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Albert Mayr: la musica come impegno civile

Roberto Barbanti

Un ricordo di Roberto Barbanti

Albert Mayr (1943-2024) è una persona forse poco conosciuta in ambito didattico, ma la sua opera, i suoi scritti, la sua produzione artistica hanno influenzato in modo determinante chi in questi anni si è occupato di paesaggio sonoro, di improvvisazione, di valorizzazione dello spazio sonoro. Personalmente ho conosciuto Albert tramite il comune amico Guido Bresaola, partecipando negli anni 70 ad alcune loro performance a Firenze. Ho chiesto a Roberto Barbanti un ricordo di Albert che ci ha lasciato il 28 gennaio scorso. Questo che segue è il suo scritto. Grazie Roberto. (Mario Piatti)

Foto. Giardino dell’ambasciata Canadese a Roma, 25 settembre 2003.
In piedi, da sinistra a destra: Luca Miti, Massimiliano Liverani, Letizia Bolognesi, Albert Mayr, Marco Geronimi Stoll. In ginocchio, da sinistra a destra: Giovanni Antognozzi, Antonello Colimberti, Francesco Michi, Roberto Barbanti.

Ho conosciuto Albert Mayr nella seconda metà degli anni ’70 al conservatorio Cherubini di Firenze.  È difficile descrivere ora il mondo di allora così come la classe di musica elettronica dove Albert insegnava. Al corso non erano molti gli iscritti, forse poco più di una decina, e le lezioni di Albert, anche se spesso tecniche e didattiche, non ci davano mai l’impressione di una corvée scolastica. Avevamo piuttosto il senso di un’operatività collettiva in atto, condivisa e amichevole. La classe era in fondo a un corridoio, al primo o secondo piano del conservatorio. L’equipaggiamento tecnico era spartano: c’era un rack di oscillatori, due Revox e un EMS Synthi, un sintetizzatore rinchiuso in una valigetta 24 ore. La classe era molto buia – la luce entrava da una sola finestrella in alto – e quasi isolata in quel palazzo storico della piazzetta delle Belle Arti. La localizzazione di quella stanza indicava perfettamente l’importanza e il senso che l’universo musicale elettronico e sperimentale aveva in quelle istituzioni. Un ruolo poco luminoso e marginale, in effetti. Nessuno di noi se ne preoccupava. Eravamo tutti fuori, nel mondo. Simbolicamente e letteralmente al suo ascolto. Il mondo, dentro e fuori, ci sembrava a portata di mano ed eravamo certi d’intenderlo. Potevamo cambiarlo e in questo senso ci eravamo impegnati. Albert e gran parte di noi studenti avevamo partecipato e continuavamo a partecipare a quel grande e poderoso, per noi evidente e vitale, movimento di rivolta e di ricerca che scuoteva l’Italia e il mondo. Non c’era iato tra l’impegno politico rivoluzionario e il “fare musica”. “Fare arte” era fare vita e fare vita era fare politica, cioè immergersi totalmente nella polis planetaria. In tutto ciò, se pensiamo in termini estetici, quegli anni furono l’espressione e l’apogeo del messaggio delle neo-avanguardie artistiche: “l’arte è la vita”, così si diceva, e così per noi andò. Si trattò di una fase intensa delle nostre esistenze di cui né Albert né molti tra noi ci pentimmo mai.

