Musicheria. La rivista digitale di educazione al suono e alla musica

Community Music e/o Animazione Musicale

Esperienze e ricerche italiane da (ri)conoscere

Cerchiamo di affrontare qui il tema della Community Music, proponendo uno sguardo comparativo sull’importazione relativamente recente di questo termine in Italia (comunque a molti anni di distanza dal suo utilizzo in altri paesi, soprattutto di area anglofona), rilevando che moltissimi tratti ritenuti fondanti questa “pratica” coincidono con quelli proposti dall’Animazione Socioculturale, nella sua più specifica declinazione data dall’Animazione Musicale.

 

Il suono delle parole

Dichiariamo[1] quindi subito il nostro legame per la locuzione italiana, per una serie di ragioni che andremo via via a sostenere[2].
Claudio Mustacchi nel ricordare le vicissitudini della parola Animazione, cita una bella frase di Conrad:

Il potere del suono è sempre più forte di quello del significato. (Joseph Conrad)

Per poi proseguire:

Sembra quasi che l’elemento unificante di tutte le realtà dell’Animazione sia il suono del significante più che il significato. Chi inizia un discorso su di essa parte sempre da questo nome, dalle sue suggestive evocazioni etimologiche: dare vita, dare anima, mettere in movimento.
Le risonanze di questa parola rivelano una tensione, un bisogno di rappresentarsi a sé stessi e agli altri, che non coincide direttamente con l’elenco delle attività che vengono identificate sotto questo nome.
Un richiamo a qualcosa di vitale, un desiderio di vita. Un pressante appello alla qualità dell’esistenza, che assume ora dimensioni politiche, ora estetiche o relazionali.
È forse possibile approfondire i contenuti dell’Animazione senza partire dalla lista delle cose che vediamo chiamarsi in questa maniera. Prima ancora di essere una risposta essa cela una domanda. Esistono dei desideri soggiacenti che trovano soddisfazione in quell’immagine: il movimento della vita.
Chi risponde al suo appello è sensibile al richiamo di una pulsione che cerca di aggregare, di connettere, di diffondere e riconoscere, in contrasto con una tendenza soffocante e distruttiva, di cui si avverte la presenza, di cui si teme il dilagare[3].

L’idea di partenza è, come si è detto, che l’area della community music sia vicina per molti aspetti a ciò che in Italia si è denominata animazione musicale (termine che esamineremo compiutamente più avanti) [4]. In ogni caso, al di là della scelta del nome, ci pare importante situare storicamente le caratteristiche della Community Music (CM) facendo riferimento, appunto, anche agli orientamenti presenti nella storia italiana dell’animazione socioculturale e dell’animazione musicale[5], in linea con quanto afferma Higgins:

Cos’è la Community Music e quali sono le condizioni che le hanno permesso di crescere? Questa è una domanda importante perché il carattere della CM è frutto del passato, del presente e del futuro. Futuri contesti di community Music sono trasformazioni di precedenti realtà. Qualsiasi tentativo di identificare un insieme di pratiche come CM è scoraggiante; ci sono molte vie possibili per tenere conto di quello che potrebbe essere considerato la musica della comunità[6].

Il riferimento al passato consente di relativizzare e situare storicamente l’idea che considera la Community Music come “uno degli orientamenti più innovativi della pratica pedagogico-musicale, frutto di necessità speciali, legate alla sfera educativa, al contesto sociale e culturale, al bisogno di inclusione, di integrazione e di cambiamento sociale”[7].
Cercando di fornire qui un’immagine molto sintetica di cosa si intenda – per quanto traspare dalla letteratura esistente – con community music potremmo definire i seguenti parametri:

  • le esperienze/contesti/occasioni sono principalmente di tipo non-formale, in cui si propone una partecipazione musicale inclusiva, ospitale e, spesso, intergenerazionale;
  • l’esperienza è collettiva, coinvolgendo gruppi più o meno grandi e più o meno organizzati in attività di musica d’insieme;
  • a volte è presente una coprogettazione con i soggetti dell’esperienza;
  • l’esperienza è condotta da un facilitatore (denominato anche community musician)[8].

 

Le pratiche musicali specifiche utilizzate ruotano intorno all’esecuzione, all’improvvisazione, alla composizione collettiva e all’arrangiamento, che vanno a costituire anche l’arcipelago di competenze che caratterizzano il community musician, insieme a quelle extramusicali (capacità empatiche, competenze di leadership, di conduzione e monitoraggio del lavoro sia individuale che di gruppo, ecc…):

Tra le competenze richieste ai facilitatori, vanno considerate una spiccata sensibilità nel saper cogliere e nel sapersi adattare a diversi stili di apprendimento così come a differenze di tipo sociale, culturale, di età e di capacità; un senso di identità, che consente di relazionarsi in maniera efficace nonostante differenze di vario genere tra facilitatori e partecipanti o tra gli stessi partecipanti, puntando sugli elementi comuni per fondare un impegno condiviso; l’utilizzo di approcci pedagogici inclusivi., la capacità di identificare interessi e formulare obiettivi comuni; la capacità di coinvolgere tutti i partecipanti, sapendone riconoscere, al tempo stesso, le singolari identità culturali e musicali senza perdere di vista il risultato complessivo per la comunità; la riflessività, ossia la consapevolezza che nel formare si è anche oggetto di formazione; La capacità di mediare tra differenti soggetti e organizzazioni.[9]

Ciò che – per gli autori consultati – caratterizza questa pratica (la community music) e questo ruolo (il facilitatore) e che la differenzia dall’educazione musicale e dal ruolo di educatore (o insegnante) di musica, è il contesto: nel caso della CM ci si muove, infatti, in contesti di apprendimento per lo più non formali. Proprio in questo senso viene proposto il termine “comunità”.
È chiaro fin da subito che tale termine rimanda ad accezioni e a connotazioni anche molto diverse fra loro. Potremmo sinteticamente ricordarne qui tre:

  • Comunità geografica, in cui un gruppo condivide un’identità culturale legata ad un luogo e alla sua cultura (ad esempio quella di un paese);
  • Comunità di circostanza, in cui un gruppo ha qualcosa in comune pur non avendo scelto deliberatamente di esserne parte (ad esempio una casa di riposo, o una classe scolastica);
  • Comunità di interesse o di pratica, in cui un gruppo condivide volontariamente un insieme di valori, di obiettivi o altro (ad esempio un gruppo che ruota intorno ad interessi spirituali o a un genere musicale specifico)[10].

 

Ci pare che fra le tre accezioni di “comunità” la prima e la seconda trovino maggiore accoglienza nella ricognizione di esperienze esemplari, almeno sfogliando i libri pubblicati in Italia[11]. Riguardo alla terza accezione ci pare importante indicare anche alcuni stili specifici di CM che costituiscono il mondo delle Musiche in cerchio: Circle Singing, Drum Circle, e altre forme simili[12]. Questo tipo di pratiche, legate per lo più a singoli eventi, e quindi ad un’idea di comunità estemporanea, a singole circostanze appositamente create e partecipate, rispondono, tuttavia, in larga parte ai descrittori utilizzati per la CM[13].
Naturalmente l’analisi del termine comunità potrebbe essere molto più approfondita, cosa che non è possibile fare in questo contesto[14].
Occorre segnalare, inoltre, la presenza di un’area contigua, che è quella della Community Music Therapy (CoMT), che non è sempre facile distinguere dalla CM:

Può essere definita anche come musicoterapia “ricreativa”, “partecipativa” o “compartecipata”, o ancora una musicoterapia “di coinvolgimento”, “di condivisione” o “di solidarietà” volta […] a “incrementare le possibilità di azione” dell’individuo, ad incoraggiare la partecipazione, le relazioni e lo sviluppo del singolo tenendo in considerazione i suoi bisogni culturali e sociali, il suo essere inserito all’interno di uno specifico contesto con il quale quotidianamente interagisce.
Un’ulteriore possibilità è quella di definirla più semplicemente come una musicoterapia “di comunità” o “comunitaria”, dal momento che si impegna a condurre gli individui, attraverso un far musica insieme, ad una condivisione e ad uno stato di reciproca appartenenza sociale.
Noi, pur prendendo in considerazione la molteplicità terminologica con cui un simile approccio potrebbe essere calato nell’ambito italiano, abbiamo deciso di far riferimento alla definizione anglosassone di Community Music Therapy, mantenendo la centratura sul concetto attorno al quale si snoda questo nuovo modo di concepire la musicoterapia, cioè la comunità.
Potremmo dire che la Community Music Therapy è un luogo, una prospettiva teorica ed una pratica in cui la musica viene usata per unire il divario tra gli individui e le comunità creando uno spazio comune per un far musica e mostrare le abilità e il valore artistico e umano”[15].

Accettando la motivata scelta della terminologia, che nel passaggio dalla dimensione individuale, tradizionalmente attinente alla Musicoterapia, a quella collettiva accoglie il riferimento a “comunità”, oltre alle aree comuni con la CM sarebbe utile indicare più chiaramente anche le differenze e le specificità delle due pratiche. A volte pare che vengano declinate con o senza l’aggiunta del terapeutico a seconda di chi assume il ruolo di facilitatore: in questa prospettiva diventerebbe CoMT ogni pratica di CM realizzata da un musicoterapeuta. Leggendo il libro di Caneva e Mattiello ci pare, tuttavia, che siano i contesti ad essere proposti come tratto pertinente e dirimente: in senso generico, nei contesti “collettivi” in cui c’è difficoltà e/o disabilità, si ha la CoMT, in altri contesti si ha CM, mantenendo invece il termine “Musicoterapia” per interventi ancorati più a dimensioni relazionali individuali[16].
Anche il riferimento al contesto però a volte pare non essere quello che differenzia le due aree, come risulta da questo passaggio in cui CM e CoMT paiono nuovamente sovrapporsi:

[…] Quando si parla di Community Music s’intende un particolare orientamento pedagogico e didattico costruito sulle basi del concetto di uso della musica come mediatore sociale, in favore di soggetti che molto spesso fanno parte di categorie disagiate. Lo scopo è quello di portare benefici di diversa natura unendo e mettendo a confronto le persone, attraverso la partecipazione musicale attiva[17].

Rimane difficile comunque oggi individuare sempre e nettamente tali differenze; oggi anche la stessa Educazione Musicale (che come dicitura istituzionale non esiste più, ridotta nella scuola secondaria di primo grado a “Musica”) va in ogni caso pensata e progettata non tanto (o non solo) come intervento teso a informare, istruire e formare bambini e bambine alla musica, ma come proposta più globale rivolta alla formazione, all’inclusione, alla crescita e alla maturazione personale, collettiva ed ecologica. In questa prospettiva ci sentiamo di riaffermare con forza anche il termine “educazione”, da pensare e utilizzare sia nei contesti scolastici che extrascolastici[18].
Un tratto più specificamente pertinente potrebbe (o dovrebbe?) essere rappresentato dalla presenza, a monte di un progetto di CoMT, di un’equipe di operatori (musicoterapeuta, psicoterapeuta …) che “supervisioni” il progetto stesso, che ne sappia cogliere e valorizzare aspetti che risuonano anche sul livello personale/individuale, e che quindi crei il ponte fra il gruppo e le persone che lo costituiscono.
In generale ci sentiamo qui di sostenere una visione che definisce “terapeutica” non una qualsiasi attività sonoro/musicale che contribuisca alla promozione della salute, ad una buona qualità della vita, al “benessere” di un individuo o di un gruppo, ma un’esperienza in cui consapevolezza, conoscenza e trasformazione di sé avvengono all’interno di contesti stabili e percorsi specifici, non estemporanea ma di media/lunga durata, guidata da specialisti, in cui il suono/musica non sia visto come “oggetto magico” capace di agire “in sé” ma come elemento importante all’interno di una relazione ampia e polifonicamente complessa.

Un obiettivo condiviso da tutto l’arcipelago di pratiche che possono essere ascritte alla CM è proprio quello di promuovere comunità, inteso genericamente come senso di appartenenza e condivisione, di inclusione e coesione sociale, benessere, agio, ecc.
In generale la pratica centrale di ogni orientamento (CM o CoMT) è la Musica d’insieme.

La Community Music si inserisce nel panorama pedagogico musicale come strumento di rinnovamento attraverso un dialogo educativo democratico, a cui collaborano tutti i soggetti coinvolti, con l’abbattimento di ogni forma di divisione gerarchica e includendo tutti i membri attivi e protagonisti dell’azione musicale.
All’interno di tale modello, l’insegnante NON DIRIGE MA FACILITA con l’obiettivo di includere ogni partecipante, il quale possa esprimere le proprie abilità e si senta gratificato.
Quindi la Community Music può essere affiancata all’idea di “comunità educante” ma può anche farsi strumento per una pedagogia sociale volta a contribuire allo sforzo della comunità di allontanarsi dai loro vincoli culturali e locali, per accedere a dimensioni pubbliche e libere nel loro modo di agire.[19].

