Musicheria. La rivista digitale di educazione al suono e alla musica

Educazione musicale: qualche contributo dall’etnomusicologia

Questioni di contenuto  e convergenze di metodo

Ormai da qualche decennio m’interrogo sui rapporti tra etnomusicologia ed educazione musicale, pensando soprattutto a quale contributo la prima possa offrire alla seconda. Sul tema, non mancano, a livello internazionale, molti interventi anche importanti. In Italia, dopo una crescita d’interesse dettata, tra la fine degli anni novanta e la prima decade del nuovo secolo, soprattutto dallo sviluppo dell’educazione interculturale, mi sembra si assista oggi a un ritorno della prospettiva eurocentrica e neocoloniale. In pratica nel nostro paese siamo lontani da quanto affermava John Blacking (1986). già negli anni settanta[1] sostenendo che l’etnomusicologia avrebbe avuto il potere di provocare una rivoluzione nell’educazione musicale. La formazione, iniziale e in servizio, degli/delle insegnanti considera oggi ben poco la prospettiva etnomusicologica e ancor più i testi destinati alle scuole sono ritornati a presentare quasi solo la storia della musica d’arte europea. Queste situazioni sono state importanti per decidermi a pubblicare, lo scorso anno, un testo di introduzione all’etnomusicologia che, pur non contenendo indicazioni applicative, si rivolge anche a chi insegna o insegnerà musica nella scuola[2]. In questo articolo desidero esplicitare alcuni degli incontri più significativi che si possono verificare tra etnomusicologia ed educazione musicale. Incontri che distinguerò sul piano espositivo tra i possibili materiali da impiegare e quelli invece che riguardano il metodo. Questo secondo aspetto significa interrogarsi su cosa può offrire la competenza etnomusicologica dal punto di vista del metodo a chi insegna e anche quali siano i punti di convergenza che le due materie hanno nella loro storia. Ho parlato di distinzione dal punto di vista espositivo perché, come vedremo, i due piani sono in rapporto dialettico tra loro.

[1] Il testo di Blacking Come è musicale l’uomo? fu pubblicato in Italia nel 1986, ma l’edizione originale in inglese è del 1973.

[2] Mi riferisco a Introduzione all’etnomusicologia, Calimera, Kurumuny, 2023.

Musiche di tutto il mondo

Uno dei grandi e fondamentali compiti assolti dall’etnomusicologia dalla sua nascita a oggi è quello di averci fatto conoscere le espressioni musicali del mondo intero. Non solo oggi disponiamo di una sterminata quantità di registrazioni, ma abbiamo anche ampie informazioni sui contesti in cui avviene la produzione musicale, le sue funzioni nelle diverse società e, come vedremo più avanti, anche su chi sono, cosa fanno e cosa pensano coloro che ne sono gli artefici o, per usare un’espressione di John Blacking (1986) ormai universalmente diffusa, i music maker.
Eppure, salvo eccezioni lodevoli, la formazione di Conservatorio degli insegnanti è ancora legata quasi solo alla musica d’arte europea e non contempla una visione universale della musica. Come ha scritto Carlo Delfrati (2017), il modello formativo dei conservatori è ancora quello del “virtuoso romantico” e della musicologia occidentale che vede nella musica un susseguirsi di “opere” fondamentali. Inoltre, tale tipo di formazione comporta la costruzione di un’identità musicale tutta interna ai confini di quel modello e quindi al sentirsi a proprio agio e sul proprio terreno solo usando come materiali per l’insegnamento quelli che provengono dal repertorio d’arte europeo. In questo quadro, appare normale che nella nostra scuola si affermi comunque e sempre l’eurocentrismo bianco della musica d’arte europea  e tutte le altre espressioni siano, anche quando presenti, confuse  nella categoria delle “altre” culture.

Per queste ragioni, prima ancora di affrontare le possibili suggestioni metodologiche, è bene affermare che la formazione delle/degli insegnanti deve necessariamente allargarsi a prospettive più ampie, che li portino a conoscere e considerare nella loro importanza le musiche delle diverse parti del mondo, non come un accessorio decorativo alla loro preparazione musicale ma come un elemento fondamentale.
Due osservazioni possono essere utili da subito per valutare l’importanza di una conoscenza del far musica nel mondo. La prima è che guardando a tutto il pianeta e alla storia umana si scopre facilmente che il 95% della produzione musicale mondiale è di mentalità e di pratica orale (come lo è peraltro anche la nostra musica folklorica).Si tratta di una constatazione semplice, ma che cozza immediatamente con quanto succede in tante prime lezioni nella nostra scuola di base, in cui l’insegnante traccia sulla lavagna chiave di sol e pentagramma e insegna a “leggere” le note da eseguire. Un approccio dannoso, basato sul circuito occhio-mano con esclusione dell’orecchio, il cui sviluppo dovrebbe essere il primo obiettivo a cui concorrono invece sicuramente le pratiche orali. Inoltre, si tratta di un metodo centrato sulla storia formativa dell’insegnante che trascura l’esperienza e il sapere musicale degli allievi che dovrebbe essere il punto di partenza dell’apprendimento. Infine, l’insegnamento della lettura musicale, motivato in  relazione alle varie attività in cui può essere utile, è concepito invece nella nostra scuola quasi solo come supporto all’esecuzione. Si ripete così in sedicesimo il percorso deputato alla creazione di esecutori.

