Per questo serbo nel cuore quanto accadde nel campo di Burj al-Barajna, dove un folto gruppo di giovani volle accoglierci con una bella e partecipata rappresentazione di musiche e danze palestinesi, accompagnate da una generosa quantità di tea e dolci. Egualmente, non posso dimenticare i sorrisi e l’amicizia delle donne di un coro palestinese di Beirut sorprese e divertite dai miei sforzi per decifrare, con il mio incerto arabo, i testi delle canzoni in cui mi univo a loro.
E poi Shatila, campo particolarmente povero, nella periferia di Beirut, teatro di uno dei massacri più tragici della storia palestinese. Durante il sopralluogo in quel campo, dove si immaginava di stabilire un centro d’animazione, ricordo di avere dovuto sostenere una mia compagna di viaggio, commossa dalle condizioni di povertà e di compressione abitativa. Al termine della visita al campo, il giovane che ci aveva fatto da guida ci propose di bere un tea a casa sua. Gli dicemmo che ci saremmo fermati pochi minuti perché dovevamo essere a cena con i referenti palestinesi del progetto. In realtà, appena seduti, apparvero le sorelle di quel giovane con grandi vassoi di ogni tipo di cibo che avevano preparato mentre noi visitavamo il campo. Non potevamo rifiutare e, in breve, arrivammo tardissimo dai nostri referenti e cenammo due volte. Avvertivamo la fraternità che rispondeva alla solidarietà che ci aveva portati in Libano.
Non parlammo solo di musica, ma certamente anche di scuola e di educazione. In Libano, ci spiegarono, sono pochi i giovani palestinesi che possono permettersi studi superiori che però in ogni caso non permettono l’accesso a una professione di livello corrispondente. Infatti, i palestinesi rifugiati non possono accedere a professioni pubbliche o indipendenti, non possono essere ingegneri, medici, insegnanti. Tuttavia, chi può non rinuncia agli studi, perché il sapere e la conoscenza sono considerati strumenti per capire e lottare.
Certamente, parlammo molto di musica e del progetto di animazione, in cinque giorni di lavoro intenso le idee si chiarirono e ci si lasciò commossi, fu un arrivederci con la certezza che quanto avevamo ideato si sarebbe realizzato a partire dall’autunno. Ma non fu così perché tutto fu spazzato via dalla guerra che scoppiò nell’estate e dai bombardamenti che provocarono migliaia di morti e, in pratica, l’isolamento del Libano.
Circa un mese dopo l’esperienza libanese fui invitato in Palestina da insegnanti del Conservatorio nazionale “Edward Said”. Il recente visto d’entrata in Libano, ben visibile sul mio passaporto, mi procurò un lungo, rude e aggressivo interrogatorio da parte di due poliziotte israeliane. Non sapevo che avere un visto libanese significasse essere sospetti. Per circa un’ora temetti di essere caricato sul primo aereo in partenza per Bruxelles, dove allora abitavo, ma alla fine fui rilasciato con l’avvertimento di fare attenzione a chi avrei frequentato in Israele (nemmeno pensarci di dire che ero diretto in Palestina!).
In Palestina conobbi la realtà del Conservatorio nazionale, fondato nel 1993, che offre ai/alle giovani formazione sia nella musica araba che in quella occidentale (History | ESNCM (birzeit.edu). Purtroppo, conobbi anche le difficoltà in cui versava il Conservatorio a causa dell’occupazione militare israeliana, tra cui l’impossibilità per il direttore e le/gli insegnanti, a causa della cervellotica frammentazione in zone del territorio palestinese voluta dagli occupanti, a tenere semplicemente un collegio dei docenti. Presi direttamente coscienza delle difficoltà dei professori che insegnano in più di una sede a tenere regolarmente i corsi, dovendo superare check point e sbarramenti che rallentano enormemente se non impediscono, a sola discrezione dei soldati israeliani, di raggiungere il posto di lavoro.
Conobbi anche la bella realtà dell’associazione-scuola Al-Kamandjati (KAMANDJÂTI (alkamandjati.org), fondata dall’eccellente violinista Ramzi Abduredwan (Home | Ramzi Aburedwan) inizialmente a Ramallah ma in seguito ramificatasi in altre città. In quella sede scoprii che quando l’orchestra dell’associazione doveva spostarsi a Gaza per tenere dei concerti, il nome di Ramzi era regolarmente cancellato dall’elenco dei permessi concessi dalle forze d’occupazione, privando volutamente l’organico del suo migliore solista. Forse la colpa di Ramzi è quella di essere stato fotografato, al tempo bambino, mentre scagliava una pietra contro un carro armato israeliano, durante l’Intifada.
Negli anni seguenti sono tornato più volte in Palestina e ho sempre apprezzato la grande forza del suo popolo che anche attraverso la musica cerca di riscattarsi da una situazione militare, politica, sociale e umana estremamente difficile. Fare musica è, in Palestina, un modo di resistere alla volontà dell’occupante di sopprimere un popolo ma anche la sua storia e la sua cultura. Per questo, la pratica musicale dei giovani è così diffusa e tenacemente difesa.
Tutto ciò incontra purtroppo delle difficoltà spaventose. Oggi la sede di Gaza del Conservatorio nazionale è distrutta, mentre in Cisgiordania è difficile per bambini e ragazzi non solo fare musica ma semplicemente raggiungere la loro scuola a causa delle azioni violente e omicide dei coloni israeliani.
Ho voluto scrivere questo articolo perché le notizie che giungono da Gaza mi atterriscono ogni giorno, ma una riguardante l’educazione mi ha particolarmente sconfortato. A Gaza, quest’anno, non ci sarà riapertura delle scuole semplicemente perché, come il conservatorio, non ci sono più. Restano solo macerie. E se le scuole si fossero comunque riaperte, sarebbero mancati all’appello oltre 11.000 allievi e allieve e 800 insegnanti non avrebbero potuto accoglierli, perché morti sotto i bombardamenti.
Mi tornano alla mente le parole di Salvatore Quasimodo: E come potevamo noi cantare/con il piede straniero sopra il cuore…e sogno che, come fu per l’Italia, la musica possa un giorno tornare nelle scuole, nella vie e nelle piazze della Palestina.