Leggiamo fra le righe un pericolo: sia la CM che la CoMT vengono viste come orientamenti che a volte si pongono come forze rinnovatrici della scuola, a volte si presentano invece come alternativa al modello pedagogico descritto come “tipicamente scolastico”. Questo porta a dire che nella CM “l’insegnante non dirige ma facilita…”. Ma l’insegnante non è un Direttore d’orchestra, non dirige, o almeno, non dovrebbe “dirigere” mai! Ogni buon insegnante è al tempo stesso un “facilitatore”, se vogliamo utilizzare questo termine, che tende ad includere, a promuovere comunità e così via.
Spostare al di fuori del campo educativo formale (la scuola) i suoi valori e le sue metodologie migliori, ascrivendole ad un nuovo campo che in quanto tale si pone come alternativo, comunque lo si denomini, fa sì che automaticamente si accetti un’idea di scuola vecchia e reazionaria in cui gli insegnanti “dirigono” o in cui

[…] la figura dell’insegnante è associata a un insegnamento teorico e tecnico della musica, conferendo importanza alla conoscenza e ricollegandosi all’idea di “cultura alta” e di istruzione “classica”. Adottando l’educazione musicale e seguendo questa prospettiva, l’insegnante eserciterebbe il controllo sociale opprimendo gli studenti e affermando una gerarchia educativa che non rispecchia le basi del modello della Community Music. In effetti, non si deve dimenticare che i community musician sono consapevoli della necessità di includere individui o gruppi svantaggiati, riconoscendo il valore della musica nel promuovere l’accettazione e la comprensione inter-sociale e interculturale […]. Come “abili leader musicali” i facilitatori sottolineano la partecipazione attiva, la sensibilità al contesto, le pari opportunità e l’impegno per la diversità nella pratica, cercando di stimolare esperienze musicali e rilevanti e accessibili sia nei contesti formali, che non formali e informali: l’ascolto, l’improvvisazione, l’invenzione e la performance sono i temi alla base della metodologia formativa, fondata sulla centralità del diritto e della capacità di fare, creare e godere della propria musica[20].

Vogliamo continuare a credere in una scuola in cui l’insegnante (anche di educazione musicale) abbia le caratteristiche descritte nella seconda parte di questo passo, che venga formato in questa direzione, e che non eserciti, al contrario, “il controllo sociale opprimendo gli studenti…”. Vogliamo continuare a sperare che non sia necessario uscire dalla scuola per vivere questo tipo di esperienza relazionale, creativa, inclusiva, solidale ed ecologica. La scuola è il contesto, o meglio, la comunità per antonomasia per lavorare su questi temi.
Se quindi è importante che nascano orientamenti fuori dalla scuola che la tengano sveglia, che la costringano a non chiudersi, appoggiandosi ai modelli più stantii e reazionari, ma che la inducano a trarre linfa dai modelli più innovativi, ricordiamo comunque che molti di questi hanno più di cinquant’anni.  Sono modelli, esperienze, storie e persone che ancora sono fertili e che ci indicano orientamenti pedagogici che già hanno dentro tutto quello che oggi ci propone la CM: solo per fare qualche nome pensiamo a Don Milani, a Lodi, a Rodari, o a Paynter, a Porena e a tantissimi altri verso cui è importante portare ri-conoscenza, nel senso ricordato recentemente da Lorenzoni[21].
In questa direzione l’Animazione socioculturale (dentro cui situiamo l’animazione musicale) rappresenta un’epoca storica importantissima dal punto di vista pedagogico, ed è sempre stata pensata non come una disciplina a sé stante ma come una pratica capace di attraversare e di vivificare i campi e le discipline (anche scolastiche).
D’altra parte, alcune descrizioni della CM confermano totalmente orientamenti della didattica musicale che ci paiono largamente acquisiti e che ormai potremmo definire “tradizionali”, a partire dai metodi “storici” (la metodologia Orff, tanto per citarne una fra molte) fino alle esperienze più recenti:

[la] CM con l’educazione musicale condivide un comun denominatore: il fare musica, ovvero prediligere un approccio pratico, prima che teorico, al linguaggio musicale che può essere utilizzato anche come strumento di espressione di sé attraverso il fare musica (Music-Making) e che, come visto in precedenza, stimola la musica e il suo essere prodotta, come uno strumento per favorire il legame sociale e la coesione del gruppo, il comportamento e la cooperazione.  […]
La possibilità che la pratica della Community Music possa influenzare positivamente l’idea di educazione musicale e di prassi di intervento sociale, divenendo una opportunità di crescita naturale per tutti, costituisce un potenziale importante per nuovi orientamenti educativi e pedagogici della musica stessa in primo luogo, e naturalmente della Community Music […].[22].

La domanda che nasce, quindi, è questa: è necessaria questa nuova denominazione per indicare competenze, ruoli, finalità che attengono ad altre aree e denominazioni già esistenti? Ponendo di rispondere affermativamente, è comunque importante andare a rivedere gli orientamenti dell’animazione nella storia della pedagogia italiana e tenerne conto.
Pensiamo inoltre che sia importante chiedersi in cosa la CM si differenzi da una buona Educazione Musicale[23]. e quando sia il caso di aggiungere l’aggettivo terapeutico:

Come sostiene Stige, Musicoterapia si definisce come lo studio e l’apprendimento dei rapporti tra musica e salute, condividendo una forte sinergia ed ambiti di conoscenza con la Community Music e la Community Music Therapy. La CM e la CoMT sono uniti dalla comune idea che la pratica musicale costituisca il mezzo principale per lavorare con le persone in situazioni di necessità, valorizzando ogni approccio che cerchi di recuperare la pratica della musica nella vita quotidiana come forza centrale della stessa cultura umana.[24].

Anche qui i tratti comuni sono chiari, mentre rimane più difficoltoso individuare le differenze.
I descrittori indicati ad esempio dal corso dell’Università della Basilicata per la CM si sovrappongono completamente a quelli che potremmo utilizzare per promuovere una buona idea di Educazione Musicale o, nell’extrascolastico, di Animazione Musicale:

  • fondarsi sull’attività di gruppo;
  • dare priorità alla musica pratica (Music Making);
  • privilegiare pratiche cooperative;
  • promuovere un uso ecologico delle nuove tecnologie;
  • privilegiare la Musica d’insieme come attività centrale;
  • prevedere la presenza di un “facilitatore”;
  • prendere in considerazione tutte le età della vita, all’interno di un’idea di formazione continua;
  • prendere in considerazione la musica come agente di cambiamento.[25].

 

L’Animazione si riferisce storicamente a un pensiero inclusivo, “che negozia la ragione dei sentimenti con i sentimenti della ragione”[26]. Risponde a una logica dell’ et…et, piuttosto che una centrata sull’aut…aut.
Oggi più che mai abbiamo bisogno di un pensiero che lega, che stringe relazioni, che mette in comunicazione creativamente logiche, mondi, punti di vista diversi e perfino opposti: un pensiero che sappia resistere alle visioni univoche, sicure, definitorie, basate sulla logica del se…allora, saldamente ancorata al raziocinio come ipotetica bandiera di scientificità. Questo pensiero appartiene all’Animazione da sempre: le arti che escono dai loro contesti accademici per abitare la vita quotidiana, cercando di trasformarla. Arti oltre il palcoscenico, come l’educazione oltre la scuola, cercando di assumere in modo ambivalente sia la dimensione del sociale che quella del mondo interiore.

 

Il pensiero dell’arte

Ci riferiamo quindi all’Animazione come territorio che storicamente si è posto come area di confine tra pedagogia ed estetica, o meglio, fra una certa idea della pedagogia e una certa idea dell’arte.
Dare spazio all’estetica significa fuggire una cultura sempre più orientata all’utile, che dimentica costantemente l’importanza del simbolico.
Ancora una citazione da Mustacchi:

Già con i surrealisti l’artista si rivolge a tutta l’umanità, non per farsi ammirare, per sottoporre agli sguardi del mondo la bellezza della propria opera, ma per invitare ogni singolo individuo alla scoperta delle proprie possibilità nei confronti della realtà, per tras-formare le potenzialità creative del genere umano. L’uomo d’arte ritiene di essere una sorta di avanguardia nell’esplorazione di un terreno che appartiene a ogni simile; si rivolge a un sociale – da cui non si sente separato – mettendo a disposizione le sue scoperte: le nuove capacità linguistiche e percettive che ha creato con il suo proprio lavoro. L’arte promuove l’elevazione dell’umanità, non un’astratta elevazione spirituale del pubblico, ma l’emancipazione dall’oppressione della realtà quotidiana e materiale”. D’altro canto, la pedagogia rimette in discussione sè stessa e i suoi rapporti di potere: si sforza di promuovere la centralità dell’allievo nel processo educativo, di aumentare le capacità di lettura e di critica del reale, di allargare l’universo linguistico e espressivo in un mondo in continua mutazione, fa i conti con classi sociali le cui difficili condizioni materiali e culturali richiedono un’educazione che non si limiti alla trasmissione del sapere. Il maestro non si fa più garante e trasmettitore di un ordine, ma propulsore delle potenzialità creative e di emancipazione.[27].

Chiamiamo quindi a testimoniare a favore di questo pensiero dell’arte, fatto proprio storicamente dalle pratiche dell’animazione, Marcell Duchamp e molti altri esponenti di movimenti artistici come il Dadaismo e il Surrealismo; Fluxus, Antonin Artaud e John Cage, il Living Teathre e gli happenings, Grotowsky, Staniswlasky, Brook, Gianni Rodari, Bruno Munari, Mario Lodi, Franco Passatore e mille altri.
Questi sono alcuni nomi che ringraziamo, a cui ci ispiriamo e per i quali proponiamo ri-conoscenza.
In questa prospettiva, al di là delle denominazioni, all’interno di ogni linguaggio vengono richieste attribuzioni di senso che sono prima di tutto atti percettivi, che hanno quindi a che fare con la sfera della sensorialità: conoscere attraverso il corpo-mente, i sensi, annusare il mondo, ascoltare il corporeo dei nostri pensieri, i pensieri e i piaceri del cuore, le passioni; imparare a meravigliarci, ad emozionarci, a stupirci, a ritrovare l’anima delle cose. Inseguire un rapporto con l’arte (e con il mondo) caratterizzato da una partecipazione attiva alla costruzione di sensi e significati.
Più che sul concetto di giudizio estetico poniamo l’accento sull’idea di esperienza estetica: mentre il primo comporta normalmente un’azione di confronto tra un oggetto artistico e un modello dato di bellezza, parlare di esperienza estetica significa invece guardare al vissuto, al rapporto dialettico che viene a crearsi tra un soggetto e un’opera, ai processi di costruzione attiva e di confronto di sensi e significati, in un gioco continuo tra quiete ed irrequietezza del senso.
Se l’esperienza estetica è quindi esperienza dell’anima, con animazione ci riferiamo a una pratica della sensibilità, una pratica che mira ad individuare la luce improvvisa che accende una cosa, un oggetto, un paesaggio, una musica; scintille dell’anima, che inseguono la sensuosità delle cose, la loro disponibilità a trasformarsi in oggetti dell’interpretazione.
Parlare di valore estetico – e di valore tout court – allora, in rapporto al concetto di esperienza prima descritto, significa fare riferimento alla capacità di aumentare, affinare, rendere più intensa questa stessa esperienza.
Potremmo dire, come ci indicano Bertolini e Dallari, che un oggetto, o meglio, un’esperienza è tanto più valida esteticamente quanto più è capace di promuovere:

  • percorsi verso la novità, l’originalità, l’apertura dei pensieri, contro la ripetitività, la routine, la banalità;
  • l’appropriazione attiva da parte dei fruitori, sia pratica che teorica, contro una comunicazione che stimola una ricezione passiva;
  • emozioni e stupore capaci di costituire punti di partenza verso nuovi equilibri del pensiero, individuali e di gruppo, contro un uso banale e superficiale di semplici meccanismi di seduzione[28].

 

Anima Mundi

Questo sguardo meravigliato sul mondo, la sensibilizzazione verso i particolari, diviene, nella prospettiva di James Hillman, progetto terapeutico e politico nei confronti dell’anima mundi:

Continuiamo a restringere la psicopatologia alla persona umana, e dunque a sostenere che la psiche riguarda ontologicamente soltanto il soggetto umano. La psicoterapia analitica continua a sostenere che se la natura o la cultura appaiono malate, ciò dipende dalle azioni dell’uomo: la causa siamo noi. Dunque curiamo prima l’uomo: tutti in analisi – architetti, politici, insegnanti, uomini d’affari – e allora il mondo andrà meglio.
Questo non ha funzionato, non può funzionare, perché il modello è sbagliato. Lascia l’anima fuori del mondo – le cose sono prive di anima e l’uomo deve sobbarcarsi tutto il peso dell’anima, rianimando con il suo soffio proiettivo ciò che la teoria dichiara, per definizione, morto[29].

Attivare la nostra sensibilità, la nostra immaginazione, le nostre emozioni, significa al tempo stesso essere in sintonia con l’anima del mondo, prendersene cura. E questo è il compito specifico dell’animazione. Al contrario, una diffusa insensibilità estetica ci anestetizza non soltanto nei confronti della banalità dilagante ma anche rispetto al senso dell’ingiustizia, dell’insulto, riducendo sempre più la nostra capacità di indignazione. Tutto ciò che è grande, enorme, globale e veloce, conduce verso un’an-estesia della nostra sensibilità nei confronti del mondo. Al contrario, un mondo di eventi particolari, “che si fanno notare per la loro ciascunità[30], non può che essere un mondo che procede più lentamente, che passeggia invece che correre, che sa perdere tempo. “La risposta estetica è azione politica”[31].

Allora ci rendiamo conto di come ciò che la psicologia è stata costretta a chiamare «proiezione» altro non sia che «animazione»: questo è quella cosa che, spontaneamente, prende vita, arresta la nostra attenzione, ci attira a sé. La luce improvvisa che accende una cosa, tuttavia, non dipende dalle sue proporzioni formali, da qualità estetiche che la rendono «bella», bensì dai movimenti dell’anima mundi che anima le proprie immagini e tocca la nostra immaginazione. Si crea una corrispondenza o una fusione tra l’anima di quella cosa e la nostra[32].

