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La bambina silenziosa

Considerazioni per una pedagogia del silenzio

Bianca è una bambina silenziosa. Durante la lezione compie movimenti lenti, dispone il materiale scolastico sul banco con precisione, l’astuccio, il quaderno e il libro. Ha un leggero sorriso sulle labbra, i suoi occhi si posano leggeri tutt’intorno. I compagni sanno che lei c’è, percepiscono il suo spazio vitale. Quando scrive sembra che la penna danzi sul foglio, è continua, dolce, controllata. Durante la spiegazione alza la testa. Il suo viso è occhi e labbra, il suo sguardo accoglie le mie parole, le sue labbra le curano, le assaporano. Rubare il suo sguardo non è facile, appena lo incroci, lei reclina la testa sul quaderno, scrive qualcosa, talvolta ammira ciò che ha disegnato. Nelle discussioni non interviene, lascia che parlino gli altri, se ritiene che qualcuno sia impertinente lancia uno sguardo furtivo e poi sorride sul quaderno. Non la vedi mai raccogliere oggetti, o aprire la cartella, sembra tutto al posto giusto, nel momento giusto. Quando facciamo musica d’insieme attende le indicazioni, segue i gesti; se commette un errore lo risolve in autonomia, guarda un compagno o una compagna, prende spunto, imita, cerca una via.
Bianca non parla, solo se interpellata risponde, in modo laconico, composto, calmo. Bianca non si arrabbia, sorride ma non ride. Non ama il contatto fisico, anche se non lo rifiuta. Bianca nei giudizi di fine anno è una ragazza che socializza in modo non sempre adeguato, partecipa alla vita della scuola soltanto se sollecitata.

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Il silenzio negativo

“Quando osserviamo il silenzio dei nostri studenti, non sempre ne riconosciamo il valore, né di solito apprezziamo la possibilità di usare questo silenzio in modo creativo”[1]. Gli insegnanti interpretano il silenzio, che i bambini e i ragazzi manifestano a scuola, a partire da un pregiudizio difficile da scardinare: il silenzio è prevalentemente un atto disciplinare oppure un atto di riflessione[2]. Il silenzio è necessario per comunicare, per non sporcare la chiarezza e la pulizia della parola dell’insegnante affinché questa possa entrare immacolata nella testa dei ragazzi, condizione indispensabile per evitare ambiguità e difficoltà di comprensione. Si comunica con la parola, non con il silenzio. In questo senso, il rapporto fra parola e silenzio è considerato opposto.

Comunicazione

Non comunicazione

Parlare

Silenzio

Silenzio come riflessione

Silenzio come disciplina del comportamento

Il silenzio assume immediatamente una connotazione negativa, il bambino comunica con la parola, con il silenzio non comunica. Per comprendere il messaggio dell’insegnante è necessario stare in silenzio. Il silenzio diventa uno strumento per disciplinare il comportamento. L’insegnante compie alcuni gesti per ottenere il silenzio, come alzare l’indice della mano verso le labbra, dare un’occhiata minacciosa allo studente, oppure esclamare “Silenzio!”. Sono azioni che impongono (non semplicemente “chiedono”) una risposta all’interlocutore, e non una qualunque ma una precisa risposta: tacere (che spesso implica anche l’inattività). Si tratta di azioni impositive, ingiuntive poiché ordinate dall’insegnante che in tal caso assume una posizione di autorità e di superiorità. A ben vedere né la superiorità né l’autorità sono caratteristiche proprie di un insegnante, casomai, fra le altre, l’asimmetria e l’autorevolezza che esprimono il rapporto fra docente e discente.
È vero che il silenzio è una dimensione carica di ambiguità, e in questo senso si possono creare difficoltà nella comprensione fra studente e insegnante: “il silenzio è di per sé ambiguo e ha la capacità di suscitare diverse interpretazioni, il che rende il silenzio una delle maggiori fonti di incomprensione nelle interazioni quotidiane”[3]. Anche per tale motivo, il silenzio è presente durante una lezione in classe con una bassa percentuale, secondo Flanders addirittura meno del 12%[4]. In generale, l’uso del silenzio è nella maggioranza dei casi relativo alla volontà dell’insegnante di esercitare il suo potere sugli alunni[5]. In tale contesto il senso che l’insegnante e l’allievo attribuiscono al silenzio è diverso. Per l’insegnante il silenzio è un momento significativo poiché è condizione per comunicare, mentre per lo studente lo è il parlato. Lo studente vive generalmente il silenzio come una condizione per apprendere, non per comunicare.
In realtà il silenzio può essere concepito diversamente: “Il silenzio è inteso nella sua natura originaria, come spazio-tempo in cui conservare e sperimentare il sorgere e il rinnovarsi dell’esserci autentico”[6].  Casadei pone il silenzio alle radici della nostra condizione di esseri nel mondo, addirittura come la natura originaria che consente all’essere di emergere. Perché non considerare il silenzio dello studente come una delle sue forme di espressione autentica che rivela la natura della persona che abbiamo di fronte per come è effettivamente?  “Quando osserviamo il silenzio dei nostri studenti, non sempre ne riconosciamo il valore, né di solito apprezziamo la possibilità di utilizzare questo silenzio in modo creativo” (Zembylas; 195). Come abbiamo già detto, la dimensione silenziosa è ambigua. L’alunno è in movimento? Sta facendo un percorso? Cerca di esprimere qualcosa? Sta “discorrendo”? Sta raccontando? Sta ascoltando? È distratto? Sta elaborando? Immaginando? Soffrendo oppure è in estasi? L’insegnante non apprezza il silenzio dell’alunno poiché, avendo una predilezione per un atteggiamento lineare, risolve la dimensione silenziosa nell’immobilità e nella mancanza di partecipazione (discorsiva, espressiva, emotiva) dell’alunno. Si tratta di considerare la possibilità che anziché un atteggiamento lineare lo studente manifesti nonlinearità, altrettanto comunicativa, espressiva e piena emotivamente[7].
Solo uscendo dalla dicotomia Non comunicazione / Silenzio possiamo valorizzare il silenzio dal punto di vista pedagogico. A questo proposito vorrei riconsiderare la tabella precedente alla luce di una distinzione che può aiutarci a trovare una via alternativa per la pedagogia dell’educazione, la distinzione fra Linearità e Nonlinearità[8].

