Alcuni punti di vista
Obiettivo di questo studio è avvicinarci al tema dell’improvvisazione.
Non è però un’introduzione per principianti, come la parola avvicinarci lascerebbe pensare, ma neanche il suo contrario, un approfondimento per esperti. Intendo: entrare in relazione con essa, cercare di capirla senza snaturarla. Essa è talmente grande che i mezzi della musicologia, della storia e dell’analisi musicale non mi paiono sufficienti, perlomeno non mi aiutano a capire ciò che sento quando mi dispongo a fare musica improvvisata, da solo, con altri, in pubblico, non importa a che livello.
Non è che per avvicinarci all’I., ci si debba invece allontanare? È un paradosso: allontanarsi per potersi avvicinare. Eppure, fa parte della nostra esperienza normale: se vogliamo osservare un quadro lo facciamo a pochi centimetri dalla tela o cerchiamo la giusta distanza che ci restituisce l’intero? Da vicino vedremo il rilievo della singola pennellata, il dettaglio. Non è che abbiamo bisogno di prendere distanza per poter scoprire qualcosa sull’I?
Forse abbiamo bisogno di rimpicciolirla, allontanandoci per poterla osservare. Forse pure di rimpicciolirci noi, sempre allontanandoci e non sovrapponendoci ad essa e oscurandone la luce nel desiderio di possederla.
Esiste uno spazio tra l’oggetto I e tutto ciò che è genere, storia, analisi, didattica dell’I, grandi musicisti, incisioni, pattern, soluzioni armoniche, abbellimenti…? È questo uno spazio significativo? Ci dice qualcosa di più, oltre che sull’I, anche su tutta la musica?
Questo studio prende le mosse da esperienze dirette e da letture, le seconde fondamentalmente indotte dalle prime, cioè la riflessione indotta dall’esperienza. Mi ritengo fortunato di aver potuto impostare in questo modo la cosa, perché l’esperienza diretta, nel campo dell’improvvisazione in particolare, è preziosa ma anche rara.
Infatti, una delle sue caratteristiche sta nell’impossibilità ad essere veramente insegnata, proprio come non può essere insegnata un’esperienza diretta: può essere solo fatta. Questo nonostante ci siano giustamente molti sforzi per farlo, quelli migliori dei quali si concretizzano nel creare le condizioni perché essa si sviluppi, nel costruirne i prerequisiti. Molti testi riconoscono onestamente questo limite, in genere nelle ultime pagine, negli ultimi consigli prima di congedarsi, e giustamente lavorano su tutto ciò che è necessario per poterla praticare: tecnica strumentale, ascolto di modelli, conoscenze armoniche, eccetera. Ma ciò che al fondo ultimo è implicato profondamente con la propria personalità non può veramente essere insegnato, ma solo aiutato ad uscire fuori. L’esperienza di ciò l’abbiamo sempre quando nel campo dell’insegnamento proviamo a chiedere di improvvisare e verifichiamo come ogni persona abbia un suo modo di rapportarsi con questa pratica. Di fronte all’I. si è indifesi, essa mette a nudo noi stessi, è più difficile mentire.
Credo che tutta la musica, sia essa scritta o improvvisata, composta o no, tradizionale o d’avanguardia, abbia un profondo rapporto con noi stessi, ma nel rapporto personale con l’improvvisazione esso si rende molto più esplicito e appariscente. Ecco una delle caratteristiche dell’I, quella cioè di essere in grado di evidenziare un rapporto tra l’uomo e la musica altrimenti più nascosto e meno visibile. Troveremo ancora, più avanti, questa propensione della pratica improvvisativa ad evidenziare caratteristiche proprie di tutte la musica.
Le letture sono innanzitutto il libro di Derek Bailey sull’improvvisazione, un testo fondamentale perché scritto da chi ha fatto esperienze significative a livello estetico, ma ha anche sviluppato una riflessione ed un metodo, l’intervista e la riflessione biografica, per inquadrarla in un ambito ampio e non solo jazzistico. Poi le pubblicazioni più recenti di Davide Sparti, in particolare il suo ‘L’identità incompiuta’, infine l’avvicinamento alla Teoria dei Giochi, come tentativo di descrivere e cercare modelli dell’esperienza dell’improvvisazione con metodi scientifici mutuati dalle scienze sociali.
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