Certamente c’è una componente dell’animazione che ha a che fare con il prendersi cura (di noi, degli altri, del mondo, ecc…).
Ancorare la pratica pedagogica al pensiero del corpo, dando molta importanza agli aspetti relazionali, alle dimensioni del piacere e del desiderio, al mondo interiore e alle dinamiche collettive, prestare attenzione a tutto ciò significa prendersene cura. Si ha un processo di cura quando si cercano avvicinamenti, luoghi di incontro, riempimenti, quando si cerca di colmare separazioni del pensiero, del corpo, delle culture. In questo senso può darsi un territorio comune con la musicoterapia. L’animazione è una pratica che attraversa le discipline, l’abbiamo detto, quindi incontra certamente anche la musicoterapia, mantenendo le debite distinzioni in quanto a contesti, obiettivi e metodi. Questo non ci dispiace affatto. Se poi tutto questo oggi si vuole chiamare Community Music può andar bene, a patto che si riconoscano e si valorizzino le esperienze, le azioni e le ricerche realizzate in questi ultimi trent’anni anche nel nostro paese.

 

Animazione Musicale

La parola animazione, come abbiamo detto, può emanare profumi diversi, è soggetta a molti usi secondo i contesti, mette in movimento una serie di pensieri, spesso i più vari, che sottintendono valori, finalità, pratiche e tecniche anche molto lontane. Parlare di animazione sociale e culturale restringe il campo, allontanando i paesaggi tipici dei villaggi turistici per condurci dentro ai territori dell’educazione.
Ci pare che l’idea di animazione – “musicale” nel nostro caso – possa essere ancora oggi utile per individuare all’interno delle varie mappe educative alcune trame, alcuni percorsi che interconnettono quell’arcipelago, che individuano alcuni stili di lavoro, ma soprattutto di pensiero.
Quest’idea più che vivere autonomamente in una professione, può attraversare e orientare quelle già esistenti, in un’ottica trasversale. In questo senso l’animazione musicale non è una disciplina, indica piuttosto una pratica sociale e culturale che intende incontrare le discipline, i campi di esperienza, aprendoli, mettendoli in contatto, ripensandoli; una pratica che costruisce ponti e non muri.
Ci pare che la specificità di un’idea di Animazione Musicale orientata all’educazione possa anche oggi riconoscersi in ciò che abbiamo scritto molti anni fa, ovvero in

[…] una concezione centrata su aspetti ludico-creativi, in cui rientra storicamente la nostra esperienza musicale, e su una centrata sulla crescita e il cambiamento sociale. È comunque utile rilevare come tecniche e modalità espressive abbiano spesso generato disattenzione alla relazione, i cambiamenti sono stati considerati quali automatismi generati dal semplice “fare”. Il fare musica non è sufficiente a promuovere un cambiamento individuale e sociale, occorre che tale cambiamento sia assunto come obiettivo e che si mettano in atto corrette procedure di definizione dei risultati da conseguire e adeguati processi di valutazione.
Per la Scuola di Animazione Musicale di Lecco, l’Animazione Socio-Culturale si connota come una progettualità sociale che si articola in processi, azioni e pratiche, aventi come protagonisti persone, gruppi e comunità. L’Animazione Socio-Culturale è quindi finalizzata allo sviluppo dei potenziali di tali soggetti per la loro crescita (cambiamento evolutivo positivo), promuovendo la presa di coscienza delle dinamiche dell’espressione e della comunicazione e il potenziamento del tessuto connettivo sociale.[33]

L’orizzonte, il campo, l’area, non è quindi la musica, intesa come corpus di contenuti disciplinari codificati, ma quell’idea di musicking (C. Small) che per noi si concretizza nell’esperienza umana e sociale della musica; un’esperienza musicale vista come incontro-confronto-trasformazione di risorse, desideri e identità. Protagonista è l’homo musicus, che vive e si manifesta nella musicalità di ognuno di noi, accanto alla musica come evento comunitario, sociale e politico, in grado di contribuire a costruire paesaggi di creatività e benessere nel nostro vivere quotidiano[34].
Ciò significa partire dai progetti, dai vissuti, dai desideri e dalle risorse che vanno a disegnarne le identità personali e collettive, cercando di tesserle, di farle incontrare e confrontare, in un circuito a spirale, con i saperi musicali.
In questa direzione l’animazione si propone allora come una specie di artigianato che suggerisce metodi, procedimenti, itinerari di ricerca e di scoperta. Il gruppo è il soggetto privilegiato, portatore di una cultura locale legata a persone, spazi e tempi determinati. C’è animazione quando c’è lavoro di gruppo, che si dà in ogni situazione in cui gli individui perseguono un obiettivo condiviso, in cui le attività sono portate avanti in modo cooperativo e non competitivo. É proprio tale condivisione a funzionare da motore propulsivo per la crescita del gruppo stesso.
Dallo stesso documento citato riprendiamo anche le scelte che caratterizzano l’idea di educazione attraversata dall’animazione:

L’animazione musicale sceglie: – l’integrazione tra teoria e prassi (secondo il processo prassi-teoria-prassi), contro la separazione di teoria e prassi. – il coinvolgimento attivo in contrapposizione alla fruizione passiva – l’apprendimento come opportunità piuttosto che come finalità/obiettivo dominante – la rappresentazione simbolica dell’esperienza piuttosto che l’esibizione – la relativizzazione di tecniche e tecnologie rispetto alla loro assolutizzazione – la reciprocità relazionale contro l’individualismo – la valorizzazione di ogni capacità/potenzialità musicale delle persone in vece dell’imposizione dell’insegnamento del codice musicale. Sono stati a questo punto individuati gli ambiti di intervento specifici dell’animazione musicale nei seguenti settori: – culturale (es. centri culturali, biblioteche, circoli, Pro Loco, ecc.) – educativo (es. ludoteche, centri di aggregazione, centri di rieducazione, università della terza età, centri estivi, carcere, ecc.) – assistenziale (es. centri territoriali per la prevenzione, strutture residenziali, case di riposo per anziani, ecc.) – sanitario (es. ospedali, centri per lungodegenti, centri di salute mentale, ecc.) – scolastico (es. scuole di ogni ordine e grado, laboratori didattici territoriali, scuole di musica, ecc.)[35].

 

La musica d’insieme nell’animazione musicale 

La musica d’insieme (MDI), che nella nostra prospettiva caratterizza in maniera particolare l’animazione musicale (AM), e che è attraversata dalle riflessioni presentate sopra, ci pare condividere molti principi con ciò che viene denominato CM.
La MDI in entrambe le prospettive si propone ai soggetti come esperienza di gioco non finalizzata all’apprendimento (né allo spettacolo). In altre parole, chi suona non si propone di imparare, né di rappresentare, ma primariamente vuole vivere un’esperienza esteticamente gratificante, pensando alla dimensione dell’estetico come connotante il gioco dei sensi. L’eventuale presenza del pubblico non rappresenta quindi un fattore fondamentale per l’esperienza[36].

Se un’attività viene svolta per conseguire un fine particolare (l’apprendimento, la sperimentazione di dinamiche di gruppo o la produzione di una competizione-spettacolo retribuita, anche se gratificante per chi la pratica) essa, a rigore, non può essere detta gioco. Le manca, infatti, il requisito della gratuità. Questo requisito è fondamentale per definire un’attività “gioco”, avendo il gioco come suo fine nient’altro che sè stesso. Con ciò non si vuole assolutamente negare che il gioco possa avere benefici effetti sulla persona umana (apprendimento, compensazione psicologica, creatività…). Si vuole solo sottolineare che il gioco offre questi suoi benefici effetti gratuitamente, senza che chi gioca debba proporseli[37].

La MDI non ha come obiettivo primario l’apprendimento ma deve determinare una crescita dei partecipanti, comprendendo tra questi l’animatore/animatrice in una relazione di reciprocità. In essa il piacere è elemento centrale: è compito dell’animatore /animatrice costruire le condizioni perché esso si determini, per esempio calibrando le attività sui reali potenziali musicali del gruppo, per evitare vissuti di inadeguatezza e di frustrazione che impedirebbero la possibilità di comunicare attraverso la musica.
Nella MDI il ruolo dell’animatore/animatrice non è di insegnare, ma di proporre materiali e spunti adeguati e intervenire “in situazione”, in modo da permettere e favorire lo scambio e l’interazione musicale tra i partecipanti e l’equilibrio tra due momenti: l’esperienza di crescita comune interna al gruppo e la comunicazione con l’esterno (intenzionalitàconsapevolezza = progettualità).
In questa prospettiva la figura dell’animatore ci pare essere totalmente sovrapponibile a quella del facilitatore. Anche in questo caso preferiamo forse il primo termine, pur riconoscendo l’efficacia del secondo: non sempre si tratta di facilitare, a volte si tratta invece di ascoltare, affrontare e anche proporre situazioni di complessità. Si tratta per lo più di metterci anima e non soltanto mestiere.
In questo senso la MDI può offrire buone occasioni di cooperative learning, pensando soprattutto al concetto centrale di questo stile di apprendimento, l’interdipendenza positiva. C’è interdipendenza positiva in tutte le situazioni in cui gli individui perseguono un obiettivo comune in modo cooperativo, e non competitivo:

Nella situazione cooperativa, gli individui sono vincolati fra loro in modo tale che la probabilità che ha uno di essi di conseguire il proprio obiettivo dipende dalla probabilità che hanno gli altri di conseguire il proprio. Tra essi esistono, cioè, relazioni di interdipendenza “positiva”, poiché la condivisione dell’obiettivo comune diventa fattore propulsivo della crescita e dello sviluppo sia del singolo che dell’intero gruppo.[38].

La MDI, in sintesi, sia nella prospettiva dell’AM che della CM, svolge principalmente le seguenti funzioni:

  • sviluppa le capacità di fare e produrre musica, promuovendo il coinvolgimento attivo e potenziando l’intelligenza musicale individuale e di gruppo;
  • propone occasioni per esplorare e sperimentare modelli relazionali personali e di gruppo, favorendo l’integrazione e la cooperazione;
  • favorisce evasione-divertimento-scarico-compensazione in relazione dialettica con le altre funzioni. Rientra quindi anche la MDI come spazio-tempo di festa;
  • promuove le dimensioni del creativo, del simbolico e del fantastico;
  • fa esprimere comportamenti multiculturali e favorisce un approccio aperto ai diversi linguaggi musicali.

 

Il laboratorio, che è il contesto specifico per l’attuazione di un’attività di MDI nell’ottica dell’AM., ci pare invece non rappresentare il contesto specifico per le esperienze di CM, che spesso sono orientate anche a dimensioni più performative. Occorre in ogni caso tenere conto i significati che affidiamo al termine laboratorio:

  • il laboratorio è un concetto, un’idea, un metodo;
  • è uno spazio/tempo in cui il lavoro convive con, o meglio produce, o, ancora meglio, s’identifica con le dimensioni del piacere, del desiderio, del gioco;
  • è uno spazio/tempo ecologico, in cui le dinamiche relazionali e lo star bene sono valori fondamentali e in cui il fine non è la performance, la rappresentazione o lo spettacolo;
  • il laboratorio non prevede la presenza di pubblico;
  • si fonda su una visione unitaria di corpo e mente, su una dimensione plurisensoriale della musica e della cultura, attivando, a partire dalla relazione persona-musica, percorsi ed esperienze di ricerca, di esplorazione di tracce, segni, simboli;
  • è uno spazio/tempo che riconosce, accetta e valorizza la compresenza di musiche, punti di vista, progetti, competenze, gusti, vissuti musicali, promuovendo identità e autonomie;
  • privilegia una progettualità in situazione, che non si difende e arrocca dietro un sapere disciplinare, che non rinuncia ad affrontare le dimensioni della casualità, dell’imponderabilità, del dubbio, che non pone in secondo piano i contenuti ma tenta di aprirli – e quindi trasformarli, ripensarli, riconvertirli, condizionarli – alle relazioni, alla quotidianità, alle risorse e ai desideri.

 

Conclusioni

L’impressione, alla fine, è che la CM copra un ventaglio di esperienze e contesti così vario che rende difficile considerarla un modello, essendo identificabile con tutte le esperienze di musica d’insieme non rigidamente formalizzate, in cui le dimensioni relazionali e inclusive sono poste al centro del fare musica. Tuttavia, forse è proprio questa sua indefinitezza che costituisce il vantaggio e l’efficacia della parola, a patto di mantenerne visibili i legami, i fili, le componenti che, anche nel contesto italiano,  rimandano ad antecedenti storici che disegnano aree ed esperienze di importante ricchezza culturale.

 

Note

[1] L’uso del plurale in questo testo è motivato dallo stretto confronto avuto durante la stesura con Mario Piatti e Maurizio Vitali, che ringrazio per le attente osservazioni e i preziosi suggerimenti. Ciò non toglie che l’autore sia il responsabile unico di quanto scritto.

