci sono pedagogisti, ci sono pensieri profondi in questa direzione. Bene: ora ce ne siamo accorti. È già qualcosa.
È tutto da buttare? È equipaggiamento soltanto utile nelle emergenze? No, io credo di no. Certo ci sono insidie, pericoli, occorre stare attenti, la tecnologia (ogni tecnologia) non è mai neutra, al contrario condiziona i modi di essere e di pensare; ma credo che la scuola di oggi non possa stare fuori dalla società in cui è inserita. Deve starci dentro, in modo critico e creativo.
E poi, in questo periodo, mentre improvvisavamo, abbiamo ripensato a varie cose: abbiamo ripensato alla valutazione, ci siamo confrontati su quanto sia importante la relazione, prima ancora dei programmi, abbiamo scoperto lati nostri e dei ragazzi molto diversi, inaspettati; abbiamo sperimentato soluzioni, alcune delle quali forse anche abbastanza interessanti. E i ragazzi? Alcuni si sono allontanati, altri avvicinati. Forse sarà la prima volta che a settembre quasi tutti avranno voglia di tornare a scuola, avranno nuove energie, saranno, saremo tutti un poco diversi. Forse.
Si può fare tesoro di tutta questa improvvisazione? Se ne possono trarre risorse per il ritorno ad una scuola in presenza?
Ma poi, Dirigente, siamo sinceri, tutte le presenze sono desiderabili?
No certamente no. Anche qui c’è da stare attenti.
Anche molte presenze sono pericolose, non solo le distanze.
Certo che dai “compositori” ci si aspettava qualche aiuto in più, qualche indicazione, qualche partitura, o almeno qualche tema, da prendere e interpretare in base al nostro stile. Chi sono i compositori? È chi ha in mano il timone; potremmo anche usare la metafora del “direttore d’orchestra”, va bene lo stesso.
No, non sto pensando a Lei Dirigente, io e Lei siamo sullo stesso palco e mi è piaciuto dialogare, ci sono stati momenti interessanti di intesa e di ascolto. No, io parlo dei gradi più alti. Lo dico chiaro: non ho ascoltato idee provenire dal Ministero, almeno fino ad oggi, data in cui stendo questa Relazione finale. Solo indicazioni tecniche: ma, Le chiedo, è efficace progettare partendo da un pensiero tecnico che rimane lontano da qualsiasi idea pedagogica? No, io penso di no, ecco il pericolo, il vero, grande pericolo.
Tutti a scuola con le mascherine, con entrate scaglionate, a distanza di sicurezza e con ore un poco più corte. Sì, ok, ma a fare che cosa? E, soprattutto, COME?
Se questa è la rivincita della presenza non mi piace. Grazie, no!
Occorre ripensare la scuola, e se non avverrà avremo perso un’occasione importantissima, e la scuola sarà peggiore di prima. Perché diciamocelo chiaro, non è che prima fossero tutte rose e fiori. Qualche spina la vogliamo vedere anche nella amatissima scuola in presenza?
Per fortuna c’è chi ci pensa: è alto il dibattito fra chi ci lavora dentro; si parla di tecnologie ma anche di scuole all’aperto, di rapporto con il territorio, di classi dritte e capovolte e di mille altre scuole possibili, che, come le città invisibili di Italo Calvino, ci possono indicare idee per abitare e per cambiare i nostri paesaggi.
Ecco, questo è ciò che dobbiamo fare.

Che hai fatto tu?

Gentile Dirigente, non ho fatto didattica in questi ultimi mesi, o almeno molto poca. Mi sono occupato poco della mia materia. Ho fatto a fatica qualche videolezione, ma non mi piace chiamarla così; in verità non ho mai fatto “lezione”, ho cercato qualche soluzione per usare la tecnologia in un modo un poco interessante, che non mi imponesse di restare dinnanzi ad un monitor a parlare. Non lo faccio quasi mai nemmeno in presenza. Ho dato qualche voto solo perché Lei me l’ha gentilmente chiesto, ma, sinceramente, ne avrei fatto a meno. Nella scuola della mia fantasia ne farei a meno anche in presenza, ma questo discorso ci porterebbe troppo lontano.
Ho dato corpo ad un’idea che è stata quella della webradio, Radiobielladue[2].
È stata anche questa un’improvvisazione, forse molto nella forma di un “solo”, ma in positivo interplay con colleghi, genitori e ragazzi e ragazze.
Non sto a descriverla qui nel dettaglio, Lei la conosce. Ne sono contento, è stata un’avventura, mi ha permesso di confrontarmi con colleghi su potenzialità didattiche nuove, mi ha dato idee per il futuro, per il prossimo anno scolastico, il mio ultimo. Tutto sommato arrivare all’ultimo anno di carriera con ancora qualche progetto da sperimentare non è male. Sono fortunato.
All’inizio di questa avventura pedagogica (pedagogica sì, anche se non didattica) ho scritto questo:

Mi piace pensare alla radio come a una finestra.
La finestra è una soglia: segna la linea che divide (ma anche unisce) il dentro e il fuori.
Possiamo tenerla chiusa, e allora stare completamente dentro; o possiamo aprirla e lasciare che il fuori venga a incontrare il dentro, come un ospite di cui forse non sempre riconosciamo immediatamente la voce.
Questa radio-finestra, in questo momento, mi pare restituirci dei piccoli ritratti acustici di questo tempo sospeso, di questo tempo fra parentesi (e chissà se sarà davvero sarà una parentesi, o forse un giro di boa, chissà, forse un cambiamento epocale). Lo vedremo.
Le voci che abbiamo raccolto fino a qui sono testimonianza collettiva del tentativo di mantenere un senso, un dialogo, di esercitare un ascolto attento di piccoli momenti, di piccoli anfratti, angoli. Piccole storie raccolte dalle voci che conosciamo, voci familiari, calde, a cui vogliamo bene.
La radio come finestra da cui entrano ed escono queste piccole storie, tenute insieme da una narrazione collettiva fatta di piccoli frammenti, che sono “frammenti di un discorso amoroso”.
Allora mi piace pensare alla radio come ad una casa immaginaria, in cui ci si ritrova vicini gli uni agli altri, ma non per caso: per necessità, per scelta, per piacere.
Piccoli gesti, eventi, voci, fra pieni e vuoti: e che strano pensare che il fuori, fino a ieri così pieno ora sia così vuoto, e al contrario come le nostre case si siano riempite, di vita, di voci, di vicinanze, di noi.
La radio racconta questa trama quotidiana che in altri momenti ci sarebbe sembrata trascurabile ma che in questo momento mi pare assumere significati molto diversi dal punto di vista simbolico.
Ma avremo modo di riparlarne, di riascoltare dopo, di sfogliare questo diario acustico e sentire l’effetto che ci farà, i pensieri che ci farà nascere, le idee, anche musicali, per giocare con quanto è entrato e uscito da questa piccola finestra.
La finestra rimane quindi aperta.

Ho provato a sostituire alla parola radio la parola scuola e funziona. Almeno, gentile Dirigente, per me funziona.
Grazie di tutto, per l’ascolto e la libertà lasciatami in questo tempo, per non avermi costretto a fare quello che non mi sentivo o non trovavo giusto fare, per avermi consentito di portare avanti un’idea.
Credo che questo significhi essere “un bravo dirigente”.

Prof. Enrico Strobino

1 Giugno 2020

[1] Paolo Perticari, Attesi imprevisti, Bollati Boringhieri, 1996, p. 100.

[2] https://www.spreaker.com/user/12141311

Alcuni dati: abbiamo dato forma a dieci podcast con più di ottanta contributi; la radio ha al momento 126 follower e ha superato i 3500 ascolti.

Maurizio Disoteo

Ma non vorremo abituarci, vero?

