Premessa
In ambito accademico oggi è vivo il dibattito sullo sviluppo delle competenze trasversali, considerate obiettivi di apprendimento al pari delle competenze disciplinari. Si tratta di tutte quelle competenze che non sono legate a contenuti specifici (Pellerey, 2017), ma che fanno parte della vita quotidiana al di là della formazione o della professione. Questa esigenza è fortemente richiesta dal mondo del lavoro, che spesso lamenta l’ingresso negli ambienti professionali di studenti con un grande bagaglio disciplinare, ma difficoltà nell’autonomia e nelle relazioni. A mio avviso non dovrebbe essere solo questo il motore: si tratta di competenze generali (lavorare in gruppo, pensare criticamente, imparare ad imparare, sviluppare la creatività, risolvere problemi, ecc.) che vengono stimolate fin dalla prima infanzia e permettono a ciascuno di vivere meglio a livello intra e intersoggettivo, non solo sul luogo di lavoro. Al di là di questa nota sociale, dietro alla promozione delle soft skills in ambito universitario si celano alcuni problemi.
Quali competenze? Non esiste una classificazione unitaria e in letteratura vi sono moltissimi modelli, che hanno portato ad una molteplicità di definizioni e clusterizzazioni (Cinque 2016, Magnoler 2018). Questo ha come conseguenza una diversificazione degli approcci, che di per sé non è un problema (tutt’al più una ricchezza), ma che rende inevitabilmente più difficile la costruzione e la valutazione di percorsi efficaci.
Come si configurano? Partendo dal modello di Spencer&Spencer (2017), la competenza è un iceberg: vi è una piccola parte in superficie, composta da knowledge (conoscenza teorica) e skills (abilità pratica), che sono osservabili e valutabili con prove orali, scritte o tecnico-gestuali; c’è però anche tutto il sommerso, ovvero ciò che non è sempre osservabile e valutabile, definito behaviour (attitudine, comportamento), che di fatto è ciò che più rimane e perdura nella persona dopo la fase di verifica. Dunque, un approccio educativo e formativo efficace sulle competenze dovrebbe puntare molto al livello subacqueo, anche se è più complesso da attuare e da valutare.
Come svilupparle? La difficoltà nel progettare interventi efficaci si lega al fatto che le competenze trasversali sono per lo più “sommerse”, ovvero composte da comportamenti e atteggiamenti più che da conoscenze e abilità. La logica della prova orale, scritta o pratica, non può funzionare in questo senso, se non per sondare livelli superficiali. Occorre puntare all’esperienza e alla metariflessione, all’attività didattica strutturata come una prova in sé, una simulazione, una metafora della vita. Di fatto nulla di nuovo: è logico che si impara a lavorare in gruppo lavorando in gruppo; eppure, non è scontato che lo si possa fare, in un contesto dove si privilegia la valutazione del singolo; è logico che si impara ad argomentare confrontandosi dialetticamente, ma ciò non è possibile in un contesto dove si privilegia la lezione frontale. Ecco allora che occorre ripensare i contesti universitari, la conformazione delle aule, il numero di allievi per ciascun gruppo classe, i dispositivi pedagogici che vengono utilizzati, la modalità di progettazione, le strategie di valutazione. E per quest’ultimo punto sarebbe anche utile non avere la pretesa di misurare tutto, ma accettare l’ineffabile.
