Spero che queste pagine contribuiscano a rendere evidente che è tanto utile per gli adulti essere in contatto con i bambini quanto per i bambini essere in contatto con gli adulti. Le cose sui bambini le impariamo soltanto dai bambini. La nostra comprensione di noi stessi è enormemente impoverita se non siamo in contatto con l’infanzia… Sospetto che i bambini abbiano una parte altrettanto importante nella crescita e nello sviluppo degli adulti come noi l’abbiamo nella loro.
R. D. Laing “Conversando con i miei bambini”
Tante storie ti voglio narrare, tante storie per giocare
e quando non ne so più, me le racconti tu.
Le storie di una volta parlavano di fate,
di maghi, di streghe, di belle addormentate;
ma in giro per il mondo per chi le sa cercare
ci son tante storie nuove, ancora da inventare.
Sigla della trasmissione radio “Tante storie per giocare” di e con Gianni Rodari
-
Antefatto
L’antefatto con cui iniziare il racconto dietro il sipario, oltre il palco e oltre le quinte, oltre i camerini, dentro l’anticamera nella quale io e Nicola ci siamo incontrati in veste di coautori di questo viaggio radiofonico, è da ricercarsi nel momento in cui ho scoperto il significato di struffoletta, parola giocosa che non passa inosservata nella sua “onomatopeicità” e dove il quando è ancora più importante del cosa.
Nell’estate del 2018 avevo deciso di creare una sorta di audio-documentario del nostro viaggio in Alto Adige. Federica – durante una passeggiata in montagna – raccontò a me e al registratore il fatto che nella sua famiglia non si mangiasse mai pasta in bianco ma solo al sugo di pomodoro, qualsiasi ingrediente altro accompagnasse.
Da ragazzina, raccogliendo molte zucchine dall’orto di casa, la inventò lei in famiglia la “pasta in bianco”, cambiando un po’ le regole dei sacri condimenti della pasta in Ciociaria.
Rimasi colpito non solo dalla precisione di quel che veniva ricordato e narrato, ma da come sgorgavano le parole, le immagini chiare di quello che veniva nominato, il suono della risata di lei che raccontava, unito a quello dei piedi camminanti sul sentiero e a quello dell’ansimare dovuto al parlare mentre si percorre un falsopiano. Mi sembrava che il qui ed ora e il là, una volta fossero naturalmente uniti e congiunti, sia per chi narrava che per chi ascoltasse.
In quello stesso periodo insieme raccoglievamo le storie di nonna Linda (nonna ultranovantenne di Federica e bisnonna di Nicola) legate alle assurdità tragicomiche della guerra, come quando da bambina le capitava di sentire gli accenti dei soldati stranieri e cominciava a correre e a scappare non sapendo se fossero tedeschi, inglesi o americani.
Mi sorprendeva, nel dialetto ciociaro di una contadina che si ricorda bambina, la precisione delle azioni evocate, quel correre dalla paura contenuto nel correre della sua voce, l’incontro rassicurante con il suo papà dopo la corsa, l’esito felice nel sapere che si fossero rivelati soldati “buoni”, che volevano solo donare caramelle e cioccolata.
Tutto il racconto sembrava una “scenetta” da vedere ascoltando, dove l’epos era amalgamato da un ritmo così chiaro grazie al quale si riusciva a cogliere il senso di tutto, pur non comprendendo le singole parole.
Conversando ancora con Federica, ho capito che sia il suo racconto che quello di Linda potevano essere annoverate come “struffolette”, come le chiamavano nipote e nonna. Le “struffolette”, nella cultura ciociara, nell’accezione culinaria sono frittelle simili agli struffoli anche se più semplici ma, dentro un momento conviviale o comunitario, possono diventare anche frittellestorielle rimediate là per là in un momento di ascolto condiviso, arrangiate con ciò che si ha, senza recarsi al supermercato a comprare quel che manca o – nella seconda accezione – senza chiedere alla nostra memoria manovre accessorie prima dello stesso amarcord nel momento in cui si palesano, sapendo sempre dove, quando, come e cosa raccontare proprio mentre si racconta.
Avevo imparato che le struffolette non si preparano, ma avvengono.
2. L’odore di “altre” struffolette
Un anno dopo, nel giorno del mio quarantunesimo compleanno, nell’attimo stesso in cui ho visto la testa di Nicola dare fiducia al mondo luminoso, catapultandosi fuori dalla buia e rassicurante caverna di Federica, sono diventato papà.
La prima cosa che ho pensato è che non ci sarebbe stato altro tempo disposizione se non quello di dover diventare in fretta una persona seria, responsabile, attenta a tutto quello che in quaranta anni di vita avevo trascurato.
Mi sbagliavo.
Non che in parte non sia avvenuto, ma stavamo nascendo anche noi come genitori che diventano genitori, tra luci e tenebre. Generavamo e moltiplicavamo dubbi ed errori, tradendo ad ogni sguardo, movimento, suono di Nicola, la nostra presunta, seriosa integrità.
Eravamo invece disintegrati in tanti frammenti di specchio, dentro la sua e nostra nascita, la sua e le nostre infanzie, insieme alla nostra terribile, salvifica e indispensabile adultità, complesso stato esistenziale con cui convivere, rammendare, cucire e ricucire, fare i conti e sfruttare nelle eccedenze di meraviglia, durante tali metamorfosi.
Dunque, tra mille fatiche, era comunque aumentata in noi la voglia di giocare. Ci veniva anche a noi da ridere (e piangere) spesso, ad ogni improvviso accadimento tra noi e lui… ad ogni continua prima volta, perché certamente ci si dimentica, come adulti, come questa prima volta sia sempre reciproca, irripetibile, unica e doppia tra genitori e figli.