In queste ultime settimane ricevo una quantità di inviti a seguire concerti e spettacoli teatrali, o vedere film, tutti naturalmente on line. Confesso che non li seguo, anche perché mi fanno una grande tristezza. Ho tanti vinili e CD, in casa, per ascoltare musica, ed esiste anche youtube che, quando voglio vedere il video di un concerto, consulto. Ma appunto, ci trovo il video di un concerto, non il concerto.
Il concerto, quello vero, non si può vivere nella propria camera o nel proprio studio, davanti a uno schermo, perché è una pratica sociale, tanto importante da essere diventato, nella società borghese, assolutamente prevalente rispetto a tutte le altre che si svolgono con/intorno alla musica. Si fa un concerto per suonare della musica, ci si va per ascoltarla, ma in ogni caso vi si partecipa uscendo di casa, decidendo come vestirsi, con chi andare e con chi stare prima e soprattutto dopo, magari andando a cena o a prendere un bicchiere di vino. Al concerto si chiacchiera nell’intervallo, magari discutendo futilmente dell’accordatura del pianoforte, tanto per indispettire Adorno. Ma soprattutto si è presenti con il corpo, quello dei musicisti e degli spettatori.
Considerazioni simili si potrebbero fare per le altre pratiche con/intorno alla musica, dalla danza, alla religione, alla politica ma anche per il teatro e persino per il cinema.
Per tutte queste ragioni, mi ha preoccupato, giorni fa, ascoltare un’intervista radiofonica a un operatore teatrale del Piemonte che raccontava di alcuni spettacoli da lui organizzati on line considerando con un certo compiacimento che un attore che recita sulla piazza di un paesino di campagna non potrà mai avere tanti spettatori quanti ne può avere in internet. Probabilmente è vero, ma se avrà molti spettatori, quell’attore non sarà un corpo in movimento in una piazza stipata di persone che applaudono, ridono, si stupiscono o dissentono, che si muovono, che tossiscono, che sono immerse con lui nei suoni, nella luce e negli odori di quel posto. Nulla potrà rendere virtualmente la qualità di quell’esperienza.
Allora prendiamo la attuali vicende virtuali come una necessità, triste, di questo momento, ma non esaltiamole e non abituiamoci alle belle e progressive sorti dello spettacolo via internet, un non-spazio de-corporeizzato e de-sensibilizzato che mai ci restituirà l’emozione vera che ci è data dalla presenza fisica, dalla vicinanza, dal sentirsi corpo comune. Ricordo un concerto di Maurizio Pollini, alla Scala, in cui ascoltando e osservando ciò che faceva, io, pianista in disarmo, mi sentivo assimilato nei suoi gesti da cui sortiva la musica, Questa empatia in internet non mi coglie. Anzi, la visione internet accresce la distanza tra il virtuoso e il musicista comune, e ancor più con l’ascoltatore comune.
La stessa cosa penso della cosiddetta didattica a distanza di questi mesi, che è accettabile per aiutare a mitigare nei ragazzi il trauma di un anno scolastico interrotto improvvisamente ma non sostituirà mai quello che si fa in aula. Sono stato insegnante di musica, so cosa vuol dire lavorare in una classe trasformata in un ensemble di percussioni dove l’intesa passa con un gesto rapido, uno sguardo, un cenno, un movimento del corpo, un professore che per tenere il tempo continua a salticchiare sui piedi (con relative imitazioni, a posteriori, degli allievi). E le risate quando il solito P. sbaglia per l’ennesima volta l’entrata… e si deve ricominciare. E i genitori all’uscita che hanno sentito in mezzo quartiere, che ti dicono che “buongiorno prof,, oggi vi siete espressi….”. Non ditemi che una lezione on line in cui si chiede a un alunno tutto solo a casa sua di battere il ritmo di un brano trasmesso con il computer ha lo stesso valore pedagogico e sociale. Ammesso che quell’alunno non ti mandi subito al diavolo e stacchi la connessione.
Tutto questo mentre i genitori fanno smart work. Che bello lavorare a casa, si può fare in ciabatte, gestire l’orario come si vuole. Peccato che secondo tutte le statistiche comporti aumento dell’obesità, dei disturbi alimentari, dell’alcolismo, del tabagismo e ovviamente, depressione e dipendenza da internet.
Allora accettiamo pure il nostro confinamento dietro allo schermo, per un periodo limitato, ma conoscendone i limiti. E soprattutto non prendiamo l’abitudine, sarebbe grave perché in questo caso il virus ci avrebbe davvero uccisi prendendoci non ai polmoni ma al cervello.

Maurizio Spaccazocchi

CARA SCUOLA. IL CERVELLO VICINO AL CUORE

Ci sono dei momenti nella nostra vita personale e comunitaria in cui diventa molto importante comprendere la distinzione fra le parole Pertinenza e Priorità. La prima raccoglie in sé tutto ciò che si può ritenere utile in certe specifiche situazioni, in certe occasioni, in certi contesti. La seconda, diversamente, ci invita a distinguere fra tutte le pertinenze individuate, quelle che risultano essere davvero importanti, da fare subito, cioè quei lavori o quelle attività prioritarie che devono assolutamente essere svolte prima di tutte le altre.
Ora, nostro malgrado, siamo entrati nel bruttissimo periodo del Coronavirus e quindi, anche con un briciolo d’intelligenza credo che tutti i cittadini italiani, almeno quelli più coscienti, abbiano ben compreso che, fra tutte le cose pertinenti che ci sarebbero da fare, ce n’è una che è prioritaria su tutto: salvare la vita!
Per poter giungere a far sì che questa importantissima priorità possa rendersi davvero efficace si possono ritenere altrettanto prioritari, in questo momento, i comportamenti che ci invitano alla privazione di prossemiche di intimità, come appunto il restare a casa, evitare gli incontri a quattrocchi, i grandi raduni, e tantissime altre azioni importanti che ora non sto qui a ripetere. E anche l’assunzione di questi comportamenti umani, non tanto pertinenti alla nostra natura altamente socializzante, in questo brutto stato pandemico, non possiamo fare a meno di riconoscerli giusti e utili per tutti, quindi prioritari per poter pensare di offrire un prossimo futuro alle nostre singole vite e a quelle degli altri.
Per sopperire a questo obbligato distacco relazionale che disumanizza ogni persona, ci siamo rivolti alla tecnologia digitale, tanto osannata da più di un ministro del nostro governo, che si è pure orgogliosamente permesso di affermare che da questa grave crisi, finalmente, si potrà sviluppare quella che già attendevamo da anni: la grande rivoluzione culturale offerta oggi dallo smart working, dal lavoro svolto da remoto, dalle class-room, etc.
A questo punto cerco di giungere al problema che sento il dovere di far emergere proprio nei confronti specifici della nostra scuola. Posso capire che in un momento come questo si possa ritenere prioritaria la lezione digitale nelle sue varie forme, ma quando avremo vinto la battaglia contro il Coronavirus, sino a che punto la scuola dovrà ritenere prioritaria questa formula d’insegnamento? E badate bene, uso volutamente il termine insegnamento, al posto di educazione, perché il mezzo tecnologico, per quanto ludico e attraente, induce molto di più all’insignere, cioè al far segni addosso come fa Zorro quando usa la spada “insignendo” il retro dei pantaloni del simpatico sergente Garcia.
L’educazione, al contrario dell’insegnare, ha bisogno di presenza viva perché deve educĕre, estrarre, tirar fuori ciò che è già presente nella persona, nella sua biografia, nei suoi vissuti, nelle sue azioni, nel suo comportamento, nelle sue relazioni, emozioni, abilità, saperi acquisiti… tutto il suo saper essere nella vita.
Mi unisco fermamente a tutti coloro che credono che non possa esistere alcun Ministero dell’Istruzione in grado di sostenere la sola priorità della cultura e della lezione digitale in qualsiasi ordine scolastico. Quando tutto sarà ritornato alla normalità, anche la tecnologia digitale dovrà ritornare nel suo quotidiano alveo delle pertinenze scolastiche, poiché la priorità della scuola sta proprio nel contatto, nella relazione umana, poiché è questa che forma davvero la Persona. Infatti, la parola Persona proviene dal greco Prósôpon, composto dalla combinazione di due parole Pròs (di fronte) e Òpsis (allo sguardo) e, sapendo pure che Prósôpon ha dato origine alla parola italiana Persona, per noi significa che l’essere umano è tanto più Persona quanto più si trova di fronte a qualcuno che lo sta osservando. È proprio grazie a questa relazione umana che i nostri giovani possono acquisire l’essere Persona vera, quando rivolgono lo sguardo verso gli altri e quando, nello stesso istante, si lasciano dagli altri guardare. Insomma i nostri studenti agiranno tanto più da vere Persone quanto più sapranno rivolgere lo sguardo verso l’altro e, con l’atto di volgersi, mostreranno il loro volto all’altro.
I nostri figli, con l’ab-uso dei mezzi digitali, è già da tempo che non sanno più guardare i compagni, i genitori, e non sarà certo con l’aumento dell’uso delle lezioni digitali che potranno recuperare la loro dimensione di Persona deprivata dalle loro più che curve posture visive verso il basso.
No, signori esperti pedagogisti del Ministero dell’Istruzione, una scuola sarà tanto più umana quanto più saprà sviluppare abilità, conoscenze e competenze grazie alla quotidiana relazione fra Persone, grazie alla costante e importante evoluzione, in presenza, di una vera e propria Etica dei volti. Lo sguardo umano quando è ripetuto, diventa riguardo, e chi riguarda l’altro gli mostra rispetto, e il rispetto è profondo solo quando il cervello resta vicino al cuore.
La cultura digitale non è nata per questo importantissimo compito umano e umanitario!
La scuola può assumersi questo impegno ogni giorno, in classe, se non dimentica la sua priorità altamente qualitativa, nata per non far dimenticare che le Persone sono solo quelle umane, pienamente umane.