[2] All’Animazione Musicale il Centro Studi Maurizio Di Benedetto (CSMDB) ha dedicato, a partire dagli anni ’90,  un’ampia attenzione, con l’attivazione nel 1996 della Scuola di Animazione Musicale, ispirata ai criteri e metodi dell’animazione socioculturale. La denominazione è stata modificata nel 2006 in Scuola di Animazione Musicale ad Orientamento Pedagogico e Sociale (SAMOPS) e portata avanti fino al 2014. Gli obiettivi della scuola erano i seguenti:
– Sperimentare i potenziali espressivi e comunicativi della musica.
– Sviluppare competenze nel campo dell’animazione musicale per sollecitare i potenziali della persona e per promuovere relazioni significative nei gruppi e col territorio.
– Fare acquisire capacità di progettazione e di intervento di animazione musicale come strumento di promozione nei diversi contesti e situazioni sociali.
– Far crescere capacità metodologiche e tecnico-operative di animazione musicale.
– Approfondire la ricerca personale e orientare l’autoaggiornamento anche promuovendo documentazione e diffusione del lavoro di animazione musicale.
Su questo tema si vedano: Maurizio Vitali, articoli della rubrica Taccuino di animazione, sulla rivista Musica Domani (1998-2000); Maurizio Vitali, L’animazione musicale tra formazione e ricerca, in Musica Domani, n. 103, giugno 1997, pp. 24-26; Maurizio Vitali, Appunti e spunti di animazione musicale, in Animazione Sociale, Agosto-Settembre, 2000, pp. 76-81. Per una ricostruzione dettagliata delle proposte del CSMDB di quegli anni si veda: Mario Piatti, Musica: Animazione – Educazione – Formazione. Quasi un’autobiografia, FrancoAngeli, 2012. Il libro fa parte della collana Idee e materiali musicali pubblicata con l’editore FrancoAngeli, che ad oggi conta diciassette titoli, all’interno della quale si possono trovare alcuni testi dedicati specificamente all’Animazione Musicale, tenendo conto del fatto che l’intera collana rappresenta una sorta di piccola enciclopedia dei temi e dei percorsi legati a quell’idea pedagogica. Numerosi altri materiali sono ritrovabili su Musicheria.net, digitando “Animazione Musicale” nel campo di ricerca.

[3] Claudio Mustacchi, Ogni uomo è un artista. Come animare il nostro corpo, Meltemi, Roma, 1999, p. 12-13.

[4] Siamo consapevoli dell’ambiguità del termine Animazione, condividendo in pieno l’analisi proposta su questa parola da Mario Pollo, uno dei suoi maggiori teorici e studiosi: “Il territorio in cui affonda le sue radici il significato della parola animazione sembra avere vissuto numerose invasioni di orde, alcune di passaggio mentre altre si sono insediate in esso. Ognuna di queste orde ha portato in questo luogo lingue e culture diverse, che sino ad oggi non sembrano aver trovato la via per fondersi in una sintesi creativa e innovativa. Questo significa che la parola animazione continua a vestirsi di una pluralità di significati, spesso reciprocamente irriducibili quando non addirittura antagonisti. La conseguenza di questo è una pratica sociale dell’animazione frammentata, composita e difficilmente leggibile come unitaria. Si ha quasi l’impressione che un demone dispettoso abbia introdotto la confusione delle lingue tra coloro che in qualche modo diretto o indiretto si occupano di animazione, al fine di impedire la costruzione di quell’edificio che, senza pretendere di condurre al cielo, consenta di definire lo specifico della pratica sociale/educativa definita animazione”, cfr. Cos’è l’animazione culturale, https://notedipastoralegiovanile.it/index.php?option=com_content&view=article&id=10631:cosa-e-lanimazione-culturale. Di M. Pollo segnaliamo, per una trattazione generale dell’animazione, Educazione come animazione. Vol.I. I concetti, ELLE DI CI Leumann, Torino 1991; VOL. II. Il metodo; ELLE DI CI, Leumann, Torino, 1994.

[5] Le aree in cui l’animazione culturale si è sviluppata storicamente in Italia sono quattro, partendo dall’Animazione teatrale, le cui figure storiche più conosciute sono Rodari, Passatore e Scabia. Si passa poi all’Animazione socioculturale, rappresentata soprattutto dalla rivista Animazione Sociale, fondata a Milano nel 1971 da Aldo Guglielmo Ellena. Animazione Sociale è, ancora oggi, il mensile di formazione e studio per chi, a vario titolo, opera nel sociale (educatori, assistenti sociali, psicologi, pedagogisti, cooperatori sociali, operatori socio-sanitari, insegnanti, sociologi, psichiatri, infermieri di comunità, cittadini attivi, professionisti che lavorano nei servizi, nelle cooperative sociali, nelle associazioni, su problemi sociali ed educativi). Una terza area è quella denominata Animazione Culturale, che fa capo alla rivista Note di Pastorale giovanile, che ripensa l’animazione come modello educativo valido sia nella scuola che nell’extrascuola. La quarta area è quella che fa capo ai contesti turistici che non si pongono obiettivi educativi ma esclusivamente ricreativi.

[6] L. Higgins, citato in Antonella Coppi, Community Music. Nuovi orientamenti pedagogici, FrancoAngeli, Milano, 2017, p. 59.

[7] Dal sito https://communitymusic-italy.it/. O anche in Antonella Coppi, ivi., p. 17.

[8] Rimandiamo per una trattazione approfondita della CM, oltre al libro di Antonella Coppi già citato anche a Antonella Coppi (a cura di), Donare-Donarsi. Relazioni, interdipendenze e inclusione nella pedagogia della Community Music, Libreria Musicale Italiana, Lucca, 2020.

[9] Francesca Sardon, Carlo Nardi e Anna Dalle Piatte, “Community music, benessere sociale e cittadinanza culturale in un’area urbana decentralizzata: un progetto dell’Azienda Servizi Sociali di Bolzano”, in Johan van der Sandt, La Community Music in Italia. Cenni storici, modelli pedagogici, contesti sociali, Carocci Editore, Roma, 2019, pp. 112-113.

[10] Un esempio particolare è quello denominato Rockin’1000. L’idea del progetto nasce per volontà di Fabio Zaffagnini nel 2014, con il reclutamento di membri volontari per registrare un video in omaggio al gruppo Foo Fighters.  Il 26 luglio 350 chitarristi, 250 cantanti, 250 batteristi e 150 bassisti registrano il brano Learn to Fly . Il video viene pubblicato su YouTube, ottenendo milioni di visualizzazioni nell’arco di pochi giorni. Il 29 luglio 2023 a Cesena è previsto l’evento Rockin’1000 for Romagna, concerto per la raccolta di fondi da destinare alla regione colpita dall’alluvione.

[11] Oltre al libro citato nelle note precedenti, ci riferiamo al volume di Paolo Alberto CanevaStefania Mattiello, Community Music Therapy. Itinerari, principi e pratiche per un’altra musicoterapia, FrancoAngeli, Milano, 2018.

[12] Una descrizione sintetica di questi due stili di “animazione musicale” si trova in Enrico Strobino, Il suono, l’istante e l’avventura. Educazione Musicale e improvvisazione, Progetti Sonori, Mercatello sul Metauro, 2022. Libri specifici dedicati alle due pratiche sono: Stefano Baroni, Circular Music, Solos Media, Milano, 2022; Arthur Hull, Drum Circle Facilitation. Rafforzare la comunità attraverso il ritmo, Ed. Italiana, 2020. Più in generale riteniamo utile anche la consultazione di due libri di Annibale Rebaudengo: Gli adulti e la musica. Luoghi e funzioni della pratica amatoriale, EDT, Torino, 2005; La musica per amare la vita. Gli adulti musicisti amatoriali, ETS, Pisa, 2021. Su questo tema si veda anche di L. Matteo Lorenzetti e Mario Piatti (a cura di), Musica adulti terza età. Quaderni di Musica Applicata n. 6, Pro Civitate Christiana, Assisi, Novembre 1984.

[13] Non intendiamo qui addentrarci nella descrizione approfondita di queste pratiche: anche in questi ambiti vi sono moltissime differenze, legate sia ai singoli “facilitatori” che ai diversi tipi di contesti in cui vengono realizzate le esperienze. Ci limitiamo a indicarle come esempi di CM a tutti gli effetti.

[14] Per una panoramica più esaustiva del concetto di “comunità” rimandiamo a: Monica Parricchi, “Dal gruppo alla comunità. Intrecci di educazione alla partecipazione”, in A. Coppi (a cura di), Donare-Donarsi, cit., pp. 83-92.

[15] P. Caneva e S. Mattiello, op. cit., p. 24.

[16]  Rimandiamo per questo e altri temi attinenti a Elena Malaguti (a cura di), Musicalità e pratiche inclusive. Il mediatore musica fra educazione e benessere, Erikson, Trento, 2017. Si veda inoltre anche Mario Piatti (a cura di), Educazione musicale o musicoterapia?, Quaderni di Musica Applicata, n. 1, Pro Civitate Christiana, Assisi, 1982. L’intera collana dei Quaderni di musica applicata, edita dalla PCC (23 numeri fino al 2012) testimonia e documenta un ricchissimo dibattito inerente alle prospettive qui indicate.

[17] A. Coppi, op. cit. p. 191. È interessante far notare a questo proposito che la Fondazione G. E. Ghirardi Onlus, in collaborazione con il Ministero dell’Istruzione e del Merito e del Comitato per l’apprendimento pratico della Musica per tutti gli studenti, ha scelto la denominazione di Orchestre sociali per riferirsi a questo tipo di esperienze presenti in Italia. Cfr Le orchestre sociali. Convegno internazionale Edizione 2023 (https://www.fondazioneghirardi.org/le_orchestre_sociali/#gref)

[18] A questo proposito si rimanda al documento L’educazione musicale nella scuola di base, elaborato dal gruppo musica del Movimento di Cooperazione Educativa (composto da Maurizio Disoteo, Pierpaolo Marini, Diana Penso, Mario Piatti, Renato Rovetta, Maurizio Spaccazocchi, Enrico Strobino, Maurizio Vitali), pubblicato originariamente su Cooperazione Educativa, numero 1/98, ripreso in Mario Piatti, Enrico Strobino, Grammatica della fantasia musicale. Introduzione all’arte di inventare musiche, FrancoAngeli, Milano, 2011, pp. 240-246. In questa stessa direzione non è da dimenticare tutto il movimento nato intorno alle Scuole Popolari di Musica, a partire dalla Scuola Popolare di Musica di Testaccio fondata nel 1975, e poi, sempre a Roma, Donna Olimpia, il Crams a Lecco, La Cooperativa l’Orchestra a Milano, ecc. Frammenti, esperienze e riflessioni su questa storia si possono trovare in Bruno Tommaso e Alfredo Gasponi, La scuola che sognavo. La musica come bene comune, il jazz come dialogo, Edipan, Roma, 2020; altre tracce sono diffuse nella rivista Laboratorio Musica, dal 1979 al 1982 (cfr. Mario Piatti, Musica: Animazione- Educazione-Formazione, cit, pp. 10-17). Sempre a cura di Mario Piatti si vedano anche gli articoli che rimandano ai vari numeri di Laboratorio Musica presenti in Musicheria.net., con la storia, gli editoriali e parte dei contenuti pubblicati dalla rivista.

[19] “Community Music”, Corso di Storia della Musica – Università degli Studi della Basilicata, p.7. (https://www.studocu.com/it/document/universita-degli-studi-della-basilicata/storia-della-musica/community-music/11859392)

[20] Antonella Coppi, “Ruoli e identità professionali nella community music: artistry, community musician e teaching artist”, in Johan van der Sandt, op. cit., p. 59.

[21] Franco Lorenzoni, “Introduzione. Conoscenza e riconoscenza”, in Educare controvento. Storie di maestre e maestri ribelli, Sellerio, Palermo, 2023, pp. 11-18.

[22] A. Coppi, op. cit. p. 79. Ciò non significa che il fare musica come elemento fondamentale dell’educazione musicale sia in Italia totalmente assunto e realizzato. Sta di fatto però che dal 2006 esiste a livello ministeriale un Comitato nazionale per l’apprendimento pratico della musica per tutti gli studenti (CNAPM), il cui “slogan” è stato fin dall’inizio “fare musica tutti”.

[23] Si tenga conto che l’ISME (International Society for Music Education) fin dal 1982 ha costituito una specifica commissione denominata Community Music Activity (CMA).

[24] Community Music”, Corso di Storia della Musica – Università degli Studi della Basilicata, cit., p. 11.

[25] Cfr. “Community Music”, Corso di Storia della Musica – Università degli Studi della Basilicata, cit. p. 13.

[26] Loredano Matteo Lorenzetti, Persona Amore Bellezza, Meltemi, Milano, Franco Angeli, p. 15.

[27] Claudio Mustacchi, op. cit, p. 52-53.

[28] Piero Bertolini, Marco Dallari, “A proposito di giudizio estetico e mass media”, in Anna Rita Addessi, Roberto Agostini (a cura di), Il giudizio estetico nell’epoca dei mass media, Libreria Musicale Italiana, Città di Castello, 2003, p. 110.

[29] James Hillman, Politica della bellezza, Moretti & Vitali, Bergamo, 1999, p. 31.

[30] James Hillman, L’anima del mondo e il pensiero del cuore, Adelphi, Milano, 2002, p. 149.

[31] J. Hilmann, Politica della bellezza, cit. p. 13.

[32] J. Hilmann, L’anima del mondo e il pensiero del cuore, cit., p. 131.

[33] Tra formazione e ricerca l’animazione si fa progetto, Musicheria.net (https://www.musicheria.net/2011/11/25/tra-formazione-e-ricerca-lanimazione-musicale-si-fa-progetto/)

[34] In questa direzione non possiamo non ricordare anche le ricerche e le riflessioni documentate nei dieci numeri della rivista PUM. Progetto Uomo-Musica. Educazione/Animazione/Terapia/Ricerca, pubblicati dalla Pro Civitate Christiana dal 1992 al 1996.

[35] Tra formazione e ricerca l’animazione si fa progetto, cit.

[36] Riprendiamo qui più sinteticamente le riflessioni proposte in Enrico Strobino, “Animazione e musica d’insieme”, in Musiche in cantiere, FrancoAngeli, Milano, 2001, pp. 11-15.