La fine del decennio segnò tuttavia la transizione verso “les années d’hiver”, quegli “anni d’inverno” che Felix Guattari aveva visto, con estrema lungimiranza, prospettarsi all’orizzonte. Un inverno che ancora persiste e che anzi sembra decisamente peggiorare. All’inizio degli anni ottanta cercai di andarmene. M’iscrissi al dottorato in Francia nell’83 e mi trasferii definitivamente nel 1990. I rapporti con Albert, anche se distanti e meno frequenti, rimasero intensi e la collaborazione continuò. Tra i tanti incontri comuni, ricordo i primi giorni di settembre del 1990, quando Albert m’invitò, insieme a Letizia Bolognesi, a Bolzano al Museo d’Arte Moderna della sua città dove aveva organizzato la rassegna Sonorità di confine. Nel 1997 Albert venne in Francia per partecipare al Congresso Internazionale di Ecologia Sonora[1], che si tenne all’Abbaye de Royaumont il 2 e 3 agosto, partecipando alla sezione congressuale che vi avevo organizzato: L’orecchio al posto degli occhi – La navigazione non-vedente[2]. Nel settembre del 2003 Albert m’invitò insieme a molti altri, direttamente o indirettamente legati alla “sua scuola”, all’ambasciata del Canada, a Roma, per la manifestazione The Tuning of Italy: un omaggio a Murray Schafer che compiva allora settant’anni. Diverse persone, credo, non poterono venire, ma c’è una bella foto di quell’evento, alla quale sono particolarmente affezionato, dove alcuni di noi posano nel giardino dell’ambasciata. Traspare una atmosfera serena e intensa in quei volti sorridenti e amici, Albert sembra contento e soddisfatto. Noi con lui. Nel gennaio 2010 Albert è ancora in Francia per partecipare all’incontro di ricerca “Esperienza di paesaggi/o”[3] che avevo organizzato alla École Supérieure d’Arts di Rueil-Malmaison vicino a Parigi. Nel maggio di quello stesso anno Albert ritornò a Parigi per un altro convegno, “Esperienza di paesaggi/o. Pratiche e pensieri ecosofici[4], che si svolse all’università di Paris 8, dove insegnavo.

Un ultimo ricordo al quale sono estremamente legato riguarda la sera del 20 agosto 2012 nella Maison Stella del piccolo paesino di Saillon nel Valais Svizzero. Albert era stato insignito del Prix Giuseppe Englert, un premio di diecimila franchi svizzeri attribuito quell’anno a un/una esponente di rilievo internazionale attivo/a nell’ambito dell’ecologia sonora. In quanto presidente della giuria fui demandato all’elogio pubblico (Laudatio) del laureato. Fu un grande piacere e un onore. Parlai per più di 20 minuti arrivando al termine del mio discorso quasi senza voce e un po’ commosso. Ero in piedi, nel mezzo della stanza, di fronte a un pubblico numeroso per una circostanza di quel genere che mi ascoltò in un silenzio quasi religioso. Albert, seduto alla mia destra a qualche metro di distanza mi guardava: attento, impassibile. Lo ricordo alla fine, sorridente. Scrissi quella Laudatio anche sulla base di una fitta corrispondenza telematica che avevo intrapreso con lui l’anno precedente. Il 3 marzo del 2011 gli avevo inviato, in effetti, una mail dove proponevo un dialogo comune sul suo lavoro al fine di farne una pubblicazione, in libro o in rete. Aveva accettato la proposta e cominciammo a scriverci mail. I nostri scambi durarono in modo regolare un po’ più di sette mesi. Raccolsi in seguito i vari materiali e cercai con Albert un’occasione d’incontro per mettere in ordine il tutto. Due, tre appuntamenti non funzionarono e di fatto non riuscimmo a far nulla. Ognuno di noi due era preso dall’urgenza di impegni professionali e del quotidiano. Poco a poco, di fatto, la finalizzazione del progetto ci sfuggì di mano anche se ogni tanto ci scrivevamo nuove mail per rilanciare il tutto e prospettare una conclusione. Ho riletto, in questi giorni, quei nostri messaggi e mi sono ripromesso di pubblicarli.