Gianni Franceschi

AUTOCERTIFICAZIONE

MI DICHIARO incapace di gestire la didattica on line.
Mi dichiaro incapace di interagire positivamente a distanza con ragazzini di dodici anni, con molti dei quali è già difficile interagire in presenza.
Mi dichiaro incapace di spiegare anche un solo concetto semplice alla volta a persone che non posso guardare negli occhi e di cui non posso comprendere le reazioni e i messaggi non verbali.
Mi dichiaro incapace di insegnare qualcosa ai ragazzi più svegli, che quelle due scemenze che riesco a tirar fuori durante un incontro (tra rumori di fondo, interferenze, fratellini che frignano, babbi che chiedono se è già stato messo il sale nell’acqua che bolle) se le possono tranquillamente imparare da soli con due clic su internet.
Mi dichiaro incapace di verificare in modo vagamente sensato fantomatici apprendimenti, somministrando giochini e cazzatine varie, il tutto all’insegna del “veloce e colorato”, con qualche “bip, ting, tac” di sottofondo che non guasta mai: perché di scrivere, esporre, argomentare, costruire, faticare si parlava sempre meno prima, figuriamoci ora!
Mi dichiaro incapace di concepire la scuola come un gigantesco videogioco on line.
Mi dichiaro incapace di rispondere efficacemente 24h ai problemi tecnici e di connessione dei miei alunni, problemi veri o presunti.
Mi dichiaro incapace di stare appiccicato a pc, tablet e cellulare dalla mattina alla sera, senza rovinarmi vista e schiena.
Mi dichiaro stufo di preparare slide, immagini, materiali, video, audio, istruzioni che solo pochi guardano, leggono, ascoltano, capiscono, “perché tanto è uguale” o “perché non mi è riuscito dopo ben mezzo secondo di tentativi”.
Mi dichiaro incapace di capire a cosa serva tutto questo, che per me NON è scuola.

DICHIARO la mia totale inutilità e inettitudine come insegnante in questa fase assurda, ma forse – chi lo sa- già da prima.

CHIEDO che si ripensi seriamente, una volta che questo delirio sarà terminato (chissà quando), a riorganizzare la scuola italiana su basi serie, perché le masse di analfabeti funzionali che abbiamo creato negli ultimi vent’anni ce le stiamo ritrovando tutte sul groppone.

Infine, SPERO che non si verifichi l’ipotesi di cominciare anche il prossimo anno scolastico con questa cosiddetta “didattica a distanza” (o “dad” per gli amici e anche per i nemici), perché temo che la scelta sarebbe tra il suicidio e l’anno sabbatico.

Oh, sia chiaro: la colpa è tutta mia! (le autocertificazioni si concludono sempre con una assunzione di responsabilità,vero?).
In fede (davvero poca, ora come ora).

Gianni Franceschi

PS “Ah, orrore, scandalo, turpiloquio, queste cose non si scrivono, la missione, la Montessori, i ‘poveri bambini’, la scuola inclusiva, la salvezza del Mondo…brutto mostro scriteriato, hai sbagliato mestiere! Che tu sia cacciato con ignominia dalla Scuola!”: forse sì, avete ragione.

Catia Gori

CORONE, Punti coronati che dilatano il valore metrico di ogni suono

“E Voi il twist non lo avete scelto, ma ve lo hanno imposto e ve lo possono imporre come vogliono … Purtroppo la mia previsione è che sarete pecore, che vi piegherete completamente alle usanze, che vi vestirete come vuole la moda, che passerete il tempo come vuole la moda”. Da: Una lezione a Barbiana

Ho provato ad immaginare cosa avrebbe fatto in questa emergenza Don Milani, come avrebbe gestito la distanza sociale imposta, se avrebbe usato tecnologiche e strumenti digitali come “ vuole la moda” dei nostri tempi. Mi hanno sempre stupito le sue parole appassionate, forse addirittura eccessive, ma il “noi” collettivo della sua visione pedagogica è sempre potente ed appassionato. In un certo senso, oggi più che mai è da analizzare come testimone di un’epoca, per aiutarci a comprendere la dimensione di un cambiamento nei vissuti concreti della scuola, cogliendone i limiti, ma anche i valori le speranze, e in questo tempo di grande emergenza, le illusioni.
Siamo di sicuro immersi in un mondo sospeso. Emerge la priorità di gestire qualche contatto, e prima ancora del modo e dei contenuti, credo che la necessità di creare una vicinanza sia rassicurante, poiché lo stare a casa è fatto di angosce, di famiglie con malati, con problemi di spazi fisici ed emotivi. “Io ho paura delle paure dei grandi” mi disse Sofia mia alunna in 2 elementare, oggi promettente attrice.
A questo penso, a quante domande senza risposte e a quante atmosfere precarie vivono i bambini, a quante risposte siano costretti a cercare da soli, rifugiandosi altrove. La fase sociale è difficile ed inquietante, specie perché la Natura oscura ha attentato la nostra libertà e amplificato il sentimento di precarietà umana. Non lasciare da soli i nostri studenti credo sia in un certo senso pedagogia pura, la via maestra, la mano tesa per provare a vivere questo momento. Questo tempo chiede fantasia e passione per una straordinaria solidarietà, ma anche una modalità di contatto che cerchi di includere tutti. Vanno pensati soprattutto i bambini e le bambine che non possiedono mezzi, i cui genitori non possono ricaricare i giga , né scaricare link o fotocopie, loro che non hanno nemmeno un balcone per uscire nel momento di collettività a chiamata.
Dai dati Istat del 2019 risulta che il 76,1 per cento delle famiglie dispone di un accesso a Internet. Dunque è verosimile che un quarto degli studenti non abbia la possibilità di partecipare a momenti di didattica on line con strumenti contestuali. Vi è quindi da considerare un quadro di difficoltà e ancora una volta di disuguaglianze crescenti fra i nostri studenti, che non può e non deve essere dimenticato. Va altresì considerato che noi docenti abbiamo cercato e ideato tanti modi per tenerci vicini, poiché noi sentiamo davvero la loro mancanza. E cosi le chat w app dei genitori, hanno conosciuto la parte solare della strumentalità comunicativa diventando il mezzo del contatto e non della polemica, le mail dei docenti si sono riempite di scritti con cui comunicare parole poesie riflessioni, i nostri telefoni sono diventati un crocevia di registrazioni da comunicare ed inviare. Qualcuno spedisce anche lettere.
La “didattica a distanza” lo è sulla dimensione corporea, la necessità della relazione fa sì che nell’ideare mezzi per attuarla, la trasformi inevitabilmente in didattica della vicinanza.
Con i miei alunni, attraverso la comunicazione del telefono che tutti hanno, abbiamo stabilito di scrivere disegnare, raccogliere, traccia del tempo che scorre mediante un quaderno personale, così come la raccolta dei suoni registrati del tempo a volte apparentemente immobile. Credo fermamente che in questo approccio qualora si attivi mediante lezione on-line, sia importante promuovere anche un senso della leggerezza, della lentezza, e della libertà di potersi esprimere con tempi più vicini e consoni ai luoghi domestici in cui viviamo.
Le case sono diventate la Scuola, potere guardare ad esse con attenzione e in modo diverso, esplorando spazi, mappe affettive, attivando esperienze di contatto mediante tutti gli organi di senso, sono diventate fra me e i miei alunni centrali nei nostri incontri, proprio come succede nel libro La storia di Mina di David Almond. La protagonista è capace di inventare esercizi straordinari partendo da ogni cosa per imparare ad apprendere nel tempo in cui la scuola l’ ha espulsa.
Gestire questo tempo come occasione per dare vita ai declamati compiti di realtà, alle azioni pratiche, alle competenza delle abilità delle mani, del contatto corporeo e vitale dentro le case, che per assurdo sono diventate la sede della distanza.
In questa calamità non si riparte dalla vicinanza sociale come accade per i terremoti, per provare a farcela dobbiamo mantenere la distanza dal corpo dell’altro. E allora mi auguro che in questo tempo si possano osare e sperimentare nuove consegne come ad esempio: quella di annusare il libro, percepire il soffio delle pagine in movimento, il suono delle unghie che graffiano il quaderno e poi lo accarezzano, lo tamburellano lo strofinano con diverse dinamiche. Quaderni e libri che possano essere immaginati anche come tappeti volanti, quadri coperte, che raccolgano scritti ricordi appunti di tutta la famiglia.
Il lavoro collettivo come testimonianza delle stare insieme nelle distanze stabilite, ma nelle vicinanze emotive e creative che non vanno in alcun modo dimenticate e sottratte al quotidiano.
Mi auguro che il corpo e l’implicazione sensoriale vengano sempre attivati, che la necessità di fare ordine nelle cose tipiche degli adulti, possa lasciare spazio aperto alla forza dell’infanzia che è nell’imprevisto.
Mi auguro sia un tempo nel quale per noi adulti educatori si possa individuare nettamente che non possiamo dare una relazione edulcorata in nessun tempo educativo. Ai nostri alunni e alunne non possiamo togliere la consapevolezza della parabola della vita, poiché se essa ha un senso preciso è perché la morte lo ha in pari misura.
Mi auguro che si possa graffiare e fendere ogni lontananza, sfidandola con ogni mezzo, e soprattutto che una volta cessata questa emergenza, si riesca a lavorare sul senso profondo della connessione umana attraverso il nostro esserci in presenza, tenendo lontano il rischio che questo uso del digitale diventi la formula dell’innovazione e della modernizzazione evoluta di qualsiasi rapporto educativo. Poiché anche attivando didattica online in qualsiasi piattaforma, il mio coro meraviglioso non può cantare, non c’ è respiro comune non ci si può ascoltare, è il limite del digitale in questa pratica musicale corale.
E allora chi non ascolta non è ascoltato, come nella vita.