[37] Mario Pollo, “L’Animazione attraverso il gioco e lo sport”, in Animazione Sociale n.5, 1997.

[38]  Mario Comoglio, “Verso un’interdipendenza positiva”, in Animazione Sociale n.1, Gennaio 1999, Gruppo Abele.

Il suono delle parole

Dichiariamo[1] quindi subito il nostro legame per la locuzione italiana, per una serie di ragioni che andremo via via a sostenere[2].
Claudio Mustacchi nel ricordare le vicissitudini della parola Animazione, cita una bella frase di Conrad:

Il potere del suono è sempre più forte di quello del significato. (Joseph Conrad)

Per poi proseguire:

Sembra quasi che l’elemento unificante di tutte le realtà dell’Animazione sia il suono del significante più che il significato. Chi inizia un discorso su di essa parte sempre da questo nome, dalle sue suggestive evocazioni etimologiche: dare vita, dare anima, mettere in movimento.
Le risonanze di questa parola rivelano una tensione, un bisogno di rappresentarsi a sé stessi e agli altri, che non coincide direttamente con l’elenco delle attività che vengono identificate sotto questo nome.
Un richiamo a qualcosa di vitale, un desiderio di vita. Un pressante appello alla qualità dell’esistenza, che assume ora dimensioni politiche, ora estetiche o relazionali.
È forse possibile approfondire i contenuti dell’Animazione senza partire dalla lista delle cose che vediamo chiamarsi in questa maniera. Prima ancora di essere una risposta essa cela una domanda. Esistono dei desideri soggiacenti che trovano soddisfazione in quell’immagine: il movimento della vita.
Chi risponde al suo appello è sensibile al richiamo di una pulsione che cerca di aggregare, di connettere, di diffondere e riconoscere, in contrasto con una tendenza soffocante e distruttiva, di cui si avverte la presenza, di cui si teme il dilagare[3].

L’idea di partenza è, come si è detto, che l’area della community music sia vicina per molti aspetti a ciò che in Italia si è denominata animazione musicale (termine che esamineremo compiutamente più avanti) [4]. In ogni caso, al di là della scelta del nome, ci pare importante situare storicamente le caratteristiche della Community Music (CM) facendo riferimento, appunto, anche agli orientamenti presenti nella storia italiana dell’animazione socioculturale e dell’animazione musicale[5], in linea con quanto afferma Higgins:

Cos’è la Community Music e quali sono le condizioni che le hanno permesso di crescere? Questa è una domanda importante perché il carattere della CM è frutto del passato, del presente e del futuro. Futuri contesti di community Music sono trasformazioni di precedenti realtà. Qualsiasi tentativo di identificare un insieme di pratiche come CM è scoraggiante; ci sono molte vie possibili per tenere conto di quello che potrebbe essere considerato la musica della comunità[6].

Il riferimento al passato consente di relativizzare e situare storicamente l’idea che considera la Community Music come “uno degli orientamenti più innovativi della pratica pedagogico-musicale, frutto di necessità speciali, legate alla sfera educativa, al contesto sociale e culturale, al bisogno di inclusione, di integrazione e di cambiamento sociale”[7].
Cercando di fornire qui un’immagine molto sintetica di cosa si intenda – per quanto traspare dalla letteratura esistente – con community music potremmo definire i seguenti parametri:

  • le esperienze/contesti/occasioni sono principalmente di tipo non-formale, in cui si propone una partecipazione musicale inclusiva, ospitale e, spesso, intergenerazionale;
  • l’esperienza è collettiva, coinvolgendo gruppi più o meno grandi e più o meno organizzati in attività di musica d’insieme;
  • a volte è presente una coprogettazione con i soggetti dell’esperienza;
  • l’esperienza è condotta da un facilitatore (denominato anche community musician)[8].

 

Le pratiche musicali specifiche utilizzate ruotano intorno all’esecuzione, all’improvvisazione, alla composizione collettiva e all’arrangiamento, che vanno a costituire anche l’arcipelago di competenze che caratterizzano il community musician, insieme a quelle extramusicali (capacità empatiche, competenze di leadership, di conduzione e monitoraggio del lavoro sia individuale che di gruppo, ecc…):

Tra le competenze richieste ai facilitatori, vanno considerate una spiccata sensibilità nel saper cogliere e nel sapersi adattare a diversi stili di apprendimento così come a differenze di tipo sociale, culturale, di età e di capacità; un senso di identità, che consente di relazionarsi in maniera efficace nonostante differenze di vario genere tra facilitatori e partecipanti o tra gli stessi partecipanti, puntando sugli elementi comuni per fondare un impegno condiviso; l’utilizzo di approcci pedagogici inclusivi., la capacità di identificare interessi e formulare obiettivi comuni; la capacità di coinvolgere tutti i partecipanti, sapendone riconoscere, al tempo stesso, le singolari identità culturali e musicali senza perdere di vista il risultato complessivo per la comunità; la riflessività, ossia la consapevolezza che nel formare si è anche oggetto di formazione; La capacità di mediare tra differenti soggetti e organizzazioni.[9]

Ciò che – per gli autori consultati – caratterizza questa pratica (la community music) e questo ruolo (il facilitatore) e che la differenzia dall’educazione musicale e dal ruolo di educatore (o insegnante) di musica, è il contesto: nel caso della CM ci si muove, infatti, in contesti di apprendimento per lo più non formali. Proprio in questo senso viene proposto il termine “comunità”.
È chiaro fin da subito che tale termine rimanda ad accezioni e a connotazioni anche molto diverse fra loro. Potremmo sinteticamente ricordarne qui tre:

  • Comunità geografica, in cui un gruppo condivide un’identità culturale legata ad un luogo e alla sua cultura (ad esempio quella di un paese);
  • Comunità di circostanza, in cui un gruppo ha qualcosa in comune pur non avendo scelto deliberatamente di esserne parte (ad esempio una casa di riposo, o una classe scolastica);
  • Comunità di interesse o di pratica, in cui un gruppo condivide volontariamente un insieme di valori, di obiettivi o altro (ad esempio un gruppo che ruota intorno ad interessi spirituali o a un genere musicale specifico)[10].

 

Ci pare che fra le tre accezioni di “comunità” la prima e la seconda trovino maggiore accoglienza nella ricognizione di esperienze esemplari, almeno sfogliando i libri pubblicati in Italia[11]. Riguardo alla terza accezione ci pare importante indicare anche alcuni stili specifici di CM che costituiscono il mondo delle Musiche in cerchio: Circle Singing, Drum Circle, e altre forme simili[12]. Questo tipo di pratiche, legate per lo più a singoli eventi, e quindi ad un’idea di comunità estemporanea, a singole circostanze appositamente create e partecipate, rispondono, tuttavia, in larga parte ai descrittori utilizzati per la CM[13].
Naturalmente l’analisi del termine comunità potrebbe essere molto più approfondita, cosa che non è possibile fare in questo contesto[14].
Occorre segnalare, inoltre, la presenza di un’area contigua, che è quella della Community Music Therapy (CoMT), che non è sempre facile distinguere dalla CM:

Può essere definita anche come musicoterapia “ricreativa”, “partecipativa” o “compartecipata”, o ancora una musicoterapia “di coinvolgimento”, “di condivisione” o “di solidarietà” volta […] a “incrementare le possibilità di azione” dell’individuo, ad incoraggiare la partecipazione, le relazioni e lo sviluppo del singolo tenendo in considerazione i suoi bisogni culturali e sociali, il suo essere inserito all’interno di uno specifico contesto con il quale quotidianamente interagisce.
Un’ulteriore possibilità è quella di definirla più semplicemente come una musicoterapia “di comunità” o “comunitaria”, dal momento che si impegna a condurre gli individui, attraverso un far musica insieme, ad una condivisione e ad uno stato di reciproca appartenenza sociale.
Noi, pur prendendo in considerazione la molteplicità terminologica con cui un simile approccio potrebbe essere calato nell’ambito italiano, abbiamo deciso di far riferimento alla definizione anglosassone di Community Music Therapy, mantenendo la centratura sul concetto attorno al quale si snoda questo nuovo modo di concepire la musicoterapia, cioè la comunità.
Potremmo dire che la Community Music Therapy è un luogo, una prospettiva teorica ed una pratica in cui la musica viene usata per unire il divario tra gli individui e le comunità creando uno spazio comune per un far musica e mostrare le abilità e il valore artistico e umano”[15].

Accettando la motivata scelta della terminologia, che nel passaggio dalla dimensione individuale, tradizionalmente attinente alla Musicoterapia, a quella collettiva accoglie il riferimento a “comunità”, oltre alle aree comuni con la CM sarebbe utile indicare più chiaramente anche le differenze e le specificità delle due pratiche. A volte pare che vengano declinate con o senza l’aggiunta del terapeutico a seconda di chi assume il ruolo di facilitatore: in questa prospettiva diventerebbe CoMT ogni pratica di CM realizzata da un musicoterapeuta. Leggendo il libro di Caneva e Mattiello ci pare, tuttavia, che siano i contesti ad essere proposti come tratto pertinente e dirimente: in senso generico, nei contesti “collettivi” in cui c’è difficoltà e/o disabilità, si ha la CoMT, in altri contesti si ha CM, mantenendo invece il termine “Musicoterapia” per interventi ancorati più a dimensioni relazionali individuali[16].
Anche il riferimento al contesto però a volte pare non essere quello che differenzia le due aree, come risulta da questo passaggio in cui CM e CoMT paiono nuovamente sovrapporsi:

[…] Quando si parla di Community Music s’intende un particolare orientamento pedagogico e didattico costruito sulle basi del concetto di uso della musica come mediatore sociale, in favore di soggetti che molto spesso fanno parte di categorie disagiate. Lo scopo è quello di portare benefici di diversa natura unendo e mettendo a confronto le persone, attraverso la partecipazione musicale attiva[17].

Rimane difficile comunque oggi individuare sempre e nettamente tali differenze; oggi anche la stessa Educazione Musicale (che come dicitura istituzionale non esiste più, ridotta nella scuola secondaria di primo grado a “Musica”) va in ogni caso pensata e progettata non tanto (o non solo) come intervento teso a informare, istruire e formare bambini e bambine alla musica, ma come proposta più globale rivolta alla formazione, all’inclusione, alla crescita e alla maturazione personale, collettiva ed ecologica. In questa prospettiva ci sentiamo di riaffermare con forza anche il termine “educazione”, da pensare e utilizzare sia nei contesti scolastici che extrascolastici[18].
Un tratto più specificamente pertinente potrebbe (o dovrebbe?) essere rappresentato dalla presenza, a monte di un progetto di CoMT, di un’equipe di operatori (musicoterapeuta, psicoterapeuta …) che “supervisioni” il progetto stesso, che ne sappia cogliere e valorizzare aspetti che risuonano anche sul livello personale/individuale, e che quindi crei il ponte fra il gruppo e le persone che lo costituiscono.
In generale ci sentiamo qui di sostenere una visione che definisce “terapeutica” non una qualsiasi attività sonoro/musicale che contribuisca alla promozione della salute, ad una buona qualità della vita, al “benessere” di un individuo o di un gruppo, ma un’esperienza in cui consapevolezza, conoscenza e trasformazione di sé avvengono all’interno di contesti stabili e percorsi specifici, non estemporanea ma di media/lunga durata, guidata da specialisti, in cui il suono/musica non sia visto come “oggetto magico” capace di agire “in sé” ma come elemento importante all’interno di una relazione ampia e polifonicamente complessa.

Un obiettivo condiviso da tutto l’arcipelago di pratiche che possono essere ascritte alla CM è proprio quello di promuovere comunità, inteso genericamente come senso di appartenenza e condivisione, di inclusione e coesione sociale, benessere, agio, ecc.
In generale la pratica centrale di ogni orientamento (CM o CoMT) è la Musica d’insieme.

La Community Music si inserisce nel panorama pedagogico musicale come strumento di rinnovamento attraverso un dialogo educativo democratico, a cui collaborano tutti i soggetti coinvolti, con l’abbattimento di ogni forma di divisione gerarchica e includendo tutti i membri attivi e protagonisti dell’azione musicale.
All’interno di tale modello, l’insegnante NON DIRIGE MA FACILITA con l’obiettivo di includere ogni partecipante, il quale possa esprimere le proprie abilità e si senta gratificato.
Quindi la Community Music può essere affiancata all’idea di “comunità educante” ma può anche farsi strumento per una pedagogia sociale volta a contribuire allo sforzo della comunità di allontanarsi dai loro vincoli culturali e locali, per accedere a dimensioni pubbliche e libere nel loro modo di agire.[19].