In quella corrispondenza, tra notizie del quotidiano, informazioni varie e battute innocenti, appaiono chiaramente il percorso, la “po-etica” e la singolarità del suo progetto. Con le sue pratiche teoriche e artistico-musicali Albert ha effettivamente rinnovato profondamente l’ambito della ricerca estetica italiana e internazionale. Anche se non frontalmente e in modo esplicito, fu primissimo a tematizzare nella cultura italiana la nascente “Environmental aesthetics”, che nei primi anni settanta del secolo scorso iniziava a costituirsi in ambito filosofico analitico anglosassone. Di quelle ricerche Albert abbordava la sfera forse più originale e fondamentale: gli aspetti specifici della questione dell’ecologia acustico-sonora di cui l’estetica ambientale non aveva colto né il ruolo né la portata. I primi testi teorici di questa nuova corrente filosofica vertevano infatti quasi esclusivamente sulla questione della bellezza naturale e sulla volontà teorica d’istituire e legittimare una possibile equivalenza valutativa tra un paesaggio e un oggetto d’arte. Le arti visive erano predominanti in quelle ricerche e nessuno in realtà si avventurò nella teorizzazione della sonosfera. Solo i musicisti lo fecero prendendo il coraggio a due mani e assumendo molto spesso in prima persona i compiti storici e teorici relativi a quel nuovo ambito di ricerca. Ancora una volta, per chi non l’ha vissuto, è difficile rendersi conto di quanto accadeva. L’ecologia era derisa, non parliamo dell’ecologia acustica… Quasi tutti, dai marxisti ai liberali, erano pronti a fare l’elogio delle forze di produzione, del progresso e dello sviluppo. La loro critica comune al nascente movimento ecologista – forse, ed è tutto dire, la più arguta – lo accusava di voler “ritornare all’epoca della candela”. Albert, che pure come noi s’inscriveva nella galassia marxista, portava avanti le sue idee e le sue pratiche con forte determinazione, incurante delle critiche o del disinteresse. Non si trattava, beninteso, di un’alterità spocchiosa. Albert non fu mai disdegnoso nel suo modo di porsi, ma neanche modesto. Era pienamente consapevole del suo modo di fare e non si scusava affatto di farlo. Lo faceva e basta: senza presunzione né vittimismo. Affermava le sue idee con semplicità e risolutezza senza lasciarsi intimorire dalle mode, dal pensiero mainstream o dai circoli potenti. In questo fu veramente, sempre, esemplare e memorabile. La sua indifferenza al successo, la sua mancanza di egocentrismo, la sua calma distaccata e disinteressata ci tranquillizzavano e ci liberavano nella ricerca di ciò che volevamo essere. Albert fu un vero modello di pedagogo e di ricercatore estetico.