Mi scuso con i lettori per non aver ancora utilizzato il termine “musica”, che probabilmente è il motivo per cui hanno iniziato questa lettura, ci arrivo subito. Da quando ho iniziato a frequentare gli ambienti accademici ho cominciato a pensare alle attività sonore come possibili strategie di apprendimento per lavorare su quel livello sommerso di competenze. La musica e il suono toccano costantemente l’ineffabile (Jankelevitch, 1961), giocano con gli strati più profondi della coscienza e della persona, mettono in luce le dinamiche relazionali, permettono di lavorare contemporaneamente nella dimensione intra e intersoggettiva. Chi legge sa bene che queste affermazioni non sono una novità soprattutto nell’ambito dell’educazione musicale; oltre alla dimensione sonora, le attività proposte nei vari gradi della scuola di base hanno una funzione regolatrice nello sviluppo globale della persona e nelle dinamiche relazionali. Un’ampia letteratura in ambito psicopedagogico parla di come l’esperienza sonoro-musicale sia fondamentale nei percorsi educativi di base. Un’altrettanta ampia letteratura (la musicoterapia) tratta lo stesso tema nell’ambito terapeutico, proponendo in contesti clinici esperienze sonore che possono raggiungere i livelli esistenziali e sensoriali più nascosti e intimi.
Non ho trovato molto, invece, sui contesti di alta formazione. Qui la musica diventa a tutti gli effetti un contenuto disciplinare di cui si occupano gli specialisti del saper fare (i musicisti) e del sapere (i musicologi), spesso divisi fra loro, tra conservatori e università. Talvolta alcuni docenti utilizzano materiali musicali come supporto di carattere culturale ai contenuti (discipline umanistiche, o scientifiche legate ai fenomeni acustici), ma non ho mai sentito o letto di esperienze sonore che abbiano avuto come finalità un lavoro su competenze trasversali. In effetti, la formazione dei docenti universitari non ha nulla a che vedere con l’ambito musicale in termini metodologici, escludendo chi si occupa di musica come contenuto formativo. Diversamente, le maestre di scuola dell’infanzia e primaria hanno (o dovrebbero avere) alcune indicazioni di base sull’utilizzo della musica come strumento educativo. Eppure, le esperienze musicali colpiscono e coinvolgono chiunque, ed hanno un grande potenziale in termini di sviluppo delle competenze trasversali. Come si propongono attività sonoro-musicali in tutte le scuole di base, perché non utilizzare lo stesso approccio in alta formazione? Da questa domanda nasce questa piccola sperimentazione.
Il tema e il contesto: mediazione comunitaria tra pari
Il 29 e il 30 settembre 2021 a Genova si è tenuta la Fall school del progetto Erasmus+ aCT (Cooperative Transmediate, https://act.unige.it/). In questo progetto internazionale, durato più di due anni da ottobre 2019 a gennaio 2022, erano coinvolti tre atenei (Università degli studi di Genova, Universidad Complutense de Madrid, Instituto Politécnico de Bragança) e tre enti sociali dei rispettivi territori (Associazione San Marcellino Genova, Federación Red Artemisa Madrid, Centro Ciência Viva de Bragança); il progetto si è sviluppato attorno al tema della mediazione comunitaria tra pari, con differenti obiettivi:
- Creare occasioni di formazione condivisa tra i gruppi internazionali (eventi moltiplicatori) sul tema del progetto.
- Creare collaborazioni efficaci tra il mondo accademico e quello professionale.
- Effettuare una ricerca sociale (focus group nelle strutture degli enti coinvolti) e teorica (revisione bibliografica e dei programmi accademici) sul tema del progetto.
- Sviluppare un corso di formazione di 30 ore in modalità blended, con allegati materiali e istruzioni per i formatori.
- Analizzare e narrare il complesso processo di cooperazione tra gruppi internazionali.