Considerazioni utili per una pedagogia del silenzio

In generale l’agire viene pensato come un portare a compimento l’azione, e sulla fine si concentra l’interesse dell’attore e dell’insegnante. Quando il compimento dell’azione diventa un prodotto, sia l’allievo che l’insegnante lo considerano come la cartina di tornasole di un buon agire. A partire dal risultato inizia il processo valutativo dell’agire nel suo complesso. Se questa prassi ha una sua validità non può però essere considerata esaustiva del processo dell’apprendere. D’altra parte, non si tratta di sostituire semplicemente il prodotto con il processo. Se considerare il processo dell’agire significa analizzarlo rispetto al concatenarsi causale degli eventi e spiegare il risultato rispetto a tale percorso, allora faremo ben pochi progressi. La nostra analisi rimane in un’ottica prevalentemente lineare[9]. Occorre ripensare l’agire alla luce del binomio linearità-nonlinearità in modo da riconsiderarlo nel suo complesso, e per far ciò è necessario soffermarsi sulle caratteristiche nonlineari dell’agire.

Possibilità di senso

Un agire non lineare apre alle possibilità di senso. Ad esempio, apprendere tramite l’uso del linguaggio verbale è di fondamentale importanza ma non è l’unico modo. La parola prevale sul silenzio nei contesti educativi poiché è garanzia di correttezza formale e chiarezza comunicativa. D’altra parte, la comunicazione non verbale fatta di gesti, sguardi, suoni, silenzi e movimento, arricchisce la capacità interpretativa e stimola l’immaginazione. Non si tratta di inserire l’agire presente nella linea temporale che dal passato porta al futuro ma di aprirsi alle possibili trasformazioni che mantengono un’invarianza che tiene nel tempo presente. Si tratta di agire sulla ritenzione riempiendola di immaginazione che in trasparenza con il presente determina ciò che rimane costante e ciò che cambia se quella eventualità diventasse attualità. Naturalmente a ciò segue una decisione che non ha valore rispetto al rapporto di successione che ciò che è accaduto precedentemente ma in quanto esito di un agire nonlineare. L’agire non è guidato da motivazioni, accade come accadere che mantiene proprie caratteristiche costanti.

Capacità di tenere un valore

Possiamo chiamarla “invarianza valoriale”, ovvero la capacità di modificare il nostro agire tenendo fermi alcuni valori. Il nostro agire è una continua trasformazione di intenzioni-azioni rispetto ad alcuni principi (valori) che rimangono costanti. Se il mio agire tiene conto prevalentemente del rapporto fra ciò che faccio adesso e ciò che ho fatto e ciò che farò allora il mio agire sarà lineare. Se invece il mio agire è all’insegna dell’invarianza valoriale allora agirò tenendo fermi uno o più valori rispetto a trasformazioni possibili. Molto spesso le relazioni fra esseri umani sono analizzate linearmente, andiamo alla ricerca di cause per spiegare intenzioni e comportamenti, mettiamo in relazione accadimenti rispetto a ciò che li precede o li segue. Talvolta, ciò che diciamo essere un comportamento ragionevole, o razionale, è il comportamento di cui possiamo rintracciarne e descriverne la motivazione oppure la causa. Accanto agli aspetti lineari di un comportamento vi sono quelli nonlineari: caratteristiche che permangono nel tempo e che riguardano l’agire nel suo complesso. Pensiamo ad espressioni del tipo: “in ogni cosa che fa esprime una grande dolcezza”. Ebbene, indipendentemente dalle motivazioni del suo agire, nei suoi comportamenti permane una caratteristica che tiene indipendentemente dalle modifiche che può subire il suo agire. Lo stesso vale per espressioni del tipo di “è una persona rispettosa”, o “agisce in modo ambiguo”.