Elena Borsotti

LETTERA APERTA AI DOCENTI DA UNA MADRE ANESTESISTA RIANIMATORE IN EMERGENZA CORONAVIRUS

Innanzitutto porgo i miei saluti a tutto il personale docente e ringrazio per il lavoro che sta svolgendo e per l’impegno profuso.
Io sono un anestesista rianimatore e lavoro in Terapia Intensiva con pazienti Coronavirus gravissimi. Tutto il personale sanitario è impegnato a tempo pieno in questa terribile emergenza. E’ una battaglia quotidiana e durissima che richiede uno spiegamento immenso di mezzi e risorse sia umane che materiali e che mette a dura prova sia il fisico che la mente. Alcuni di noi sono già o saranno contagiati. Alcuni di noi non vedranno la fine dell’epidemia. Ma questo è il nostro lavoro e lo facciamo con anima e corpo.
Ma sono anche una madre. La mia unica figlia è una vostra studentessa.
Questa lettera aperta vuole essere un invito a continuare ad esserci, nonché una richiesta di aiuto se non un lascito morale.
Il personale docente ha un ruolo educativo fondamentale, non solo in termini di pura didattica, ma anche e soprattutto nel senso più ampio di riferimento, guida e formazione di individui adulti.Ora più che mai la vostra presenza è fondamentale. Come noi ci prendiamo cura dei nostri pazienti, voi oggi ancor più di prima siete indispensabili nel prendervi cura dei nostri ragazzi, della nostra generazione futura, perché siete chiamati all’arduo compito di contenere i danni psicologici che questa epidemia ha ed avrà sugli adolescenti. Siete i loro compagni di viaggio in questo tempo sospeso.
Nella difficile fase evolutiva di transizione, che è l’adolescenza, caratterizzata di base da profonde incertezze ed insicurezze e dal bisogno di prendere le distanze dalle figure genitoriali, è necessaria la presenza di punti di riferimento adulti solidi e sicuri di cui potersi fidare e con cui confrontarsi. Alcuni ragazzi avranno la fortuna di passare più o meno indenni attraverso questa tragedia perché sapranno reiventarsi; alcuni avranno l’occasione per scoprire parti di sé nascoste. Ma altri invece dovranno confrontarsi con dolorosi lutti, con la perdita, con la mancanza, con lo smarrimento. Voi siete i punti di riferimento in un momento di profonda incertezza sul futuro.
Con il vostro esserci attivamente attraverso il coinvolgimento, la discussione, l’analisi della situazione, la comprensione, il conforto, il supporto, potete favorire quel senso di continuità e sicurezza così necessario in adolescenza.
I nostri ragazzi hanno bisogno di sentirsi soggetti attivi e partecipi in una situazione che purtroppo si trovano a dover subire. Voi siete le figure adulte attraverso le quali questo bisogno può essere soddisfatto. Nel poco tempo in cui io sono a casa, quando non crollo sfinita sul letto, guardo mia figlia, ed attraverso lei guardo tutti gli adolescenti. Per chi è giovane e con una vita di fronte, il concetto della malattia e della morte è qualcosa di molto lontano. Ora la malattia e la morte sono prepotentemente entrate nelle loro giovani vite. Per alcuni solo come parole e paure, per altri purtroppo come realtà e dolore.
Fuori dalla porta di casa, da cui i nostri ragazzi uscivano con gioia e senso d’indipendenza e di libertà, adesso c’è un mostro invisibile, che può attaccare chiunque silenziosamente. In un’età in cui la socializzazione, la frequentazione dei coetanei e la vita fuori dalle mura domestiche sono fondamentali e necessarie, adesso c’è una vita di reclusione domiciliare. Tutte le attività esterne sono precluse. Sulle città incombe un silenzio inquietante ed innaturale. Per molte famiglie la permanenza in casa potrà essere momento di arricchimento e riavvicinamento, per alcune potrà essere fonte di conflittualità e fratture. In questo contesto innaturale alcuni si troveranno oltre che prigionieri anche vittime.
Nei profondi occhi azzurri di mia figlia vedo un’angoscia in più, quella di chi ha uno o entrambi i genitori direttamente impegnati in questa battaglia. Sono occhi privati della presenza parentale, in cui leggo la paura per me quando esco di casa e il sollievo quando rientro, occhi sempre indagatori alla ricerca dei segnali di stanchezza, di tristezza, occhi impotenti alla ricerca della verità nascosta, in uno stato di allerta continuo. Come i suoi, mille altri occhi hanno lo stesso sguardo.
Noi genitori quotidianamente vi affidiamo quanto di più prezioso possediamo: i nostri figli.
Come madre vi ringrazio per la vostra presenza come adulti di riferimento e vi incoraggio nel proseguire il vostro ruolo formativo.
Come anestesista rianimatore il mio cuore al lavoro sarà più leggero sapendo che altre figure importanti si stanno occupando non solo della didattica, ma anche della formazione umana e dell’integrità psicologica di mia figlia e di tutti i ragazzi loro affidati.
Quando questa terribile tragedia che si sta consumando sarà finita, quando si rientrerà alla cosiddetta normalità, i vostri studenti ritorneranno da voi. Ma non saranno gli stessi di prima. Voi sarete fondamentali nell’assisterli nella loro ripresa, fondamentali nell’aiutarli a mantenere la fiducia in loro stessi, a superare le loro angosce, a riparare le loro ferite. Sarete più che mai fondamentali nel compito di continuare a formare adulti solidi.
Grazie di cuore.
Bresso, 25 marzo 2020