Leggiamo fra le righe un pericolo: sia la CM che la CoMT vengono viste come orientamenti che a volte si pongono come forze rinnovatrici della scuola, a volte si presentano invece come alternativa al modello pedagogico descritto come “tipicamente scolastico”. Questo porta a dire che nella CM “l’insegnante non dirige ma facilita…”. Ma l’insegnante non è un Direttore d’orchestra, non dirige, o almeno, non dovrebbe “dirigere” mai! Ogni buon insegnante è al tempo stesso un “facilitatore”, se vogliamo utilizzare questo termine, che tende ad includere, a promuovere comunità e così via.
Spostare al di fuori del campo educativo formale (la scuola) i suoi valori e le sue metodologie migliori, ascrivendole ad un nuovo campo che in quanto tale si pone come alternativo, comunque lo si denomini, fa sì che automaticamente si accetti un’idea di scuola vecchia e reazionaria in cui gli insegnanti “dirigono” o in cui

[…] la figura dell’insegnante è associata a un insegnamento teorico e tecnico della musica, conferendo importanza alla conoscenza e ricollegandosi all’idea di “cultura alta” e di istruzione “classica”. Adottando l’educazione musicale e seguendo questa prospettiva, l’insegnante eserciterebbe il controllo sociale opprimendo gli studenti e affermando una gerarchia educativa che non rispecchia le basi del modello della Community Music. In effetti, non si deve dimenticare che i community musician sono consapevoli della necessità di includere individui o gruppi svantaggiati, riconoscendo il valore della musica nel promuovere l’accettazione e la comprensione inter-sociale e interculturale […]. Come “abili leader musicali” i facilitatori sottolineano la partecipazione attiva, la sensibilità al contesto, le pari opportunità e l’impegno per la diversità nella pratica, cercando di stimolare esperienze musicali e rilevanti e accessibili sia nei contesti formali, che non formali e informali: l’ascolto, l’improvvisazione, l’invenzione e la performance sono i temi alla base della metodologia formativa, fondata sulla centralità del diritto e della capacità di fare, creare e godere della propria musica[20].

Vogliamo continuare a credere in una scuola in cui l’insegnante (anche di educazione musicale) abbia le caratteristiche descritte nella seconda parte di questo passo, che venga formato in questa direzione, e che non eserciti, al contrario, “il controllo sociale opprimendo gli studenti…”. Vogliamo continuare a sperare che non sia necessario uscire dalla scuola per vivere questo tipo di esperienza relazionale, creativa, inclusiva, solidale ed ecologica. La scuola è il contesto, o meglio, la comunità per antonomasia per lavorare su questi temi.
Se quindi è importante che nascano orientamenti fuori dalla scuola che la tengano sveglia, che la costringano a non chiudersi, appoggiandosi ai modelli più stantii e reazionari, ma che la inducano a trarre linfa dai modelli più innovativi, ricordiamo comunque che molti di questi hanno più di cinquant’anni.  Sono modelli, esperienze, storie e persone che ancora sono fertili e che ci indicano orientamenti pedagogici che già hanno dentro tutto quello che oggi ci propone la CM: solo per fare qualche nome pensiamo a Don Milani, a Lodi, a Rodari, o a Paynter, a Porena e a tantissimi altri verso cui è importante portare ri-conoscenza, nel senso ricordato recentemente da Lorenzoni[21].
In questa direzione l’Animazione socioculturale (dentro cui situiamo l’animazione musicale) rappresenta un’epoca storica importantissima dal punto di vista pedagogico, ed è sempre stata pensata non come una disciplina a sé stante ma come una pratica capace di attraversare e di vivificare i campi e le discipline (anche scolastiche).
D’altra parte, alcune descrizioni della CM confermano totalmente orientamenti della didattica musicale che ci paiono largamente acquisiti e che ormai potremmo definire “tradizionali”, a partire dai metodi “storici” (la metodologia Orff, tanto per citarne una fra molte) fino alle esperienze più recenti:

[la] CM con l’educazione musicale condivide un comun denominatore: il fare musica, ovvero prediligere un approccio pratico, prima che teorico, al linguaggio musicale che può essere utilizzato anche come strumento di espressione di sé attraverso il fare musica (Music-Making) e che, come visto in precedenza, stimola la musica e il suo essere prodotta, come uno strumento per favorire il legame sociale e la coesione del gruppo, il comportamento e la cooperazione.  […]
La possibilità che la pratica della Community Music possa influenzare positivamente l’idea di educazione musicale e di prassi di intervento sociale, divenendo una opportunità di crescita naturale per tutti, costituisce un potenziale importante per nuovi orientamenti educativi e pedagogici della musica stessa in primo luogo, e naturalmente della Community Music […].[22].

La domanda che nasce, quindi, è questa: è necessaria questa nuova denominazione per indicare competenze, ruoli, finalità che attengono ad altre aree e denominazioni già esistenti? Ponendo di rispondere affermativamente, è comunque importante andare a rivedere gli orientamenti dell’animazione nella storia della pedagogia italiana e tenerne conto.
Pensiamo inoltre che sia importante chiedersi in cosa la CM si differenzi da una buona Educazione Musicale[23]. e quando sia il caso di aggiungere l’aggettivo terapeutico:

Come sostiene Stige, Musicoterapia si definisce come lo studio e l’apprendimento dei rapporti tra musica e salute, condividendo una forte sinergia ed ambiti di conoscenza con la Community Music e la Community Music Therapy. La CM e la CoMT sono uniti dalla comune idea che la pratica musicale costituisca il mezzo principale per lavorare con le persone in situazioni di necessità, valorizzando ogni approccio che cerchi di recuperare la pratica della musica nella vita quotidiana come forza centrale della stessa cultura umana.[24].

Anche qui i tratti comuni sono chiari, mentre rimane più difficoltoso individuare le differenze.
I descrittori indicati ad esempio dal corso dell’Università della Basilicata per la CM si sovrappongono completamente a quelli che potremmo utilizzare per promuovere una buona idea di Educazione Musicale o, nell’extrascolastico, di Animazione Musicale:

  • fondarsi sull’attività di gruppo;
  • dare priorità alla musica pratica (Music Making);
  • privilegiare pratiche cooperative;
  • promuovere un uso ecologico delle nuove tecnologie;
  • privilegiare la Musica d’insieme come attività centrale;
  • prevedere la presenza di un “facilitatore”;
  • prendere in considerazione tutte le età della vita, all’interno di un’idea di formazione continua;
  • prendere in considerazione la musica come agente di cambiamento.[25].

 

L’Animazione si riferisce storicamente a un pensiero inclusivo, “che negozia la ragione dei sentimenti con i sentimenti della ragione”[26]. Risponde a una logica dell’ et…et, piuttosto che una centrata sull’aut…aut.
Oggi più che mai abbiamo bisogno di un pensiero che lega, che stringe relazioni, che mette in comunicazione creativamente logiche, mondi, punti di vista diversi e perfino opposti: un pensiero che sappia resistere alle visioni univoche, sicure, definitorie, basate sulla logica del se…allora, saldamente ancorata al raziocinio come ipotetica bandiera di scientificità. Questo pensiero appartiene all’Animazione da sempre: le arti che escono dai loro contesti accademici per abitare la vita quotidiana, cercando di trasformarla. Arti oltre il palcoscenico, come l’educazione oltre la scuola, cercando di assumere in modo ambivalente sia la dimensione del sociale che quella del mondo interiore.

 

Il pensiero dell’arte

Ci riferiamo quindi all’Animazione come territorio che storicamente si è posto come area di confine tra pedagogia ed estetica, o meglio, fra una certa idea della pedagogia e una certa idea dell’arte.
Dare spazio all’estetica significa fuggire una cultura sempre più orientata all’utile, che dimentica costantemente l’importanza del simbolico.
Ancora una citazione da Mustacchi:

Già con i surrealisti l’artista si rivolge a tutta l’umanità, non per farsi ammirare, per sottoporre agli sguardi del mondo la bellezza della propria opera, ma per invitare ogni singolo individuo alla scoperta delle proprie possibilità nei confronti della realtà, per tras-formare le potenzialità creative del genere umano. L’uomo d’arte ritiene di essere una sorta di avanguardia nell’esplorazione di un terreno che appartiene a ogni simile; si rivolge a un sociale – da cui non si sente separato – mettendo a disposizione le sue scoperte: le nuove capacità linguistiche e percettive che ha creato con il suo proprio lavoro. L’arte promuove l’elevazione dell’umanità, non un’astratta elevazione spirituale del pubblico, ma l’emancipazione dall’oppressione della realtà quotidiana e materiale”. D’altro canto, la pedagogia rimette in discussione sè stessa e i suoi rapporti di potere: si sforza di promuovere la centralità dell’allievo nel processo educativo, di aumentare le capacità di lettura e di critica del reale, di allargare l’universo linguistico e espressivo in un mondo in continua mutazione, fa i conti con classi sociali le cui difficili condizioni materiali e culturali richiedono un’educazione che non si limiti alla trasmissione del sapere. Il maestro non si fa più garante e trasmettitore di un ordine, ma propulsore delle potenzialità creative e di emancipazione.[27].

Chiamiamo quindi a testimoniare a favore di questo pensiero dell’arte, fatto proprio storicamente dalle pratiche dell’animazione, Marcell Duchamp e molti altri esponenti di movimenti artistici come il Dadaismo e il Surrealismo; Fluxus, Antonin Artaud e John Cage, il Living Teathre e gli happenings, Grotowsky, Staniswlasky, Brook, Gianni Rodari, Bruno Munari, Mario Lodi, Franco Passatore e mille altri.
Questi sono alcuni nomi che ringraziamo, a cui ci ispiriamo e per i quali proponiamo ri-conoscenza.
In questa prospettiva, al di là delle denominazioni, all’interno di ogni linguaggio vengono richieste attribuzioni di senso che sono prima di tutto atti percettivi, che hanno quindi a che fare con la sfera della sensorialità: conoscere attraverso il corpo-mente, i sensi, annusare il mondo, ascoltare il corporeo dei nostri pensieri, i pensieri e i piaceri del cuore, le passioni; imparare a meravigliarci, ad emozionarci, a stupirci, a ritrovare l’anima delle cose. Inseguire un rapporto con l’arte (e con il mondo) caratterizzato da una partecipazione attiva alla costruzione di sensi e significati.
Più che sul concetto di giudizio estetico poniamo l’accento sull’idea di esperienza estetica: mentre il primo comporta normalmente un’azione di confronto tra un oggetto artistico e un modello dato di bellezza, parlare di esperienza estetica significa invece guardare al vissuto, al rapporto dialettico che viene a crearsi tra un soggetto e un’opera, ai processi di costruzione attiva e di confronto di sensi e significati, in un gioco continuo tra quiete ed irrequietezza del senso.
Se l’esperienza estetica è quindi esperienza dell’anima, con animazione ci riferiamo a una pratica della sensibilità, una pratica che mira ad individuare la luce improvvisa che accende una cosa, un oggetto, un paesaggio, una musica; scintille dell’anima, che inseguono la sensuosità delle cose, la loro disponibilità a trasformarsi in oggetti dell’interpretazione.
Parlare di valore estetico – e di valore tout court – allora, in rapporto al concetto di esperienza prima descritto, significa fare riferimento alla capacità di aumentare, affinare, rendere più intensa questa stessa esperienza.
Potremmo dire, come ci indicano Bertolini e Dallari, che un oggetto, o meglio, un’esperienza è tanto più valida esteticamente quanto più è capace di promuovere:

  • percorsi verso la novità, l’originalità, l’apertura dei pensieri, contro la ripetitività, la routine, la banalità;
  • l’appropriazione attiva da parte dei fruitori, sia pratica che teorica, contro una comunicazione che stimola una ricezione passiva;
  • emozioni e stupore capaci di costituire punti di partenza verso nuovi equilibri del pensiero, individuali e di gruppo, contro un uso banale e superficiale di semplici meccanismi di seduzione[28].

 

Anima Mundi

Questo sguardo meravigliato sul mondo, la sensibilizzazione verso i particolari, diviene, nella prospettiva di James Hillman, progetto terapeutico e politico nei confronti dell’anima mundi:

Continuiamo a restringere la psicopatologia alla persona umana, e dunque a sostenere che la psiche riguarda ontologicamente soltanto il soggetto umano. La psicoterapia analitica continua a sostenere che se la natura o la cultura appaiono malate, ciò dipende dalle azioni dell’uomo: la causa siamo noi. Dunque curiamo prima l’uomo: tutti in analisi – architetti, politici, insegnanti, uomini d’affari – e allora il mondo andrà meglio.
Questo non ha funzionato, non può funzionare, perché il modello è sbagliato. Lascia l’anima fuori del mondo – le cose sono prive di anima e l’uomo deve sobbarcarsi tutto il peso dell’anima, rianimando con il suo soffio proiettivo ciò che la teoria dichiara, per definizione, morto[29].

Attivare la nostra sensibilità, la nostra immaginazione, le nostre emozioni, significa al tempo stesso essere in sintonia con l’anima del mondo, prendersene cura. E questo è il compito specifico dell’animazione. Al contrario, una diffusa insensibilità estetica ci anestetizza non soltanto nei confronti della banalità dilagante ma anche rispetto al senso dell’ingiustizia, dell’insulto, riducendo sempre più la nostra capacità di indignazione. Tutto ciò che è grande, enorme, globale e veloce, conduce verso un’an-estesia della nostra sensibilità nei confronti del mondo. Al contrario, un mondo di eventi particolari, “che si fanno notare per la loro ciascunità[30], non può che essere un mondo che procede più lentamente, che passeggia invece che correre, che sa perdere tempo. “La risposta estetica è azione politica”[31].

Allora ci rendiamo conto di come ciò che la psicologia è stata costretta a chiamare «proiezione» altro non sia che «animazione»: questo è quella cosa che, spontaneamente, prende vita, arresta la nostra attenzione, ci attira a sé. La luce improvvisa che accende una cosa, tuttavia, non dipende dalle sue proporzioni formali, da qualità estetiche che la rendono «bella», bensì dai movimenti dell’anima mundi che anima le proprie immagini e tocca la nostra immaginazione. Si crea una corrispondenza o una fusione tra l’anima di quella cosa e la nostra[32].