Decisi così io che bisognasse “giocare” al non far passare del tutto le prime volte, creando pian piano un archivio audio del reciproco viverci domandando, perché tutto potesse vibrare sempre in modo diverso, ad ogni ascolto per noi e per lui, rinfrangendo e riverberando la luce della prima volta, da non dimenticare, da riascoltare nel tempo e da far ascoltare a nostro figlio, a più riprese, a Nicola durante la sua crescita, a Nicola che diventa Nicola.
Ho utilizzato il registratore molto più che il video, accendendo/registrando, con più facilità, l’accadimento che accadeva: respiri, risa, pianti, movimenti, dialoghi, esplorazioni sonore, spostamenti in casa e all’aperto, di giorno e di notte, durante i pasti, in tutte le stanze, lungo le strade e i paesaggi… ma nulla di queste testimonianze ancora poteva dirsi… struffoletta.
Ne sentivo però l’odore, avvertivo il profumo di qualcosa che stava accadendo, qualcosa di familiare, seppure totalmente diverso.
3. Concepimento: dal buio alla luce
Nei suoi primi due anni, abbiamo trascorso tanto tempo insieme, complice da una parte il mio lavoro frastagliato ma più disponibile alle emergenze, dall’altra il primo e i successivi lockdown e le numerose quarantene dei Nidi con conseguenti e prolungate assenze dei bambini dai servizi.
Tale spaziotempo a disposizione, ci è servito a conoscerci con inattesa continuità, a capire come intenderci, cosa ci facesse ridere tanto, a inventare giochi di corpi sonori e voci in movimento, a lamentarci, ad ascoltare musica, leggere libri, inventare storie, dialogare attraverso la voce e gli altri corpi sonori, a discutere fra noi, a scoprire cosa entrambi detestassimo, quali strade e paesaggi percorrevamo più volentieri.
C’era sempre molto da “fare” insieme, dentro un ascolto che quando è autentico, si tramuta in una moltiplicazione di azioni, e di ricerche, che non mi impediscono di intravedere anche tra genitori e figli, un percorso di ricerca-azione, dimensione e campo di indagine che siamo soliti riservare alla didattica, alla scuola, o comunque a contesti educativi extra-familiari.
Il registratore spesso non entrava in questa scoperta, altre volte sì.
Dopo il compimento dei due anni di Nicola, mi capita una notte, dentro la scura caverna gestante dei miei pensieri, di ripensare dopo tempo alle struffolette.
Ripenso così alla tessitrice madre e alla tessitrice nonna che grazie al ricordo vivevano in quel momento la loro infanzia… immagino però un ribaltamento di prospettiva: penso alla voce bambina di Linda, a Linda che corre mentre sente i soldati parlare, alla stessa voce dei soldati, e poi a Federica che cucina, alla sinfonia domestica che ne poteva scaturire mentre parla con i suoi genitori, al suono dei piatti e delle stoviglie, alle zucchine che soffriggono… e mi emoziono: vorrei poterle sentire direttamente queste fonti sonore squarcia-tempo, che da lì arrivano qui.
Certo che questo in fondo avviene dalla notte dei tempi, ed è proprio questo che ci incanta, questo avviene grazie al racconto orale di chi conta e racconta, però come sarebbe bello anche quest’altro tipo di incanto sonoro, come quello che – secondo Trevor Cox, prefigurava Thomas Edison che:
come un mago tecnologico, sogna una macchina che non solo registri le voci del presente, ma possa tenere traccia anche dei suoni antichi. Secondo una credenza popolare dell’epoca, il suono una volta generatosi non scompariva mai completamente, piuttosto continuava a decrescere all’infinito. Il passato non era morto, era solo molto affievolito. Si trattava allora di inventare una macchina in grado di catturare il bisbiglio del tempo remoto esattamente come il telescopio rendeva visibile la luce antica delle stelle più lontane offrendo un’immagine del passato[1]
Pensando al materiale audio raccolto con Nicola e a quello che ancora potevamo vivere e registrare insieme, sgorgò il flusso di domande, dal buio verso la luce:
- Ma se questi accadimenti si registrassero nel momento in cui avvengono, senza dover passare necessariamente per il racconto, per la rapsodia bucata della memoria adulta?
- E se riguardassero non solo l’età scolare ma anche la prima infanzia?
- Se Nicola, come piccola persona-radio si palesasse attraverso il suo stesso paesaggio sonoro nei primi anni vita, raccontando in prima persona le invenzioni e le scoperte, prima e dopo la conquista della “parola”?
- Che ruolo avrei io? Come potrei davvero nascondermi dietro a lui?
- Come non pensarmi dentro queste “scene” se sono io che decido quando registrare, e se dunque Nicola interagisce con me, nelle tracce che lascia?
- Tra le tracce registrate, è già accaduto, posso già a cominciare selezionare queste scenette, questi scenari che ci includono insieme?
- Mi è capitato già di registrare la nostra relazione?
- A cosa sono stato e dovrò stare attento nelle prossime registrazioni?
- Quali cornici posso facilitare, senza forzare?
- Quando accendo il registratore e perché?
- Quali i teatri di voce a disposizione?
- Come poter non tradire la nostra capacità di grande ascolto reciproco dentro uno scenario estetico?
- Come rispettare Nicola?
- Come non lasciarci invadere dal rec/play?
Non credo che queste domande siano arrivate tutte in una notte, o forse sì: sta di fatto che adesso vi era qualcosa di più di un semplice odore: erano in gestazione le nostre struffolette.
Fine primo tempo
[1] R. Sacchettini, Parlare e ascoltare/Quella voce che ci rende umani