Georgia Iaconetti

Riflessione lunga e dolorosa al ventiduesimo giorno di reclusione dalla chiusura della scuola, giorno in cui, per me, si è materializzato l’incubo che ora stiamo vivendo. Sì, stiamo bene, siamo fortunati, abbiamo cibo, tv, comodità ecc. ecc. Sì, siamo fortunati che siamo in 4 e tutti insieme. Ok. Oggi però ho avuto una illuminazione, o meglio, ho visto con occhi diversi una situazione che finora mi era, forse, sfuggita di mano, presa dal mio solito entusiasmo di docente e mamma che mette cuore, pancia, anima e tutto quello che si può mettere in questi due ruoli difficili e spesso sottovalutati anche dai parenti più stretti che vivono con noi. Oggi Diego, solitamente un alunno modello, creativo, corretto a scuola e a casa, compiti sempre fatti in tempo e con entusiasmo, risultati sempre ottimi (mi permetterete un attimo di non modestia dopo 5 anni di primaria con delle maestre STRAORDINARIE), stanco e spento. L’ho trovato, da poco, con le mani tra la testa, gli occhi lucidi, gli occhiali in mano, il cappuccio della felpa in testa, non riusciva ad andare avanti in un problema che, credo, beato lui, in altri momenti avrebbe fatto in poco tempo. Era bloccato, congelato…. e non perché i compiti che gli vengono dati siano tanti… ma proprio perché si è sentito perso di fronte a questa situazione e sopraffatto dai doveri… in un momento in cui i piaceri si sono persi tutti, o quasi. Ho smesso di stare al mio pc, mi sono avvicinata, e l’ho abbracciato. Gli ho detto: basta Diego compiti per oggi, fai una cosa che ti faccia tornare il sorriso, pensaci… e falla. E’ andato a chiamare la zia e sento che è in camera che ride. Ho pensato ai miei alunni, quelli diligenti che mi hanno mandato i compiti subito e fatti benissimo, quelli che ancora non mi hanno spedito niente e quelli che li hanno fatti così, tanto per fare o perché non hanno capito bene o forse non hanno testa, voglia, interesse. Ho pensato che non tutti avranno i genitori che li seguono per mille motivi e chi, come Diego, deve subire anche dei caratteri forti ed esuberanti come quelli di sua sorella Bianca. E niente, chiudo il pc e da domani inizio a pensare a come stare vicino a tutti loro, più di quello che ho fatto finora o in maniera diversa… perché la cosa più difficile che dobbiamo sopportare non è lo stare chiusi in casa… ma è il non sapere fino a quando, l’incertezza del futuro, non avere risposte. E se è difficile per noi adulti, figuriamoci per loro.

Roberto Maragliano

Vedo che per molti, ma non tutti!, il problema più grosso che incontra la didattica della diversa presenza è come valutare, cioè dar consegna, correggere, interrogare, produrre voto. La mia idea in proposito è molto semplice, direi drastica. La valutazione individuale in questa fase è un problema di sistema. Dunque la sua soluzione non può essere scaricata, allo stato attuale, sui docenti. Non perché sia un compito gravoso, quello di trovare ad esso una soluzione. Ma perché non compete loro, ai docenti, almeno in questa situazione, che è di emergenza non amministrativa ma psicologica ed esistenziale (e che se gestita malamente potrebbe diventare di emergenza legale). Cosa fa un docente decente, in tali urgenze? Fa l’educatore (ahi ahi, così almeno i Galli della Loggia la smetteranno di prendersela con la pedagogia progressista e se la prenderanno con il coronavirus, nemico ben più potente e insidioso). Il docente decente, in tempo di guerra, si preoccupa soprattutto e si occupa prima di tutto di tre cose: tenere o costituire in tutti i modi la comunità di classe o di scuola o di quel che volete, comunque un luogo dentro il quale ci si senta al riparo dalle angosce, o anche soltanto dai disagi e dalla noia (docenti e studenti, ovviamente); fare in modo che dentro quella comunità la cultura intesa come ricerca, selezione, aggregazione, produzione di conoscenze supportate da idee costituisca una positiva risorsa per non essere travolti dalla realtà, e si traduca in un qualcosa che possa essere ricordato, nel futuro, come un’occasione di serenità, confronto, realizzazione (dunque, una salutare distrazione); verificare giorno per giorno che il progetto funzioni, nel suo complesso, che dunque la comunità operi (la comunità, ripeto: dunque non la somma dei singoli studenti cui aggiungere il docente). Si lasci ai responsabili politici e amministrativi il compito di decidere cosa e come e quando valutare in tempo di guerra, non fosse altro perché si salvaguardi il principio (fondamentale neh!) dell’adempimento formale. Ma soprattutto non lo si scarichi sui ragazzi. Se vogliamo che tornino a scuola con un po’ di fiducia, condivisa da noi, sul futuro loro e su quello della scuola stessa. Ops, non ho detto niente a proposito di tecnologia!

Preside della provincia di Bergamo

Scusate. A me la didattica a distanza si è inceppata, avvitandosi su se stessa dopo un’iniziale e scoppiettante partenza. Non sono stati problemi tecnici a farla implodere, e nemmeno forse quelli legati ai limiti culturali o strumentali di alcune famiglie. E’ stato proprio il virus. Un virus che qua … ha falciato nonni, madri e padri in quasi tutte le famiglie dei miei studenti e dei miei docenti. Un’ecatombe. Da qui il crollo psicologico, il dolore chiuso dentro le case che rimbalza senza poter uscire, nemmeno via web. Un dolore che annulla ogni voglia di pensare al “dopo”.Qui nessuno canta sul balcone. Qui nessuno si sente tra i “salvati”. Insomma, il terrore, la depressione, lo smarrimento hanno fortemente influenzato l’iniziale slancio didattico e tutta la buona volontà degli insegnanti e degli alunni. Dovrò lavorare su questo, adesso, e non sui device o sugli aspetti tecnici. E non so da che parte cominciare… perchè non ne sono capace.

Alessandra De Chirico

Chiedi Pedagogia… Nuova.

Non sono attrezzata. Con questo piccolo mezzo posso scrivere e sai una cosa? Non so come mai possa succedere, non ne capisco le meccaniche, la fisica ecc. e quindi impossibili da comprendere. Il mistero permea ogni cosa ed è la forza e bellezza della vita. Ma non è questo che volevo dirti. Sì può resistere? Per me si deve resistere con tutta la forza che si ha. Siamo dipendenti da questo mezzo e ne siamo consapevoli ma ora pare l’unico mezzo per comunicare: una dipendenza obbligata!
Quale pedagogia? Solo fra mezzi meccanici e tecnologici? Se anche noi siamo tecnologia e meccanica bisognosi di energia ci dobbiamo chiedere cosa vogliamo diventare, se abbiamo un’energia possiamo  capire i limiti del suo uso? Provare se si può a dire: questi limiti non li voglio superare. E pazienza se si “guadagna” un anno senza classi di scuola, se non perdiamo la possibilità di ricrearci utilizzando la tecnologia riflettendo su ciò che si vuole che diventiamo.
L’insieme di cui tu sei stato un continuo promotore con la musica a scuola deve diventare un insieme solo in video?
Per me no. I ragazzini dovevamo lasciarli soli. Affinché capissero la morte dei mezzi informatici e invece ora siamo solo quello!
Cerco di difendere la scuola dalla didattica a distanza: non la faccio. Ho dato qualche compito: da scrivere diari a mano sul quaderno, passeggiare intorno a casa e disegnare le strade intorno a casa, stare al sole e alla luce, scrivere la storia familiare.
Se li abituiamo al video al PC al cellulare noi insegnanti  non serviremo più. Forse non siamo mai serviti: ho imparato da loro più di quanto abbia insegnato. Da casa nessuno è obbligato a fare niente. L’uso di questo mezzo è un’opzione che si può rifiutare.
Per me senza questo mezzo non saremmo arrivati neppure a questo totalitarismo di ogni momento della nostra vita. E’ un’influenza. Ma l’influenza maggiore è che muoriamo come topi nelle nostre case davanti a un video. Ci denunciano se andiamo a fare una passeggiata quando ogni medico prima ti diceva di camminare, di prendere sole per la salute.
L’immunità di gregge appare senza compassione per le persone anziane, eppure noi viviamo da molto in un mondo che ha messo i vecchi nei ricoveri per vecchi invece di tenerli a casa, che ha inneggiato alla rottamazione dei vecchi politici, che li ha presi in giro tanto, che non li ha veramente rispettati, che non li ha più ascoltati, se non in casi eccezionali. Tutto è assurdo. La medicalizzazione del mondo è per me ciò che ci farà morire dentro e fuori, ma lentamente. In questi giorni penso alla gravidanza che è stata completamente medicalizzata: per me mia madre non vide neanche un medico mentre la mia generazione… Non sto a tediare di più su questo argomento che mi sta a cuore perché  il curare ha preso una via che non comprendo più.
Spero che siano buone le conseguenze, visto che si dice che nessun male viene per nuocere: anche per ciò  che è la scuola, un’istituzione che può decretare la sua fine nei video e nella tecnologia o rinnovarsi riabbracciandoci, danzando, cantando, suonando, usando le mani.
Umani:  c’è dentro la parola mani, ma non le usiamo più. I ragazzi usano i pollici per digitare! Si potrà tornare ad essere u-mani?
Scusa se sono un brontosauro, destinato ad essere estinto dai tirannosauri. Un caro saluto.