Certamente c’è una componente dell’animazione che ha a che fare con il prendersi cura (di noi, degli altri, del mondo, ecc…).
Ancorare la pratica pedagogica al pensiero del corpo, dando molta importanza agli aspetti relazionali, alle dimensioni del piacere e del desiderio, al mondo interiore e alle dinamiche collettive, prestare attenzione a tutto ciò significa prendersene cura. Si ha un processo di cura quando si cercano avvicinamenti, luoghi di incontro, riempimenti, quando si cerca di colmare separazioni del pensiero, del corpo, delle culture. In questo senso può darsi un territorio comune con la musicoterapia. L’animazione è una pratica che attraversa le discipline, l’abbiamo detto, quindi incontra certamente anche la musicoterapia, mantenendo le debite distinzioni in quanto a contesti, obiettivi e metodi. Questo non ci dispiace affatto. Se poi tutto questo oggi si vuole chiamare Community Music può andar bene, a patto che si riconoscano e si valorizzino le esperienze, le azioni e le ricerche realizzate in questi ultimi trent’anni anche nel nostro paese.

 

Animazione Musicale

La parola animazione, come abbiamo detto, può emanare profumi diversi, è soggetta a molti usi secondo i contesti, mette in movimento una serie di pensieri, spesso i più vari, che sottintendono valori, finalità, pratiche e tecniche anche molto lontane. Parlare di animazione sociale e culturale restringe il campo, allontanando i paesaggi tipici dei villaggi turistici per condurci dentro ai territori dell’educazione.
Ci pare che l’idea di animazione – “musicale” nel nostro caso – possa essere ancora oggi utile per individuare all’interno delle varie mappe educative alcune trame, alcuni percorsi che interconnettono quell’arcipelago, che individuano alcuni stili di lavoro, ma soprattutto di pensiero.
Quest’idea più che vivere autonomamente in una professione, può attraversare e orientare quelle già esistenti, in un’ottica trasversale. In questo senso l’animazione musicale non è una disciplina, indica piuttosto una pratica sociale e culturale che intende incontrare le discipline, i campi di esperienza, aprendoli, mettendoli in contatto, ripensandoli; una pratica che costruisce ponti e non muri.
Ci pare che la specificità di un’idea di Animazione Musicale orientata all’educazione possa anche oggi riconoscersi in ciò che abbiamo scritto molti anni fa, ovvero in

[…] una concezione centrata su aspetti ludico-creativi, in cui rientra storicamente la nostra esperienza musicale, e su una centrata sulla crescita e il cambiamento sociale. È comunque utile rilevare come tecniche e modalità espressive abbiano spesso generato disattenzione alla relazione, i cambiamenti sono stati considerati quali automatismi generati dal semplice “fare”. Il fare musica non è sufficiente a promuovere un cambiamento individuale e sociale, occorre che tale cambiamento sia assunto come obiettivo e che si mettano in atto corrette procedure di definizione dei risultati da conseguire e adeguati processi di valutazione.
Per la Scuola di Animazione Musicale di Lecco, l’Animazione Socio-Culturale si connota come una progettualità sociale che si articola in processi, azioni e pratiche, aventi come protagonisti persone, gruppi e comunità. L’Animazione Socio-Culturale è quindi finalizzata allo sviluppo dei potenziali di tali soggetti per la loro crescita (cambiamento evolutivo positivo), promuovendo la presa di coscienza delle dinamiche dell’espressione e della comunicazione e il potenziamento del tessuto connettivo sociale.[33]

L’orizzonte, il campo, l’area, non è quindi la musica, intesa come corpus di contenuti disciplinari codificati, ma quell’idea di musicking (C. Small) che per noi si concretizza nell’esperienza umana e sociale della musica; un’esperienza musicale vista come incontro-confronto-trasformazione di risorse, desideri e identità. Protagonista è l’homo musicus, che vive e si manifesta nella musicalità di ognuno di noi, accanto alla musica come evento comunitario, sociale e politico, in grado di contribuire a costruire paesaggi di creatività e benessere nel nostro vivere quotidiano[34].
Ciò significa partire dai progetti, dai vissuti, dai desideri e dalle risorse che vanno a disegnarne le identità personali e collettive, cercando di tesserle, di farle incontrare e confrontare, in un circuito a spirale, con i saperi musicali.
In questa direzione l’animazione si propone allora come una specie di artigianato che suggerisce metodi, procedimenti, itinerari di ricerca e di scoperta. Il gruppo è il soggetto privilegiato, portatore di una cultura locale legata a persone, spazi e tempi determinati. C’è animazione quando c’è lavoro di gruppo, che si dà in ogni situazione in cui gli individui perseguono un obiettivo condiviso, in cui le attività sono portate avanti in modo cooperativo e non competitivo. É proprio tale condivisione a funzionare da motore propulsivo per la crescita del gruppo stesso.
Dallo stesso documento citato riprendiamo anche le scelte che caratterizzano l’idea di educazione attraversata dall’animazione:

L’animazione musicale sceglie: – l’integrazione tra teoria e prassi (secondo il processo prassi-teoria-prassi), contro la separazione di teoria e prassi. – il coinvolgimento attivo in contrapposizione alla fruizione passiva – l’apprendimento come opportunità piuttosto che come finalità/obiettivo dominante – la rappresentazione simbolica dell’esperienza piuttosto che l’esibizione – la relativizzazione di tecniche e tecnologie rispetto alla loro assolutizzazione – la reciprocità relazionale contro l’individualismo – la valorizzazione di ogni capacità/potenzialità musicale delle persone in vece dell’imposizione dell’insegnamento del codice musicale. Sono stati a questo punto individuati gli ambiti di intervento specifici dell’animazione musicale nei seguenti settori: – culturale (es. centri culturali, biblioteche, circoli, Pro Loco, ecc.) – educativo (es. ludoteche, centri di aggregazione, centri di rieducazione, università della terza età, centri estivi, carcere, ecc.) – assistenziale (es. centri territoriali per la prevenzione, strutture residenziali, case di riposo per anziani, ecc.) – sanitario (es. ospedali, centri per lungodegenti, centri di salute mentale, ecc.) – scolastico (es. scuole di ogni ordine e grado, laboratori didattici territoriali, scuole di musica, ecc.)[35].

 

La musica d’insieme nell’animazione musicale 

La musica d’insieme (MDI), che nella nostra prospettiva caratterizza in maniera particolare l’animazione musicale (AM), e che è attraversata dalle riflessioni presentate sopra, ci pare condividere molti principi con ciò che viene denominato CM.
La MDI in entrambe le prospettive si propone ai soggetti come esperienza di gioco non finalizzata all’apprendimento (né allo spettacolo). In altre parole, chi suona non si propone di imparare, né di rappresentare, ma primariamente vuole vivere un’esperienza esteticamente gratificante, pensando alla dimensione dell’estetico come connotante il gioco dei sensi. L’eventuale presenza del pubblico non rappresenta quindi un fattore fondamentale per l’esperienza[36].

Se un’attività viene svolta per conseguire un fine particolare (l’apprendimento, la sperimentazione di dinamiche di gruppo o la produzione di una competizione-spettacolo retribuita, anche se gratificante per chi la pratica) essa, a rigore, non può essere detta gioco. Le manca, infatti, il requisito della gratuità. Questo requisito è fondamentale per definire un’attività “gioco”, avendo il gioco come suo fine nient’altro che sè stesso. Con ciò non si vuole assolutamente negare che il gioco possa avere benefici effetti sulla persona umana (apprendimento, compensazione psicologica, creatività…). Si vuole solo sottolineare che il gioco offre questi suoi benefici effetti gratuitamente, senza che chi gioca debba proporseli[37].

La MDI non ha come obiettivo primario l’apprendimento ma deve determinare una crescita dei partecipanti, comprendendo tra questi l’animatore/animatrice in una relazione di reciprocità. In essa il piacere è elemento centrale: è compito dell’animatore /animatrice costruire le condizioni perché esso si determini, per esempio calibrando le attività sui reali potenziali musicali del gruppo, per evitare vissuti di inadeguatezza e di frustrazione che impedirebbero la possibilità di comunicare attraverso la musica.
Nella MDI il ruolo dell’animatore/animatrice non è di insegnare, ma di proporre materiali e spunti adeguati e intervenire “in situazione”, in modo da permettere e favorire lo scambio e l’interazione musicale tra i partecipanti e l’equilibrio tra due momenti: l’esperienza di crescita comune interna al gruppo e la comunicazione con l’esterno (intenzionalitàconsapevolezza = progettualità).
In questa prospettiva la figura dell’animatore ci pare essere totalmente sovrapponibile a quella del facilitatore. Anche in questo caso preferiamo forse il primo termine, pur riconoscendo l’efficacia del secondo: non sempre si tratta di facilitare, a volte si tratta invece di ascoltare, affrontare e anche proporre situazioni di complessità. Si tratta per lo più di metterci anima e non soltanto mestiere.
In questo senso la MDI può offrire buone occasioni di cooperative learning, pensando soprattutto al concetto centrale di questo stile di apprendimento, l’interdipendenza positiva. C’è interdipendenza positiva in tutte le situazioni in cui gli individui perseguono un obiettivo comune in modo cooperativo, e non competitivo:

Nella situazione cooperativa, gli individui sono vincolati fra loro in modo tale che la probabilità che ha uno di essi di conseguire il proprio obiettivo dipende dalla probabilità che hanno gli altri di conseguire il proprio. Tra essi esistono, cioè, relazioni di interdipendenza “positiva”, poiché la condivisione dell’obiettivo comune diventa fattore propulsivo della crescita e dello sviluppo sia del singolo che dell’intero gruppo.[38].

La MDI, in sintesi, sia nella prospettiva dell’AM che della CM, svolge principalmente le seguenti funzioni:

  • sviluppa le capacità di fare e produrre musica, promuovendo il coinvolgimento attivo e potenziando l’intelligenza musicale individuale e di gruppo;
  • propone occasioni per esplorare e sperimentare modelli relazionali personali e di gruppo, favorendo l’integrazione e la cooperazione;
  • favorisce evasione-divertimento-scarico-compensazione in relazione dialettica con le altre funzioni. Rientra quindi anche la MDI come spazio-tempo di festa;
  • promuove le dimensioni del creativo, del simbolico e del fantastico;
  • fa esprimere comportamenti multiculturali e favorisce un approccio aperto ai diversi linguaggi musicali.

 

Il laboratorio, che è il contesto specifico per l’attuazione di un’attività di MDI nell’ottica dell’AM., ci pare invece non rappresentare il contesto specifico per le esperienze di CM, che spesso sono orientate anche a dimensioni più performative. Occorre in ogni caso tenere conto i significati che affidiamo al termine laboratorio:

  • il laboratorio è un concetto, un’idea, un metodo;
  • è uno spazio/tempo in cui il lavoro convive con, o meglio produce, o, ancora meglio, s’identifica con le dimensioni del piacere, del desiderio, del gioco;
  • è uno spazio/tempo ecologico, in cui le dinamiche relazionali e lo star bene sono valori fondamentali e in cui il fine non è la performance, la rappresentazione o lo spettacolo;
  • il laboratorio non prevede la presenza di pubblico;
  • si fonda su una visione unitaria di corpo e mente, su una dimensione plurisensoriale della musica e della cultura, attivando, a partire dalla relazione persona-musica, percorsi ed esperienze di ricerca, di esplorazione di tracce, segni, simboli;
  • è uno spazio/tempo che riconosce, accetta e valorizza la compresenza di musiche, punti di vista, progetti, competenze, gusti, vissuti musicali, promuovendo identità e autonomie;
  • privilegia una progettualità in situazione, che non si difende e arrocca dietro un sapere disciplinare, che non rinuncia ad affrontare le dimensioni della casualità, dell’imponderabilità, del dubbio, che non pone in secondo piano i contenuti ma tenta di aprirli – e quindi trasformarli, ripensarli, riconvertirli, condizionarli – alle relazioni, alla quotidianità, alle risorse e ai desideri.

 

Conclusioni

L’impressione, alla fine, è che la CM copra un ventaglio di esperienze e contesti così vario che rende difficile considerarla un modello, essendo identificabile con tutte le esperienze di musica d’insieme non rigidamente formalizzate, in cui le dimensioni relazionali e inclusive sono poste al centro del fare musica. Tuttavia, forse è proprio questa sua indefinitezza che costituisce il vantaggio e l’efficacia della parola, a patto di mantenerne visibili i legami, i fili, le componenti che, anche nel contesto italiano,  rimandano ad antecedenti storici che disegnano aree ed esperienze di importante ricchezza culturale.

 

Note

[1] L’uso del plurale in questo testo è motivato dallo stretto confronto avuto durante la stesura con Mario Piatti e Maurizio Vitali, che ringrazio per le attente osservazioni e i preziosi suggerimenti. Ciò non toglie che l’autore sia il responsabile unico di quanto scritto.