Prima di descrivere il contesto specifico, cerco di definire meglio il tema del progetto. La mediazione comunitaria è una pratica multidisciplinare complessa, che ha varie componenti provenienti dall’ambito giuridico, psicologico, interlinguistico, interculturale e sociale. È nata in America Latina per aiutare i cittadini a gestire e trasformare le situazioni di conflitto. L’essenza di questa pratica è il concetto di comunità: porre l’attenzione degli attori sociali sui bisogni propri, degli altri, e sui bisogni collettivi del gruppo in cui si è inseriti; sviluppare un confronto dialogico e cercare la zona “di mezzo”, dove ciascuna delle parti si ritrova, a patto che lasci il proprio punto di partenza. Si è molto diffusa in Sud America e nei paesi iberici come alternativa alle controversie giudiziarie, e ancora poco in Italia, seppure con importanti esperienze. In occasione del progetto aCT, sulla scia delle esperienze italiane di Genova, Bollate e Cesena, abbiamo cercato di lavorare sul tema della mediazione comunitaria “tra pari”, ovvero una mediazione in cui non è presente la figura del mediatore come persona neutra esterna al conflitto; ciò è possibile quando una comunità è formata a mediare al suo interno, per trasformarle i conflitti in opportunità di incontro e cambiamento. Di fondo c’è una visione positiva del conflitto, come un passaggio per uscire dall’individualismo e trovare quella zona di “mezzo” indispensabile per costruire o rafforzare la comunità.
Da quando ho iniziato ad addentrarmi in questo tema, con letture ed esperienze dirette durante il progetto aCT, ho trovato che la musica fosse un’eccellente metafora della mediazione comunitaria tra pari. La musica è fatta da tensione e rilassamento, che sono strettamente interdipendenti: non possiamo percepirle se non associandole, come la consonanza non emerge se non in rapporto alla dissonanza, o come non esiste un valore assoluto di un suono, ma acquista significato in associazione ad un altro. Inoltre, la musica è relazione, è collaborazione, è unire voci diverse in un unico spazio e tempo. Ecco allora che la musica è una forma di mediazione, oppure che la mediazione è una forma di musica. Si dice “essere in accordo”, oppure “essere in armonia” per definire non solo l’assenza di conflitto o di visioni diverse, ma anche la presenza di posizioni diverse che si ricongiungono verso un obiettivo comune. Per citare un maestro ed amico “Al gioco della musica vince chi arriva insieme” (P. Cerlati).
Sono entrato a far parte di questo progetto prima come studente di pedagogia, poi dopo la laurea ho proseguito come consulente occupandomi principalmente degli aspetti didattici del corso di formazione sviluppato. La Fall school è stato uno degli eventi moltiplicatori, in cui abbiamo sperimentato il processo di mediazione comunitaria tra pari non solo come un contenuto disciplinare, ma come una strategia di apprendimento. L’idea di fatto matura dalle esperienze di peer education, ma con un focus più specifico sul senso comunitario e sulla trasformazione dei conflitti. Trattandosi di formazione tra pari, con la collega Jacqueline Benavides del corso di Scienze della comunicazione (DISFOR, UniGe), abbiamo preparato i contenuti e le attività delle due giornate di formazione rivolte a nostri pari, un gruppo di 12 studenti di tre diverse nazionalità e di differenti indirizzi formativi: pedagogia, comunicazione, psicologia, infermieristica, servizio sociale. L’obiettivo era approfondire il concetto di mediazione comunitaria sperimentando insieme varie attività cooperative e utilizzando alcuni dei materiali che avrebbero formato il corso di formazione pubblicato al termine del progetto (disponibile online https://act.unige.it/). Ho proposto di iniziare queste due giornate con un’esperienza pratica di mediazione comunitaria, utilizzando un dispositivo musicale. A questa attività sonora hanno partecipato anche 6 docenti accompagnatori (sempre di tre nazionalità diverse e di diverse aree disciplinari), che hanno presenziato all’inizio della sessione formativa, prima di occuparsi del coordinamento internazionale del progetto.