Ricchezza semantica

La nonlinearità apre alle possibilità, adotta regole in un’ottica trasformativa, è capace di generare altri significati, contesti ed eventi. Quando il mio comportamento tiene un valore, agisco in modo prospettico, grazie all’immaginazione accresco di senso e di significati quel valore. Ciò avviene senza una logica causale, quel valore è al centro del mio agire, compreso nella sua autonomia e ricchezza. Le scelte che adotto lo modificano nel tempo pur sempre tenendolo al centro. Il comportamento diviene divergente, non semplicemente “fuori carreggiata” o “contro” ma intenzionalmente immaginifico, in un confronto continuo con sé stesso, aperto alla novità, all’imprevisto e a ciò che improvvisamente può riconfigurare l’invarianza valoriale (cioè il rapporto fra il valore che tengo e le sue possibili modificazioni).

Creatività relazionale

Un agire nonlineare si caratterizza per l’attenzione e la prontezza nel trovare spunti per agire. Il primo passo per un agire creativo è proprio la capacità di trovare spunti interessanti che poi, come un seme, germoglieranno. La nonlinearità consente di riempire di immaginazione ciò che a uno sguardo lineare può venir ricondotto alla sua semplice funzione o al suo uso.
L’agire nonlineare ha come suo fondamento l’improvvisazione, la disposizione a incontrare l’imprevisto e l’improvviso. Fare significa inventare, affrontare ciò che ci è ignoto, comprenderlo e ricomprenderlo. Non sono guidato da uno schema o da un progetto ma il mio percorso è come io lo costituisco. Le abitudini mi sono di aiuto per mantenere un contesto in cui agire liberamente e creativamente.
Agire nonlinearmente significa saper riconoscere le invarianze valoriali, anziché soffermarsi esclusivamente sul rapporto di conseguenzialità fra le azioni del mio comportamento, mi “fermo” (cosa curiosa parlando di agire) e ascolto cumulativamente ciò che sto facendo. In quel momento individuo quale valore è strutturale al mio agire. Questo sia dal punto di vista cognitivo (sto analizzando, sto descrivendo, osservo, penso ecc..) sia dal punto di vista emotivo (sono tranquillo, mi sto agitando, sono fragile, ecc.).

Brevi conclusioni sul valore pedagogico del silenzio

Tornando all’esempio di Bianca che partecipa alla lezione in modo silenzioso: dal punto di vista lineare il suo agire è debole, si potrebbe pensare che in realtà “non partecipa” alla lezione. Il silenzio potrebbe nascondere la sua incapacità di comprendere (anche solo annuire, o sorridere, potrebbe far pensare di star capendo). Il suo silenzio è visto passivamente, come “mancanza”, mancanza di volontà, di interesse, di capacità cognitiva, di capacità relazionale, di desideri. D’altra parte, se facciamo tesoro delle considerazioni appena fatte sull’agire nonlineare, ci rendiamo conto che il suo silenzio può essere pensato altrimenti, come un silenzio fertile, attivo e creativo.

Il silenzio di Bianca è sintomo di apertura al possibile, il silenzio è la dimensione in cui il tempo rallenta (o si ferma) e la natura della parola (del suo senso) emerge con forza, è il luogo proprio dell’ascolto, in cui è possibile dar sfogo all’immaginazione (oltre che alle lineari connessioni e deduzioni). Probabilmente non sta prendendo appunti, poiché la parola e la logica del discorso limita la creatività implicita nell’ascolto attivo, ne limita le possibilità.
Il silenzio di Bianca è sintomo della sua capacità di tenere un’invarianza valoriale. In questo momento è concentrata e attenta, non necessariamente nel seguire le parole del professore, piuttosto l’atmosfera emotiva che caratterizza il clima di classe, è come un termometro che misura la “febbre” della classe (alcuni ragazzi sono molto sensibili al clima di classe, altri sono capaci con il loro silenzio, con i loro sguardi o gesti, di modificarlo, in meglio o in peggio). Non dimentichiamo quanto sia importante il clima emotivo per condurre una buona lezione. D’altra parte, Bianca può anche aver individuato un’invarianza cognitiva: nel ragionamento articolato e complesso del professore ha individuato una costante (che può corrispondere a un procedimento, all’obiettivo del discorso, al risultato atteso, ecc.). Lei la sta seguendo e la tiene in presa riconducendo ogni altra considerazione del professore a quell’idea permanente.
Il silenzio di Bianca può essere sintomo di ricchezza semantica, sta caricando di immaginazione ciò che dal punto di vista emotivo o cognitivo tiene fermo nel suo silenzio: può essere una parola detta, il senso di una frase, la combinazione di fattori emotivi e cognitivi, la parola scritta alla lavagna che risuona stranamente proprio a causa del rumore che il gesso produce, la voce dell’insegnante che connota curiosamente il senso del discorso.
Il silenzio di Bianca nasconde una grande creatività, lei sta prendendo spunto da una o più stimolazioni visive, uditive, olfattive, tattili, cognitive, emotive, sta riconoscendo quali costanti vi sono nel presente in cui si trova e che caratterizzano quel particolare momento della lezione, sta improvvisando perché attratta da ciò che non conosce e a cui ancora non sa dare, o non può dare, una forma verbale.
Potremmo arrivare a scoprire che Bianca è una bambina molto comunicativa: Bianca è una bambina silenziosa che lascia parlare il silenzio.