Marco Bricco

Sono d’accordo con Enrico Strobino. Non ho la prospettiva dell’insegnante di classe. Ho quella di chi frequenta la scuola, dagli asili nido alle superiori, per fare teatro e musica. E’ una prospettiva forse diversa, forse complementare, forse osmoticamente la stessa, solo spalmata sulle varie fasce d’età. Ma vedo tante volte che il nodo è proprio in quella quotidiana alchimia da creare tra “insegnante” ed “educatore”. Per mille ragioni, vere o presunte, si dimentica troppo spesso il secondo aspetto, travolti dalle ansie di finire i programmi o dai mille rivoli della burocrazia. Vedo che tante volte nella scuola si rischia di perdere il senso profondo della relazione. E non solo tra insegnante e allievo, ma anche tra insegnante e insegnante, tra insegnante e dirigente, per non parlare poi della relazione tra scuola e famiglie. Non credo siano dieci LIM o computer in più a rendere più moderna e al passo con i tempi la scuola di oggi. Credo che la scuola debba ricostruirsi come una nuova agorà; come un’occasione vera di relazione – anche in senso strettamente sensoriale – tra persone che condividono, con ruoli e compiti differenti, un cammino di crescita nello stesso tempo educativo e cognitivo. Non so, spero che questo tempo, quando gli arcobaleni di carta saranno nei cestini e i balconi saranno di nuovo vuoti e silenziosi, possa aiutarci a guardare oltre, per recuperare un sano e vitale umanesimo che ci accompagni verso un nuovo rinascimento. E per riaffermare una volta di più quanto si può fare con i bambini, scrivo un pensiero poetico fatto proprio sul tema della morte da una classe terza primaria (8-9 anni), finito poi nello spettacolo teatrale finale: “La morte è la fine. È come un cieco che non ci vede. È come un confine che da un mondo porta a un altro mondo, che da una vita porta a un’altra vita. Uno spazio vuoto pieno di malinconia. Esprime tristezza per un momento, ma poi va tutta via con leggero vento. La morte è un urlo di dolore, è rovinarsi la vita.
Divide le persone, la morte. Morte perché esisti?”.

Luca Chieregato

L’ORA DI FANTASIA

In sogno ho visitato la scuola del futuro. Somiglia alla nostra: coi banchi, le aule, i disegni sul muro. Ci sono ancora le materie, i bidelli e i professori ma insieme alla matematica, alla storia e alla geografia nei programmi del futuro hanno inserito la Fantasia.
Il professore non entra, ma esce, e a volte parla ai ragazzi la lingua del pesce. Fa lezione in silenzio, o in piedi sulla cattedra, ogni tanto si tuffa di sotto e ogni giorno presenta agli studenti qualcosa di rotto.
Come lo aggiustiamo? Chiede ai ragazzi.
Un giorno a rompersi è il ginocchio, poi è la volta dell’astuccio, del cancellino, dell’uovo nel tegame; ogni tanto si rompe l’amicizia, la speranza, o magari si rompe un legame.
Come aggiustiamo l’amore? Domanda il professore.
E gli allievi provano, inventano, formulando ipotesi e fantasie… in quell’ora magica, capita che le verità si travestano da bugie. Se non sapessi che è l’ora di Fantasia, direi che somiglia a un laboratorio di falegnameria.
Il giorno dopo il prof entra cantando, poi sottovoce grida: ora vi domando! Da dove comincia il tutto? Come si digerisce un lutto? Come si fa a cucinare la pace? Come scopri che cosa ti piace? Gli studenti ascoltano, e nessuno può rispondere prima di aver contato fino a piove.
Fino a piove? E che numero è?
Nessuno lo sa, dice il professore, è questa la specialità. Aiuto i ragazzi a disegnare mondi immaginari, futuribili scenari, universi pericolosi e mondi meravigliosi, a inventare soluzioni, a giocare con le domande, così ognuno di loro esce da qui un po’ più piccolo e un po’ più grande. A questo serve, dice lui, la fantasia. A immaginare diversa la vita: la tua, la mia. A vedersi nuovi, a disegnarsi più alti, a diventare capaci di piangere, a saltare senza salti, a saper perdonare gli altri, a nuotare sul divano, a essere vicini da lontano, a imparare ad avere paura, a pregare anche senza Dio, ad avere il coraggio di dire: io non sono solo io.
Ho incontrato i ragazzi, a lezione finita, e mi hanno detto: oggi abbiamo provato a svitare la vita! E dopo averla svitata, l’abbiamo guardata da vicino, giorno per giorno, istante per istante, e quando l’abbiamo riavvitata era più… più…
… era più?
Ma poi è suonata la campanella, e gli studenti sono volati via; anche nella scuola del futuro i ragazzi corrono nei corridoi, belli e fragili come gli eroi.
Il giorno dopo, sempre in sogno, ho assistito all’interrogazione: la cosa più sorprendente è che nell’ora di Fantasia il prof viene interrogato dallo studente!
Da dove arriva la fantasia? Gli ha domandato una ragazza vestita di blu. Lui, da vero filosofo, le ha detto: dimmelo tu. E lei ha risposto: dal fatto che la vita non è come vuoi tu, e così te la inventi. Il prof. di Fantasia le ha sorriso: non avrei saputo dirlo altrimenti. Voto: centoventi!
Come, centoventi?!
Eh, già. La Fantasia ha voti fantastici: alcuni sono colori, altri sono numeri a caso, altri sono lievi buffetti sul naso. Sul quaderno della ragazza blu c’era persino un voto che aveva la forma del fiore di loto. Era un voto profumato, e annusandolo… mi sono svegliato.
Che sogno, che scuola di matti, che follia… l’ora di Fantasia!? La Fantasia come materia! O forse la materia come fantasia, direbbe il professore.
La studierei per ore. Mi piacerebbe imparare a contare fino a piove. O magari proverei ad aggiustare l’amore, magari. O forse cercherei di trasformare i miei pensieri, quando si fanno troppo funesti.
E tu, all’ora di Fantasia, che cosa chiederesti?

Enrico Strobino

SE FOSSIMO A SCUOLA

Stamane mi sono svegliato con questo pensiero in testa.
E se fossimo a scuola?
Se per qualche misterioso motivo le scuole fossero rimasti gli unici luoghi sicuri, gli unici anfratti protetti, in cui il virus non avesse potuto entrare ed attaccare?
Se per un puro gioco del se, la scuola avesse potuto continuare ad esistere, ad accogliere, a riunire, davvero noi avremmo continuato a fare come se nulla accadesse fuori, come se nulla accadesse intorno, nel mondo reale, davvero avremmo continuato a fare le nostre “lezioni” e a dare i nostri “compiti” come se niente fosse?
Davvero avremmo continuato a entrare in prima A ognuno per conto suo, ognuno pensando alla “sua classroom”, andando avanti con il programma, come da libro di testo?
Perché è questo, mi pare, che sta accadendo.
Mitighiamo, mi sembra che stia accadendo soprattutto questo.
La scuola che difende se stessa, che difende la sua parte meno creativa, la sua identità più trasmissiva, mascherata dall’uso di tecnologie che assolda come scudi che le consentono di rimanere in vita, costi quel che costi.
Mi rattrista questa scuola, perché la scuola è da quasi quarant’anni la mia seconda casa.
Sì, perché faccio di mestiere l’insegnante, che prima e soprattutto dovrebbe essere educatore.
Ma allora davvero dobbiamo continuare sulla strada imboccata?
Davvero dobbiamo passare le giornate a imparare ad usare “le nuove tecnologie” per salvare i compiti dei nostri ragazzi e delle nostre ragazze?
Davvero dobbiamo pensare a questo inesistente “programma”?
Possiamo cambiare programma?
Penso che la scuola in questo momento dovrebbe cercare le strade per “prendersi cura” dei propri figli, dei nostri figli, che vuol dire osservarli, ascoltarli, accompagnarli.
Dovrebbe farlo, certo, usando le tecnologie.
Ma le tecnologie non sono neutre: possono essere usate per diverse finalità.
La scuola dovrebbe in questo momento saper essere più che saper fare, dovrebbe ripensare il suo lessico, le sue parole chiave, cercandole in una visione pedagogica che ponga al centro le visioni della crisi e del possibile.
Soffro ogni giorno nel vedere questa proliferazione di didattica e di didattiche: è di pedagogia che abbiamo bisogno!
Come la scuola può affrontare la paura?
Sì perché i nostri figli e le nostre figlie in casa oggi respirano paura, la paura di noi genitori, dei nonni, dei telegiornali, della televisione.
Andrà tutto bene, diciamolo e disegniamolo certo, esponiamolo alle nostre finestre e condividiamolo nelle nostre bacheche virtuali; ma vogliamo anche pensare che nulla sarà come prima? Possiamo provare ad immaginare a come sarà il mondo dopo? Cosa sarà peggio? Cosa sarà meglio? Oh sì, certo, perché sono sicuro che molte cose saranno anche meglio. Ma quali ad esempio?
Andrà tutto bene, sicuramente, ma vogliamo parlare un poco di morte? Perché stanno morendo a migliaia là fuori. Lo so che succedeva anche prima, in altri posti del mondo e che continua a succedere per cento altre ragioni che non sono il virus, ma i nostri figli e le nostre figlie lo vivono sulla loro pelle solo ora, lo respirano ora, ogni santo giorno.
E la scuola cosa fa? Continua a restare chiusa, a fare video lezioni in cui si va avanti a studiare Carlo Magno e a esercitarsi con le espressioni di primo grado.
Possiamo invece chiederci come le tecnologie possono aiutarci a “prenderci cura” di figli e figlie?
Da insegnante di Musica da qualche giorno mi chiedo quale possa essere l’effetto di vivere in una città in cui le impronte sonore sono diventate le sirene delle ambulanze, trasformate da suono eccezionale a paesaggio sonoro spaventosamente familiare. Non lo so, vivo in collina e il mio paesaggio sonoro non è cambiato quasi per nulla.
Se fossimo a scuola, invece, quel suono continuerebbe ad entrare, volenti o nolenti, scavalcherebbe i recinti, trapasserebbe le mura, i registri, i computer; e disturberebbe, in un modo assordante, tutto ciò che avremmo voluto fare, seguendo il nostro libro di testo.
E ci cambierebbe.