[2] All’Animazione Musicale il Centro Studi Maurizio Di Benedetto (CSMDB) ha dedicato, a partire dagli anni ’90,  un’ampia attenzione, con l’attivazione nel 1996 della Scuola di Animazione Musicale, ispirata ai criteri e metodi dell’animazione socioculturale. La denominazione è stata modificata nel 2006 in Scuola di Animazione Musicale ad Orientamento Pedagogico e Sociale (SAMOPS) e portata avanti fino al 2014. Gli obiettivi della scuola erano i seguenti:
– Sperimentare i potenziali espressivi e comunicativi della musica.
– Sviluppare competenze nel campo dell’animazione musicale per sollecitare i potenziali della persona e per promuovere relazioni significative nei gruppi e col territorio.
– Fare acquisire capacità di progettazione e di intervento di animazione musicale come strumento di promozione nei diversi contesti e situazioni sociali.
– Far crescere capacità metodologiche e tecnico-operative di animazione musicale.
– Approfondire la ricerca personale e orientare l’autoaggiornamento anche promuovendo documentazione e diffusione del lavoro di animazione musicale.
Su questo tema si vedano: Maurizio Vitali, articoli della rubrica Taccuino di animazione, sulla rivista Musica Domani (1998-2000); Maurizio Vitali, L’animazione musicale tra formazione e ricerca, in Musica Domani, n. 103, giugno 1997, pp. 24-26; Maurizio Vitali, Appunti e spunti di animazione musicale, in Animazione Sociale, Agosto-Settembre, 2000, pp. 76-81. Per una ricostruzione dettagliata delle proposte del CSMDB di quegli anni si veda: Mario Piatti, Musica: Animazione – Educazione – Formazione. Quasi un’autobiografia, FrancoAngeli, 2012. Il libro fa parte della collana Idee e materiali musicali pubblicata con l’editore FrancoAngeli, che ad oggi conta diciassette titoli, all’interno della quale si possono trovare alcuni testi dedicati specificamente all’Animazione Musicale, tenendo conto del fatto che l’intera collana rappresenta una sorta di piccola enciclopedia dei temi e dei percorsi legati a quell’idea pedagogica. Numerosi altri materiali sono ritrovabili su Musicheria.net, digitando “Animazione Musicale” nel campo di ricerca.

[3] Claudio Mustacchi, Ogni uomo è un artista. Come animare il nostro corpo, Meltemi, Roma, 1999, p. 12-13.

[4] Siamo consapevoli dell’ambiguità del termine Animazione, condividendo in pieno l’analisi proposta su questa parola da Mario Pollo, uno dei suoi maggiori teorici e studiosi: “Il territorio in cui affonda le sue radici il significato della parola animazione sembra avere vissuto numerose invasioni di orde, alcune di passaggio mentre altre si sono insediate in esso. Ognuna di queste orde ha portato in questo luogo lingue e culture diverse, che sino ad oggi non sembrano aver trovato la via per fondersi in una sintesi creativa e innovativa. Questo significa che la parola animazione continua a vestirsi di una pluralità di significati, spesso reciprocamente irriducibili quando non addirittura antagonisti. La conseguenza di questo è una pratica sociale dell’animazione frammentata, composita e difficilmente leggibile come unitaria. Si ha quasi l’impressione che un demone dispettoso abbia introdotto la confusione delle lingue tra coloro che in qualche modo diretto o indiretto si occupano di animazione, al fine di impedire la costruzione di quell’edificio che, senza pretendere di condurre al cielo, consenta di definire lo specifico della pratica sociale/educativa definita animazione”, cfr. Cos’è l’animazione culturale, https://notedipastoralegiovanile.it/index.php?option=com_content&view=article&id=10631:cosa-e-lanimazione-culturale. Di M. Pollo segnaliamo, per una trattazione generale dell’animazione, Educazione come animazione. Vol.I. I concetti, ELLE DI CI Leumann, Torino 1991; VOL. II. Il metodo; ELLE DI CI, Leumann, Torino, 1994.

[5] Le aree in cui l’animazione culturale si è sviluppata storicamente in Italia sono quattro, partendo dall’Animazione teatrale, le cui figure storiche più conosciute sono Rodari, Passatore e Scabia. Si passa poi all’Animazione socioculturale, rappresentata soprattutto dalla rivista Animazione Sociale, fondata a Milano nel 1971 da Aldo Guglielmo Ellena. Animazione Sociale è, ancora oggi, il mensile di formazione e studio per chi, a vario titolo, opera nel sociale (educatori, assistenti sociali, psicologi, pedagogisti, cooperatori sociali, operatori socio-sanitari, insegnanti, sociologi, psichiatri, infermieri di comunità, cittadini attivi, professionisti che lavorano nei servizi, nelle cooperative sociali, nelle associazioni, su problemi sociali ed educativi). Una terza area è quella denominata Animazione Culturale, che fa capo alla rivista Note di Pastorale giovanile, che ripensa l’animazione come modello educativo valido sia nella scuola che nell’extrascuola. La quarta area è quella che fa capo ai contesti turistici che non si pongono obiettivi educativi ma esclusivamente ricreativi.

[6] L. Higgins, citato in Antonella Coppi, Community Music. Nuovi orientamenti pedagogici, FrancoAngeli, Milano, 2017, p. 59.

[7] Dal sito https://communitymusic-italy.it/. O anche in Antonella Coppi, ivi., p. 17.

[8] Rimandiamo per una trattazione approfondita della CM, oltre al libro di Antonella Coppi già citato anche a Antonella Coppi (a cura di), Donare-Donarsi. Relazioni, interdipendenze e inclusione nella pedagogia della Community Music, Libreria Musicale Italiana, Lucca, 2020.

[9] Francesca Sardon, Carlo Nardi e Anna Dalle Piatte, “Community music, benessere sociale e cittadinanza culturale in un’area urbana decentralizzata: un progetto dell’Azienda Servizi Sociali di Bolzano”, in Johan van der Sandt, La Community Music in Italia. Cenni storici, modelli pedagogici, contesti sociali, Carocci Editore, Roma, 2019, pp. 112-113.

[10] Un esempio particolare è quello denominato Rockin’1000. L’idea del progetto nasce per volontà di Fabio Zaffagnini nel 2014, con il reclutamento di membri volontari per registrare un video in omaggio al gruppo Foo Fighters.  Il 26 luglio 350 chitarristi, 250 cantanti, 250 batteristi e 150 bassisti registrano il brano Learn to Fly . Il video viene pubblicato su YouTube, ottenendo milioni di visualizzazioni nell’arco di pochi giorni. Il 29 luglio 2023 a Cesena è previsto l’evento Rockin’1000 for Romagna, concerto per la raccolta di fondi da destinare alla regione colpita dall’alluvione.

[11] Oltre al libro citato nelle note precedenti, ci riferiamo al volume di Paolo Alberto CanevaStefania Mattiello, Community Music Therapy. Itinerari, principi e pratiche per un’altra musicoterapia, FrancoAngeli, Milano, 2018.

[12] Una descrizione sintetica di questi due stili di “animazione musicale” si trova in Enrico Strobino, Il suono, l’istante e l’avventura. Educazione Musicale e improvvisazione, Progetti Sonori, Mercatello sul Metauro, 2022. Libri specifici dedicati alle due pratiche sono: Stefano Baroni, Circular Music, Solos Media, Milano, 2022; Arthur Hull, Drum Circle Facilitation. Rafforzare la comunità attraverso il ritmo, Ed. Italiana, 2020. Più in generale riteniamo utile anche la consultazione di due libri di Annibale Rebaudengo: Gli adulti e la musica. Luoghi e funzioni della pratica amatoriale, EDT, Torino, 2005; La musica per amare la vita. Gli adulti musicisti amatoriali, ETS, Pisa, 2021. Su questo tema si veda anche di L. Matteo Lorenzetti e Mario Piatti (a cura di), Musica adulti terza età. Quaderni di Musica Applicata n. 6, Pro Civitate Christiana, Assisi, Novembre 1984.

[13] Non intendiamo qui addentrarci nella descrizione approfondita di queste pratiche: anche in questi ambiti vi sono moltissime differenze, legate sia ai singoli “facilitatori” che ai diversi tipi di contesti in cui vengono realizzate le esperienze. Ci limitiamo a indicarle come esempi di CM a tutti gli effetti.

[14] Per una panoramica più esaustiva del concetto di “comunità” rimandiamo a: Monica Parricchi, “Dal gruppo alla comunità. Intrecci di educazione alla partecipazione”, in A. Coppi (a cura di), Donare-Donarsi, cit., pp. 83-92.

[15] P. Caneva e S. Mattiello, op. cit., p. 24.

[16]  Rimandiamo per questo e altri temi attinenti a Elena Malaguti (a cura di), Musicalità e pratiche inclusive. Il mediatore musica fra educazione e benessere, Erikson, Trento, 2017. Si veda inoltre anche Mario Piatti (a cura di), Educazione musicale o musicoterapia?, Quaderni di Musica Applicata, n. 1, Pro Civitate Christiana, Assisi, 1982. L’intera collana dei Quaderni di musica applicata, edita dalla PCC (23 numeri fino al 2012) testimonia e documenta un ricchissimo dibattito inerente alle prospettive qui indicate.

[17] A. Coppi, op. cit. p. 191. È interessante far notare a questo proposito che la Fondazione G. E. Ghirardi Onlus, in collaborazione con il Ministero dell’Istruzione e del Merito e del Comitato per l’apprendimento pratico della Musica per tutti gli studenti, ha scelto la denominazione di Orchestre sociali per riferirsi a questo tipo di esperienze presenti in Italia. Cfr Le orchestre sociali. Convegno internazionale Edizione 2023 (https://www.fondazioneghirardi.org/le_orchestre_sociali/#gref)

[18] A questo proposito si rimanda al documento L’educazione musicale nella scuola di base, elaborato dal gruppo musica del Movimento di Cooperazione Educativa (composto da Maurizio Disoteo, Pierpaolo Marini, Diana Penso, Mario Piatti, Renato Rovetta, Maurizio Spaccazocchi, Enrico Strobino, Maurizio Vitali), pubblicato originariamente su Cooperazione Educativa, numero 1/98, ripreso in Mario Piatti, Enrico Strobino, Grammatica della fantasia musicale. Introduzione all’arte di inventare musiche, FrancoAngeli, Milano, 2011, pp. 240-246. In questa stessa direzione non è da dimenticare tutto il movimento nato intorno alle Scuole Popolari di Musica, a partire dalla Scuola Popolare di Musica di Testaccio fondata nel 1975, e poi, sempre a Roma, Donna Olimpia, il Crams a Lecco, La Cooperativa l’Orchestra a Milano, ecc. Frammenti, esperienze e riflessioni su questa storia si possono trovare in Bruno Tommaso e Alfredo Gasponi, La scuola che sognavo. La musica come bene comune, il jazz come dialogo, Edipan, Roma, 2020; altre tracce sono diffuse nella rivista Laboratorio Musica, dal 1979 al 1982 (cfr. Mario Piatti, Musica: Animazione- Educazione-Formazione, cit, pp. 10-17). Sempre a cura di Mario Piatti si vedano anche gli articoli che rimandano ai vari numeri di Laboratorio Musica presenti in Musicheria.net., con la storia, gli editoriali e parte dei contenuti pubblicati dalla rivista.

[19] “Community Music”, Corso di Storia della Musica – Università degli Studi della Basilicata, p.7. (https://www.studocu.com/it/document/universita-degli-studi-della-basilicata/storia-della-musica/community-music/11859392)

[20] Antonella Coppi, “Ruoli e identità professionali nella community music: artistry, community musician e teaching artist”, in Johan van der Sandt, op. cit., p. 59.

[21] Franco Lorenzoni, “Introduzione. Conoscenza e riconoscenza”, in Educare controvento. Storie di maestre e maestri ribelli, Sellerio, Palermo, 2023, pp. 11-18.

[22] A. Coppi, op. cit. p. 79. Ciò non significa che il fare musica come elemento fondamentale dell’educazione musicale sia in Italia totalmente assunto e realizzato. Sta di fatto però che dal 2006 esiste a livello ministeriale un Comitato nazionale per l’apprendimento pratico della musica per tutti gli studenti (CNAPM), il cui “slogan” è stato fin dall’inizio “fare musica tutti”.

[23] Si tenga conto che l’ISME (International Society for Music Education) fin dal 1982 ha costituito una specifica commissione denominata Community Music Activity (CMA).

[24] Community Music”, Corso di Storia della Musica – Università degli Studi della Basilicata, cit., p. 11.

[25] Cfr. “Community Music”, Corso di Storia della Musica – Università degli Studi della Basilicata, cit. p. 13.

[26] Loredano Matteo Lorenzetti, Persona Amore Bellezza, Meltemi, Milano, Franco Angeli, p. 15.

[27] Claudio Mustacchi, op. cit, p. 52-53.

[28] Piero Bertolini, Marco Dallari, “A proposito di giudizio estetico e mass media”, in Anna Rita Addessi, Roberto Agostini (a cura di), Il giudizio estetico nell’epoca dei mass media, Libreria Musicale Italiana, Città di Castello, 2003, p. 110.

[29] James Hillman, Politica della bellezza, Moretti & Vitali, Bergamo, 1999, p. 31.

[30] James Hillman, L’anima del mondo e il pensiero del cuore, Adelphi, Milano, 2002, p. 149.

[31] J. Hilmann, Politica della bellezza, cit. p. 13.

[32] J. Hilmann, L’anima del mondo e il pensiero del cuore, cit., p. 131.

[33] Tra formazione e ricerca l’animazione si fa progetto, Musicheria.net (https://www.musicheria.net/2011/11/25/tra-formazione-e-ricerca-lanimazione-musicale-si-fa-progetto/)

[34] In questa direzione non possiamo non ricordare anche le ricerche e le riflessioni documentate nei dieci numeri della rivista PUM. Progetto Uomo-Musica. Educazione/Animazione/Terapia/Ricerca, pubblicati dalla Pro Civitate Christiana dal 1992 al 1996.

[35] Tra formazione e ricerca l’animazione si fa progetto, cit.

[36] Riprendiamo qui più sinteticamente le riflessioni proposte in Enrico Strobino, “Animazione e musica d’insieme”, in Musiche in cantiere, FrancoAngeli, Milano, 2001, pp. 11-15.

[37] Mario Pollo, “L’Animazione attraverso il gioco e lo sport”, in Animazione Sociale n.5, 1997.

[38]  Mario Comoglio, “Verso un’interdipendenza positiva”, in Animazione Sociale n.1, Gennaio 1999, Gruppo Abele.

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