Note

[1] “When we observe our students’ silence, we do not always acknowledge its value, nor do we typically appreciate the possibility of using this silence in a creative manner”, M. Zembylas, P. Michaelides (2004). The Sound of Silence in Pedagogy, Educational Theory, Vol.54/2 , p.195.
[2] Cfr. Huey-li Li (2001). Silences and Silencing Silences, in Philosophy of Education, ed. Suzanne Rice (Urbana, Illinois: University of Illinois Press).
[3] Liu, J. (2002). Negotiating silence in American classrooms: Three Chinese cases. Language and Intercultural Communication, 2, 37-54.
[4] Flanders, N. A. (1970). Analyzing teaching behaviour. Reading, MA: Addison Wesley.
[5] Jaworski, A., & Sachdev, I. (1998). Beliefs about silence in the classroom. Language and
Education, 12, 273-292.
[6] R. Casadei (2019), Silence and time: veiled energies in education, Studi sulla Formazione: 22, 137-146, p.140.
[7] “L’aspetto positivo del silenzio è che ci ricorda la nostra condizione di essere nel mondo, con la possibilità di stabilire relazioni senza la mediazione dei simboli. Il silenzio è […] gravido di significato e non può essere ridotto, nel mondo del linguaggio, solo a qualcosa che non è detto”, A. C. Zimmermann, W. J. Morgan (2015). A Time for Silence? Its Possibilities for Dialogue and for Reflective Learning, in Studies in Philosophy and Education, p.3.
[8] Con linearità intendo una successione di eventi in un rapporto causale o consequenziale. Con Nonlinearità intendo una regola o un principio che rimane costante e che accomuna gli eventi (vedi J. Kramer (1988), The Time of Music, New Meanings, New Temporalities, New Listening Strategies, NY Schirmer Books; M. Cosottini (2009), Non-linearità per aprirsi all’improvvisazione musicale, Musica Domani, Vol.151; M. Cosottini (2017), Metodologia dell’improvvisazione musicale, Edizioni ETS).
[9] “Nella prospettiva educativa occidentale dominante, il silenzio è visto come l’opposto della parola che “non ha meriti pedagogici intrinseci”, Li, Huey Li (2001). Silences and Silencing Silences, Philosophy of Education, p.158, perché la concettualizzazione occidentale dell’apprendimento si basa sulla parola/linguaggio per formulare ipotesi e valutare i risultati “in un processo molto lineare” (Li; ibidem 160).

Bibliografia

Casadei (2019), Silence and time: veiled energies in education, Studi sulla Formazione.
Cosottini (2009), Non-linearità per aprirsi all’improvvisazione musicale, Musica Domani, Vol.151.
Cosottini (2017), Metodologia dell’improvvisazione musicale, Edizioni ETS.
Flanders, N. A. (1970). Analyzing teaching behaviour. Reading, MA: Addison Wesley.
Huey-li Li (2001). Silences and Silencing Silences, in Philosophy of Education, ed. Suzanne Rice
(Urbana, Illinois: University of Illinois Press.
Jaworski, A., & Sachdev, I. (1998). Beliefs about silence in the classroom. Language and
Education.
Kramer (1988), The Time of Music, New Meanings, New Temporalities, New Listening Strategies, NY Schirmer Books.
Liu, J. (2002). Negotiating silence in American classrooms: Three Chinese cases. Language and
Intercultural Communication.
Zembylas, P. Michaelides (2004). The Sound of Silence in Pedagogy, Educational Theory, Vol.54/2.
C. Zimmermann, W. J. Morgan (2015). A Time for Silence? Its Possibilities for Dialogue and for Reflective Learning, in Studies in Philosophy and Education.

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