Quello che solo pochi capivano allora di lui e che forse rimane per alcuni ancora incompreso è che Albert lavorava sui fondamentali estetici: lo spazio, il tempo, il sentire. Li considerava non in quanto tali, cioè come dimensioni date e inesplorabili – si potrebbe dire nel senso trascendentale kantiano di condizioni di conoscenza a priori degli oggetti –, ma come terreno sperimentale diretto, come ambito pragmatico e totalizzante di azione. Questo suo empirismo fenomenologico aveva anche un altro caposaldo essenziale: il minimalismo. Sul suo incontro con il minimalismo non mi sembra che ci si sia attardati molto, né ricordo dei riferimenti precisi e approfonditi nei suoi scritti. Nelle mail che ci scambiammo invece, affrontò varie volte questa problematica. L’11 aprile del 2011 mi scriveva: “È stata molto importante una mostra a Toronto nel 1969 con alcune opere minimaliste che hanno segnato un ‘point of no return’.[5]
Alcuni mesi dopo, il 10 ottobre, su un tono decisamente più umoristico mi fece parte di un “Piccolo aneddoto: nel 1972 a Darmstadt Christian Wolff, presentò, penso per la prima volta in Europa, musiche di Reich e Glass e io dissi che si poteva parlare di una sorta di minimalismo, venendo subito veementemente contestato. Avrei dovuto depositare il termine, e ora sarei famoso.[6]
Ovviamente questa battuta non indicava tanto un desiderio di “successo” quanto piuttosto la constatazione di una mancanza di apertura intellettuale in auge negli ambiti più diversi, musica contemporanea inclusa. Albert, che certo era contento se i suoi lavori venivano apprezzati, era consapevole del fatto che la sua proposta di ricerca potesse essere sottovalutata anche nel contesto della cosiddetta “avanguardia”. Abbiamo conferma di questa sua lucidità in un suo testo[7] del 2008 nel quale aveva raccolto diversi suoi materiali. Il libro finiva con una frase nella quale, un po’ sconsolato ma comunque determinato, scriveva che dopo un incontro con il grande critico e filosofo americano Nelson Goodman al quale aveva parlato del suo progetto di lavoro sul tempo, questi lo guardò imbarazzato, senza dire nulla. Scrive Albert: “Compresi, ancora una volta, che con i miei progetti non avrei avuto vita facile. Ho continuato lo stesso.[8]” E fece bene.
Ho sempre visto in Albert un uomo equilibrato, riservato e finanche austero. Era, in effetti, poco avvezzo a slanci affettivi ostentati o entusiasmi passeggeri. Un uomo signorile nel portamento, distinto nei modi e preciso nel linguaggio con quella sua elocuzione ponderata e scandita nell’accento un po’ marcato del nord italiano germanofono. La sua padronanza di linguaggio e delle lingue mi affascinava. Poteva passare con naturalezza dall’italiano al tedesco, all’inglese, al francese, al latino e al greco antico e, se i miei ricordi sono buoni, anche allo spagnolo. Forse conosceva anche altri idiomi poiché aveva frequentato la facoltà di lingue prima di dedicarsi completamente alla musica. Questa capacità poliglotta lo aveva sicuramente facilitato nella rete di rapporti internazionali che aveva costruito così come nella ricerca teorica e artistica e nell’insegnamento. Nei suoi corsi infatti, capitava che ci traducesse, in tempo reale, testi e dichiarazione di altri compositori, artisti e teorici stranieri fornendoci, così, un panorama attualissimo di quanto si stava facendo o pensando qua e là nel mondo. Era un vero pedagogo. Mi piaceva seguire i suoi corsi. Aveva la capacità di ascoltare e di ascoltarci. Non una sola volta ho potuto verificare o sentire in Albert una qualsiasi forma di violenza simbolica. Ognuno di noi, al di là delle proprie capacità e competenze, si sentiva attore riconosciuto di quella scuola nella quale ci identificavamo pienamente. Al tempo si parlava di “Scuola di Firenze” per indicare un insieme di musicisti operanti nella città, ma per noi la “Scuola di Firenze” era essenzialmente quella di Albert e di Pietro Grossi – di cui Albert era stato assistente e del quale seguivamo ugualmente i corsi. Albert e Grossi, sebbene molto diversi, erano in realtà molto uniti e concordi su alcune posizioni “est-etiche” fondamentali che non solo sostenevano profondamente, ma che incarnavano entrambi fattualmente. Erano l’esatta antitesi del ruolo conformista che la società dello spettacolo, social-mediatico, attuale genera e pretende dagli artisti di oggi: narcisismo, disponibilità all’automercificazione, agio promozionale. Di Albert e Grossi, poche sere fa, Letizia Bolognesi mi ricordava, non a caso, la coerenza e il rigore etico. Credo che questo modo di essere abbia forgiato tutti e tutte coloro che hanno lavorato con loro. Ma soprattutto, la loro connivenza mi sembra fondata sul senso profondo che attribuivano al fare musica e arte. Avevano entrambi una concezione estetica complessa e aperta che s’inscriveva nella critica della tradizione idealistica e del pensiero antropocentrico. Con loro l’artista e l’opera si diluivano nel sociale: nel fare “sé-operante” delle macchine per Grossi, nelle temporalità vissute e cosmiche così come nella musicalità dei paesaggi per Albert.