Mirio Cosottini

LA DIDATTICA IN ASSENZA

La didattica a distanza è una forma di didattica in assenza, in particolare il rapporto fra docente e alunno non è mediato dal corpo e dalla sua fisicità. È di questa assenza che dobbiamo discutere, della sua possibilità e della sua eventuale efficacia pedagogica. E’ possibile una didattica a distanza? Cosa significa annullare l’interazione corporea nei processi di apprendimento?
Ogni apprendimento si concretizza in una data situazione emotiva. La mancanza di interazione corporea inibisce l’instaurarsi di una relazione emotiva fra docente e alunno. Il corpo è il primo veicolo di stati d’animo e di emozioni, esse si rendono visibili nel corpo e si manifestano poiché “prendono corpo” appunto. Il delinearsi di una data tonalità emotiva in cui coltivare curiosità e motivazione nell’alunno diventa difficile se viene meno la fisicità, elemento nel quale le pratiche e i significati si racchiudono (come posso imparare ad attaccare un suono con veemenza se non vedo il respiro e il movimento del maestro che incarna con il corpo e con i gesti il significato di “veemenza”?). Domandiamoci se inviare un emoticon tramite un sistema di messaggistica sia sufficiente per creare un determinato clima emotivo nell’alunno. L’emoticon suggerisce uno stato d’animo, ne vuole essere la sintesi descrittiva (stereotipata per altro), ma non induce o non inclina l’alunno verso quella tonalità emotiva. Entrare in un’emozione è un processo che richiede un accompagnamento, il tempo affinché docente e alunno vi si trovino dentro, non scatta alla vista di un emoticon.
Ogni apprendimento è un comprendere. Ma la comprensione è un afferrare la rete di sensi che è il mondo, non è semplicemente un fatto mentale, ma un’incessante apertura e chiusura di possibili sensi che si costituiscono fra soggetto e mondo. Essere nel mondo è essere in relazione con gli altri. In che senso? Non semplicemente un comunicare pensieri (in forma verbale o visiva), ma un avere a che fare con le cose del mondo, lavorarle, trasformarle, ottenerle. Un gruppo di musicisti lavora un brano, non lo esegue semplicemente, e nell’interazione prossimale dei corpi vi è la comunicazione, la condivisione e la pratica dei significati. Così il docente con l’alunno deve negoziare i significati, viverli assieme, metterli in gioco, trasformarli. La distanza indebolisce la valutazione formativa, ovvero l’atteggiamento di cura che il docente ripone nell’agire dell’alunno, nelle sue scelte, nelle sue reazioni emotive. Il docente è con l’alunno nel processo di apprendimento, non è altrove, in qualunque senso lo si intenda; e in ciascuno di questi sensi l’altrove è un indebolire la relazione educativa. E’ chiaro che l’essere con non vuol dire necessariamente essere insieme fisicamente, o condividere lo stesso spazio fisico. Nella relazione educativa però la spazialità è l’originaria condizione dello stare assieme e di conseguenza dell’apprendere assieme. Vedere, toccare, ascoltare, elementi legati indissolubilmente alla fisicità e alla fisicità dell’altro. La relazione educativa implica una comprensione del mondo e allo stesso tempo una relazione con gli altri: «Avere una comprensione del mondo implica, strutturalmente, essere in relazione con gli altri. Non è possibile comprendere l’utilizzabilità degli oggetti senza essere già in relazione con gli altri, senza vedere come gli altri usano qualcosa, e quindi non si può essere nel mondo senza essere, nello stesso tempo, con gli altri». E più oltre «Non è la comunicazione a rendere possibile l’essere insieme e la trasmissione dei significati» (V. Costa, Fenomenologia dell’educazione e della formazione, Editrice la Scuola, 2015). In sostanza, il significato di un oggetto non è un semplice contenuto mentale ma un insieme di rimandi di senso che non può prescindere dalla praticità dell’esperienza e non può essere semplicemente “veicolato” o comunicato, qualsiasi mezzo e sistema di comunicazione si prenda in considerazione, per essere appreso.
Fare didattica a distanza è in ogni caso un indebolire la relazione educativa, in alcuni casi un tentativo di mitigare la mancanza di fisicità per mezzo di simulazioni (come nel caso dell’utilizzo della video-lezione live o della video-lezione registrata) e dunque un’implicita ammissione di impotenza della didattica a distanza stessa. A questo riguardo sarebbe interessante riflettere sui pericoli insiti in una relazione educativa basata sulla simulazione (un professore a video, un professore virtuale, un professore computer, ecc.), come ad esempio la dissimulazione, o la finzione emotiva che un alunno potrebbe coltivare in un tale contesto.

Il senso dell’emergenza

Paradosso o impotenza, la didattica dell’assenza è ciò che dobbiamo praticare. Che si utilizzi un messaggio di testo via email oppure un’immagine, o una videolezione, ciò che arriva all’alunno è il riverbero di un’attività, di una relazione, di un pensiero. In questo contesto i ragazzi devono lavorare ma dobbiamo anche farli lavorare sul SENSO di questa esperienza. Proviamo a suscitare in loro una serie di domande, come ad esempio qual è l’atteggiamento che un alunno prova di fronte a una videolezione, cos’è che (al di là del contenuto trasmesso) la rende un’esperienza educativa; come si modifica il passare del tempo rispetto alla normale esperienza scolastica; cosa significa non avere accanto i compagni di classe? Quali sono (nella didattica in presenza) i momenti in cui ti relazioni con i compagni e perché? Questi momenti erano indispensabili alla luce di questa emergenza? Ti mancano? Perché? Cosa significa non avere l’insegnante accanto con cui scambiare uno sguardo, interagire, chiedere consiglio? Non si tratta di drammatizzare una situazione, di appesantire la giornata dei nostri ragazzi, ma di suscitare attraverso le discipline scolastiche l’urgenza di porsi domande che vanno a modificare, a selezionare, a migliorare, la comprensione e l’esperienza educativa attuale. Facciamolo con leggerezza, ma proviamoci. In questo momento possiamo tutti riflettere su ciò che sta accadendo, anche per poco tempo, facciamo un disegno che fotografa uno stato d’animo, guardiamo intorno a noi e fermiamoci a contemplare ciò che ci colpisce, ascoltiamo i suoni che ci circondano e cogliamo le loro caratteristiche, il paesaggio sonoro in cui siamo immersi adesso. Quali gesti caratterizzano la nostra giornata, sono gli stessi di sempre, oppure ne facciamo altri. Come sto vivendo la mia abitazione ora che devo passarci la gran parte del tempo, c’è un luogo dove posso rifugiarmi e ascoltare il silenzio? Queste domande sono importanti per i nostri ragazzi ma lo sono anche per noi, insegnanti e alunni che devono temporaneamente ridefinire le loro abitudini e convinzioni. Cerchiamo di essere, noi e i ragazzi, creativi. La creatività cura la solitudine e l’inazione, apre al mondo e alle sue possibilità, riporta la vita al vivere, ovvero al SENSO di questa emergenza.