L’attività sonora: improvvisazione collettiva e autoriflessiva
Una caratteristica del progetto aCT è stato l’approccio interlinguistico. Non c’era una lingua veicolare stabilita, ciascuno poteva esprimersi nella propria lingua madre cercando di farsi capire al meglio con termini comuni tra le lingue, oppure utilizzando spagnolo o inglese in situazioni più specifiche, oppure facendosi aiutare dalle compagne e dai compagni con competenze plurilinguistiche. Dunque, ho impostato l’attività con brevi consegne in italiano, poi tradotte in spagnolo dalla mia collega per chi non avesse compreso, mentre i momenti di verbalizzazione si sono sviluppati in tre lingue. L’attività sonora ha evitato i problemi di incomprensione, muovendosi esclusivamente nel non verbale. Avevo portato piccoli strumenti a percussione e a corda (tamburi, tamburelli, maracas di vario tipo, cordofoni semplici, un mandolino, campane, ecc.), oggetti sonori di vari materiali e battenti dalle diverse forme. La prima consegna è stata molto semplice: scegliere il proprio strumento, posizionarsi a semicerchio all’interno dell’aula (classica aula universitaria ad anfiteatro con banchi in legno fissi) e dopo il segnale di partenza iniziare a suonare “insieme” agli altri.
La prima sessione di improvvisazione collettiva è durata 2’40” (primo file allegato), è iniziata con un rumore accidentale di una pentola con battente che è caduta da un banco (0’16) dando il la. Dopo una risata, il frammento ritmico della caduta è stato subito ripreso da qualcuno come eco (0’18-0’30); per il minuto successivo si è sviluppato un flusso omogeneo di suoni in cui emergono talvolta idee ritmiche non condivise (0’30-1’30); da queste idee qualcuno dei partecipanti ha iniziato a tentare una connessione ritmica, in particolare tra il mandolino e altre percussioni, ma senza riuscirci davvero (1’30-1’50); questa ricerca di sincronia ha portato ad un momento di sospensione, in cui la maggior parte dei partecipanti si è fermata e così quel flusso omogeneo ha cessato, per lasciar posto ad alcuni richiami (1’50-2’04); la ripresa del mandolino, con una gestualità esuberante, ha portato al finale in crescendo, dove vi era quasi una pulsazione comune (2’04-2’30); tuttavia la mancata sincronizzazione probabilmente non ha convinto, e il crescendo è sfumato rapidamente fino a qualche secondo di silenzio, per arrivare alla chiusura netta di un grosso battente su un banco (2’32).
Dopo l’esecuzione ho proposto un momento di verbalizzazione, chiedendo ai partecipanti di descrivere le sensazioni avvertite e le scelte compiute. Sono emersi vari aspetti e prospettive sugli eventi sonori che erano stati prodotti: non tutto il gruppo aveva partecipato allo stesso modo: chi aveva assunto in autonomia il ruolo di leader, talvolta coprendo il suono di altri (mandolino e percussioni più grandi), chi cercava di seguire il flusso, chi non riusciva ad orientarsi, chi si era invece concentrato sullo strumento. Dalla verbalizzazione è emerso come ci fosse disparità nel gruppo, e la mancata sincronizzazione ritmica era per molti il problema musicale principale. Si era manifestata quella che Remotti (2019) definisce la coesistenza, ovvero la presenza di una molteplicità di identità che non si relazionano tra loro in maniera cooperativa.
Abbiamo dunque cercato idee su come fosse possibile passare ad una forma musicale che esprimesse una convivenza, ovvero ad una molteplicità di identità che rimane eterogenea (ogni suono e ogni condotta è differente), con ruoli differenti più o meno definiti (leader, imitatore, accompagnatore, ecc.), ma che pensa e agisce in una prospettiva collettiva, comunitaria. Mi sono posto come facilitatore per far sì che fossero loro a trovare le soluzioni che ritenevano opportune; dalla discussione hanno elaborato insieme alcune indicazioni: ascoltarsi e lasciare spazio, sincronizzarsi su un tempo o un ritmo comune, equilibrare il livello di intensità, seguire le dinamiche collettive, ricopiare idee, cercare di percepire i compagni che si trovavano più lontani.