Cortesi e autorevoli, seppero includere nel loro ascolto il mondo offrendoci chiavi di lettura inedite e modi di sentire non convenzionali e di grande singolarità. Decisamente due uomini e due compositori di talento ed eleganti. Eleganti in tutti i sensi.
Di Albert – lo devo scrivere a onor del vero – mi piaceva meno il suo modo di vestirsi che mi sembrava un po’, diciamo, “spento”. Capii anni dopo che la sua era un’eleganza mitteleuropea – dove predominano i colori smorzati delle terre e delle luci temperate dei tramonti viennesi: tra beige, rosso opaco, verde e grigio – e che il suo stile vestimentario era, spontaneamente, decisamente accurato. Albert infatti era attraversato dai paesaggi mentali e materiali della sua terra natale. Di quei luoghi esprimeva forme, colori e voci. Una cultura con la quale aveva dovuto fare i conti fino in fondo. Una cultura dalla quale non aveva fatto secessione, ma che non esitava a criticare direttamente, e aspramente. Non si privava di ricordare all’establishment sudtirolese la sua passività e vigliaccheria nell’aver taciuto, e di fatto continuato a tacere, la morte del padre, cattolico fervente canonizzato nel 2017, dovuta al suo rifiuto di giurare fedeltà ai nazisti delle SS nel 1944. Di quegli eventi Albert non mi aveva praticamente mai parlato. Solo una volta, non tanti anni fa, nella quale fece un vago riferimento al padre e al peso che quella morte aveva su di lui anche in termini di un modello, forse, troppo alto da portare.
Gli ho parlato l’ultima volta al telefono la domenica 14 maggio dell’anno scorso. Ero a Firenze con molti dei nostri amici e amiche comuni per il concerto – ALBERTMAYR-80 / Dalla musica elettronica al progetto del tempo[9] – interamente dedicato alla sua Opera e in omaggio ai suoi ottant’anni. Speravo di poterlo vedere in quell’occasione ma Albert, purtroppo, già troppo affaticato, non riuscì a essere presente. Gli dissi che quella serata era stata molto bella e affollata, che avevo dovuto ascoltare tutto il concerto in piedi talmente l’affluenza di pubblico era stata considerevole. Un vero successo. Mi sembrò contento. Sapevo che difficilmente avrei avuto un’altra possibilità di parlargli o vederlo. Ci salutammo, la mente mi tornò a una sera di primavera del 1981, sotto il loggiato della Galleria degli Uffizi di Firenze, dove partecipai all’esecuzione di Parcours rythmé, una sua opera di musica ambientale, minimalista e bella. Fu un momento per me intenso, di comprensione profonda del suo operare e anche d’ispirazione. Lo sapeva, glielo scrissi e glielo dissi varie volte. Mi ringraziò.
Ecco quanto.
Anni e anni fa, non ricordo dove, incontrandomi forse con Francesco, Letizia e Mechi, chiesi loro notizie di Albert. “E il divino maestro come sta?”, dissi tra lo scanzonato, il serio e il connivente. Stava bene, e dall’ora tra noi questo appellativo rimase ed ebbe anche un certo “successo”. Ogni volta che ci si incontrava con Mechi, Francesco, Letizia, Stefano, Daniela, Luca e diverse altre conoscenze amiche di Albert e nostre, questo era il nome che gli davamo.
Fu veramente per noi maestro. E tale per noi resterà.
Il Divino Maestro.

[1] Congrès International de l’Écologie Sonore.

[2] L’oreille au lieu des yeux – La navigation non-voyante.

[3] Expérience de paysage(s).

[4] Expérience de paysage(s). Pratiques et pensées écosophiques.

[5] Mail del 15 aprile 2011 alle 17:45.

[6] Mail del 10 ottobre 2011 alle 13:40.

[7] Albert Mayr, Zeitarbeiten / A tempo 1977-2007, Firenze, Alefbet, 2008, p. 63.

[8] Ibid.

[9]ALBERTMAYR-80 / Dalla musica elettronica al progetto del tempo. Sabato 13 maggio 2023, ore 21.30 presso MAD, Piazza delle Murate, Firenze. Forum Klanglandschaft – Italia, Tempo Reale e Murate Art District rendono omaggio con un concerto agli ottant’anni del musicista, artista, studioso Albert Mayr.” (Programma di sala).

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