Enrico Strobino

FAI UNA PROPOSTA!

“Eh si, facile criticare, allora fai una proposta!”
Questo il senso di alcune risposte al mio post di ieri.
È giusto, giustissimo, occorrono delle proposte, fatto salvo il fatto che criticare dall’interno significa quasi sempre fare autocritica, esercizio che trovo sempre molto utile.
Ed è anche vero che esiste l’altra faccia della luna, come molti commenti ieri hanno rivendicato, con forza e determinazione.  Anche questo è sicuramente vero!
L’ho pensato anche io durante la mattinata, a partire da una bella chiacchierata telefonica con la Dirigente della scuola frequentata da mia figlia (I.C. Andorno Micca, BI): quanta energia, quanto amore, quanto tirarsi su le maniche e mettere le mani in pasta, fra gli insegnanti che tirano e gli altri che tentano di stare al passo, altri ancora che arrancano ma cercano aiuto e piano piano arrivano anche loro, e ce la fanno. E quanta responsabilità a cercare di coordinare tutto questo, quanta fatica e quanti dubbi. E quanto ascolto.
E poi nel pomeriggio, quando mia figlia ha le prime due videolezioni con due professoresse: inglese alle due del pomeriggio e italiano alle sei.
Confesso, ho origliato: sì mi sono accostato qualche volta alla porta della sua cameretta e ho ascoltato le voci. Ed era bello.
Ho pensato che è importante in questo momento che si riascoltino le voci, che si rivedano i visi, non importa che lezione sia o se la maggior parte del tempo si passa a sistemare il collegamento, a imparare a disinnescare l’audio e altre diavolerie tecnologiche.
Le voci che escono dalla camera di Emma sono affettuose e attente, fra le altre ancora di più lo sono quelle delle professoresse: grazie colleghe perché lo sappiamo bene, è dalla voce che inizia il “prendersi cura”. E Emma era contenta.
Ed è anche vero ciò che mi fa notare il mio amico Roberto Agostini: le “storture” didattiche che emergono ora non sono dovute alla DAD (Didattica a distanza): esistevano anche prima, nella DDV (Didattica della vicinanza)!
Ma allora, questa proposta?
Non è una mia idea, la rubo ad un amico musicista e pedagogista, Mirio Cosottini, che sempre nel pomeriggio di ieri ho avuto il piacere di leggere (vedi il suo intervento completo sopra).

Paradosso o impotenza, la didattica dell’assenza è ciò che dobbiamo praticare. Che si utilizzi un messaggio di testo via email oppure un’immagine, o una videolezione, ciò che arriva all’alunno è il riverbero di un’attività, di una relazione, di un pensiero. In questo contesto i ragazzi devono lavorare ma dobbiamo anche farli lavorare sul SENSO di questa esperienza. Proviamo a suscitare in loro una serie di domande, come ad esempio qual è l’atteggiamento che un alunno prova di fronte a una videolezione, cos’è che (al di là del contenuto trasmesso) la rende un’esperienza educativa; come si modifica il passare del tempo rispetto alla normale esperienza scolastica; cosa significa non avere accanto i compagni di classe? Quali sono (nella didattica in presenza) i momenti in cui ti relazioni con i compagni e perché? Questi momenti erano indispensabili alla luce di questa emergenza? Ti mancano? Perché? Cosa significa non avere l’insegnante accanto con cui scambiare uno sguardo, interagire, chiedere consiglio? Non si tratta di drammatizzare una situazione, di appesantire la giornata dei nostri ragazzi, ma di suscitare attraverso le discipline scolastiche l’urgenza di porsi domande che vanno a modificare, a selezionare, a migliorare, la comprensione e l’esperienza educativa attuale. Facciamolo con leggerezza, ma proviamoci. In questo momento possiamo tutti riflettere su ciò che sta accadendo, anche per poco tempo, facciamo un disegno che fotografa uno stato d’animo, guardiamo intorno a noi e fermiamoci a contemplare ciò che ci colpisce, ascoltiamo i suoni che ci circondano e cogliamo le loro caratteristiche, il paesaggio sonoro in cui siamo immersi adesso. Quali gesti caratterizzano la nostra giornata, sono gli stessi di sempre, oppure ne facciamo altri. Come sto vivendo la mia abitazione ora che devo passarci la gran parte del tempo, c’è un luogo dove posso rifugiarmi e ascoltare il silenzio? Queste domande sono importanti per i nostri ragazzi ma lo sono anche per noi, insegnanti e alunni che devono temporaneamente ridefinire le loro abitudini e convinzioni. Cerchiamo di essere, noi e i ragazzi, creativi. La creatività cura la solitudine e l’inazione, apre al mondo e alle sue possibilità, riporta la vita al vivere, ovvero al SENSO di questa emergenza”.

Ecco, usiamo (anche) i collegamenti in questa direzione “metacognitiva” (ma anche affettiva, calda, riflessiva, autovalutativa): mi pare una bellissima proposta!
Magari registriamo la discussione fra un’insegnante e i ragazzi, anche solo l’audio, anzi, consiglio di registrare esclusivamente l’audio. Poi questo documento potrebbe anche girare: il dibattito di una classe fatto ascoltare ad un’altra classe, come in una sorta di RADIO SCUOLA! In questo modo le varie “classroom” non sarebbero più mute ma si riempirebbero anche di voci.
E se facessimo veramente una RADIO?
Ma qui mi fermo, questa è già un’altra idea.
E anche questa non è mia ma di Matteo Frasca e dell’Associazione Matura Infanzia e Circolo Gianni Rodari, e già sperimentato a Roma e in altre parti d’Italia.

Felicia Leone

In questi giorni di isolamento,
in cui siamo costretti a rimanere a casa,
non mi preoccupo se i miei figli
non svolgono i compiti assegnati, non mi importa della scuola.

Non mi affanno a scaricare loro
le schede online, le letture, i ripassi,
l’elenco delle operazioni.

Non aspetto che gli insegnanti si attivino
in lezioni a distanza, mi è indifferente,
anche se quest’anno i programmi scolastici
probabilmente si fermeranno a febbraio.

Non mi rammarico di quanto i miei figli possano rimanere indietro.
Indietro a che cosa?
È un tempo questo che gli insegnerà altro,
ciò che non troveranno in nessun libro.

Impareranno a confrontarsi con la vita, quella vera.
A seguire l’unico programma che non è mai lo stesso,
che è pieno di fatti imprevedibili, di interrogazioni che ci trovano impreparati,
di lezioni nuove.

Impareranno il rispetto di se stessi e degli altri,
che significa adattarsi a nuove regole e rimanere a casa.
A gioire del calore e della vicinanza delle persone care,
perché per molti, ora, anche questo non è scontato.

Impareranno ad adattarsi a queste ore dilatate,
a confrontarsi con la noia,
che riempiranno delle loro riflessioni.

Sapranno che c’è chi è solo, davvero, e questa solitudine
si aggiunge a quella che ha da tempo nel cuore.
Sapranno di chi non ha una casa,
un posto in cui sentirsi al sicuro.

Impareranno a godere del silenzio di queste stanze,
che è solo quiete,
tanto lontano dal silenzio di angoscia
di una stanza d’ospedale.

Impareranno ad apprezzare quello che hanno,
ora che non ci sono nuovi giochi o vestiti
e cose nuove da comprare.

Impareranno ad accontentarsi di mangiare quello che c’è,
per non sprecare, perché bisogna uscire poco,
perché c’è chi neanche ha la forza di andare a fare la spesa
e non ha nessuno da chiamare.

Impareranno a farsi crescere dentro la forza
di dire “andrà tutto bene”,
quando tutto nel mondo sembra gridare il contrario.

Impareranno a farsi adulti,
ad accogliere una maturità
che non viene dallo svolgere bene le operazioni,
da come si scrive, come si legge, come si pronuncia o si riassume.
A studiare una lezione che dice che la vita, a volte, si blocca,
si rivolta su se stessa e non ha più nome.

Impareranno a capire che c’è un momento per fermarsi,
prendere il respiro, raccogliere le forze,
e soffiare sulla speranza, forte,
come sui denti di leone.

(il testo di Felicia Leone è tratto dal suo blog: https://profumodifigli.com/il-coronavirus-i-bambini-e-la-scuola/)

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