La seconda improvvisazione è durata 4’45” (secondo file allegato). L’attacco (0’05) di una bottiglia ha definito subito il tempo e un frammento ritmico, su cui si sono sovrapposti progressivamente e gradualmente altri strumenti; l’andamento era più lineare e ordinato, c’è stato più equilibrio di intensità, il mandolino (che nella prima improvvisazione aveva assunto una funzione di leader) ha lasciato molto spazio tra un suono e l’altro, permettendo di ascoltare le percussioni più leggere; dopo circa un minuto la pulsazione è andata via via a perdersi, il flusso sonoro è proseguito ma non vi era più un’idea comune; un bongo ha dunque rilanciato la pulsazione e il ritmo (1’45), portando ad un crescendo di dinamica collettiva e ad una sospensione (2’30). La pausa generale ha creato attesa e ha permesso ad una suonatrice di pentola di provare a strofinarne il fondo, cambiando completamente gesto e sonorità (2’35); questa idea ha catturato l’attenzione, ed è stata ripresa a livello sonoro dal bastone della pioggia e a livello gestuale dagli altri strumenti; lo strofinamento ha avuto un lungo sviluppo, di circa un minuto, fino a quando la suonatrice di pentola non ha proposto di intensificare, incrementando la velocità con una serie di colpi leggeri (3’40); forse l’idea della pioggia, o un gioco di accelerazione, hanno guidato la sezione finale, nuovamente in crescendo fino alla cesura, questa volta frazionata tra un battito di mani (4’32), uno di pentola (4’34) e uno di banco (4’36).
Dopo la fine della sessione vi è stato un nuovo momento di verbalizzazione, in cui sono emerse le differenti strategie che ciascuno ha adottato per suonare insieme, ma soprattutto la condivisione di uno stato affettivo comune e positivo. Non vi era bisogno di molte altre parole, l’esperienza era stata più intensa, piacevole e coinvolgente, e molti di questi aspetti rimanevano non descrivibili, in quel livello ineffabile.
Riflessioni
Non penso che la descrizione e l’ascolto dell’attività stupisca chi ha fatto esperienze di improvvisazione collettiva in ambito artistico o formativo. Non è stata un’esperienza originale, complessa, eccezionale, bensì una consueta sessione di improvvisazione collettiva fuori da contesti stilistici. È frequente trovare questo tipo di attività nei contesti di educazione musicale, di formazione alla didattica musicale, di musicoterapia, di sperimentazione artistica. I riferimenti teorici e pratici sono molti, e variano tra le avanguardie (Cage, Schafer, Schaeffer, Stockhausen, Berio, Glass), la trattatistica musicoterapeutica (Nordoff-Robbins, Benenzon, Scardovelli) e di pedagogia musicale (Paynter, Delalande, Vitali, Strobino, Vineis), giusto per citare qualche autore. Dunque, perché raccontarla?
Trovo che le novità siano il contesto e l’obiettivo: un ambiente universitario, un gruppo eterogeneo multilinguistico; i contenuti formativi non musicali, la finalità di fare un’esperienza “viva” di mediazione, le dinamiche relazionali condivise (semplici in teoria, complesse nella pratica), un’intensa attività metacognitiva all’interno del gruppo. I feedback “a caldo”, durante le ore successive sono stati positivi da parte dei partecipanti (docenti e studenti), e la connessione tra attività e obiettivo formativo era chiara a tutti. Inoltre, l’esperienza ha avuto una funzione di attivazione di un gruppo che si incontrava per la prima volta in presenza e che avrebbe dovuto svolgere due intense giornate di autoformazione. Penso che sia importante, anche in alta formazione, superare la barriera disciplinare, pensare la musica come una pratica sociale (Giannattasio, 1998) e non solo come un’esperienza artistica. La musica come un gioco, un altrove, che permette di lavorare in profondità sulle dinamiche intra e interpersonali. Certo emerge il problema della formazione dei formatori. Ma questa potrebbe essere una frontiera su cui i pedagogisti della musica possono sperimentarsi.
Concludo con una valutazione dell’attività richiesta a due voci esterne. Ho posto, alcuni mesi dopo, quattro domande ai coordinatori dell’equipe internazionale del progetto aCT, la Professoressa Mara Morelli, docente di lingua spagnola presso il DISFOR (UniGe), e Danilo De Luise, responsabile e coordinatore dell’Associazione San Marcellino, che erano presenti al momento dell’attività come osservatori.
Quali motivazioni o suggestioni ti hanno portato a voler inserire un intervento legato alla musica all’interno di momenti formativi sulla mediazione comunitaria?
Mara: In realtà, è stato il risultato di un processo di proposte, pensieri, suggestioni e riflessioni condivise all’interno dell’équipe italiana del progetto aCT su come inserire ‘linguaggi altri’, linguaggi non soltanto verbali, ma che potessero consentire la libera espressione di un singolo in un gruppo, in un percorso di sensibilizzazione alla mediazione comunitaria tra pari. Un linguaggio che andasse oltre le potenziali barriere di lingue diverse e che portasse, comunque, a un ‘fare’ e a un ascolto, di sé e reciproco.
Danilo: L’esperienza dei laboratori artistici di San Marcellino piano piano ha rivelato le grandi potenzialità dei linguaggi visivi, musicali ecc. Le competenze tue e le esperienze che hai proposto durante il progetto hanno, via via, fatto nascere l’idea dentro di noi.
Come hai vissuto l’esperienza?
Mara: In maniera piuttosto ‘defilata’, ma, forse proprio per questo, anche un po’ a disagio. Questo perché, pur essendo presente nella stessa aula in cui l’attività veniva svolta, non ne ho preso parte. Come coordinatrice e promotrice del progetto e dell’evento specifico, il mio ruolo era maggiormente di osservatrice/ascoltatrice, soprattutto la prima mattina che è quando l’attività è stata realizzata (se ben ricordo). In questo caso specifico, più che in passato e in altri momenti dello stesso evento, ho riflettuto sull’auspicabilità (o meno) di essere parte attiva di questi momenti e, forse, anche di essere presente o meno.
Danilo: Da osservatore e con grande interesse. Ma anche con quel ruolo ho provato a lasciare spazio alle emozioni che, via via, provavo.
Dopo aver vissuto l’esperienza, quali competenze pensi si possa lavorare attraverso questa tipologia di attività musicali?
Mara: Mediare a livello intersemiotico; competenze interpersonali (percepirsi sia singolarmente sia come parte di un gruppo, non solo come esecutrice di un compito, ma anche come creatrice di qualcosa di collettivo); competenze interculturali (nello specifico della scelta di un determinato oggetto/strumento e di un determinato suono prodotto, ma anche della disposizione nello spazio, ecc.); competenze di ascolto (scoprendosi più propensi ‘a fare a gara per avere l’ultima battuta/parola’ oppure a ricercare l’armonia, a riallacciarsi al suono precedente oppure ad attivare un nuovo percorso, staccandosi, separandosi o volendo ‘distanziarsi’ o ‘differenziarsi’ da quanto emesso dalle altre persone; competenze espressive (nel senso di libera espressione, emersione di emozioni e gestione delle stesse, possibilità di riformulare/riadeguare il proprio contributo); competenze di facilitazione/coordinamento all’interno del gruppo, per seguire il flusso o per interromperlo.
Danilo: Ascolto; interculturalità; organizzazione, coordinamento e governo dei processi; didattica; in generale tutte quelle che contemplano la relazione.
Dopo aver vissuto l’esperienza, quali competenze pensi siano necessarie a un formatore per poterla riprogettare e condurre?
Mara: Le stesse sopra indicate, oltre alla capacità di presentare l’attività il più naturalmente possibile, indicando, non solo nella musica, ma anche nel rumore, la possibilità di espressione.
Danilo: Ascolto; organizzazione, coordinamento e governo dei processi; se possibile interculturalità; creatività (anche se è a cavallo tra attitudine e competenze); inoltre, la curiosità è un’attitudine importante.
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