La creatività è considerata marginalmente nei nostri percorsi d’insegnamento della musica ai vari livelli. Nella scuola di base si parla pochissimo di creatività musicale, ritenendola appannaggio di quei pochi talentuosi che dopo un lungo tirocinio tecnico arrivano a comporre attraverso la scrittura. La creatività, nella scuola può essere ricercata proprio attraverso la pratica orale e segnatamente l’improvvisazione, mai curata nella nostra didattica. In realtà, se guardiamo oltre il lessico in uso nella musica europea l’improvvisazione in molte culture non è considerata come attività a sé poiché è totalmente assimilata alla creazione musicale. Si badi tra l’altro che parlare di pratica, di trasmissione e di mentalità orale non implica la totale assenza di una forma di notazione bensì che non ci si deve sentire necessariamente legati in tutto e per tutto a seguirla, ma si può variare, modificare, cambiare.

Un altro problema riguarda l’apprendimento del sistema teorico della musica. Infatti, possiamo distinguere tra culture che hanno un sistema teorico esplicito e altre che lo hanno implicito. La cultura musicale occidentale bianca ha una teoria esplicita, in cui le regole sono dichiarate e talvolta apprese prima ancora di saperle applicare. La teoria e l’armonia insegnate in conservatorio ne sono un classico esempio. La teoria implicita invece non è presentata nei trattati ma viene acquisita attraverso la pratica. Si può stabilire, almeno in parte, un parallelo con la lingua: chi legge e ascolta molto acquisisce progressivamente una grammatica implicita, che gli permette di parlare e scrivere correttamente senza pensare alle strutture grammaticali. La tradizione Mandingo dell’Africa occidentale non possiede una teoria musicale formalizzata ma un maestro di djembé sa perfettamente ciò che sta nelle regole e cosa e come si deve insegnare. È incredibile come la nostra didattica musicale continui ad anteporre l’apprendimento di regole alla pratica.
Inoltre, le musiche del mondo ci insegnano anche tecniche di suono, scale e strumenti diversi da quelli più consueti, offrendo possibilità espressive nuove e stimolanti che arricchiscono il progetto educativo.

Apprendere  oralmente

Purtroppo, l’impostazione eurocentrica della formazione musicale ha assolutizzato i metodi d’insegnamento occidentali che talvolta, con spirito coloniale, sono anche stati esportati nel mondo come più validi di quelli di altri paesi. Al contrario l’etnomusicologia ha studiato e valorizzato l’apprendimento della musica nei diversi contesti formali e informali, le tecniche orali, di memorizzazione, verbali e non verbali e le strategie di prova. Ciò in particolare dal 1964, quando nel suo testo Anthropology of music Alan Merriam ha affermato che le modalità d’apprendimento sono fondamentali per capire la musica come cultura.
L’assoluta priorità data nel nostro sistema formativo all’apprendimento attraverso la lettura è peraltro coerente con il modello del virtuoso romantico; non a caso proprio in quel periodo della storia della musica si affermò l’idea del brano di notazione prescrittiva che deve rimanere inalterato nei secoli come opera immortale. Tutto ciò è funzionale a una precisa concezione estetica della musica che, secondo Carl Dahlhaus, uno dei principali esponenti della musicologia accademica europea, ha la sua sostanza prioritariamente in quelle opere significative sopravvissute alla cultura del loro tempo e dove il concetto di opera e non di evento è la pietra miliare della storia della musica (Dahlhaus, 1977). Corollario di tale concezione è, evidentemente, l’idea della musica come attività esclusivamente artistica e definita nell’ambito estetico come separata dalla vita dell’uomo e dalle sue attività sociali.

Al contrario, l’etnomusicologia c’insegna a prestare attenzione alle molteplici funzioni che l’evento musicale ha nelle società (intrattenimento, rituale, celebrativa, ecc.) e a considerare che la musica è una particolare condotta comunicativa ed espressiva che si avvale del suono organizzato in modo non molto diverso dal linguaggio verbale. Ciò pone in discussione la visione esclusivamente artistica della musica portandoci a considerare che la musica “non è un’arte (…) ma può dare origine a forme d’arte proprio come il linguaggio (con la letteratura, la recitazione teatrale, ecc.)” (Giannattasio 2019, p. XXI).
Peraltro, l’idea che esistano musiche puramente artistiche, senza implicazioni con il contesto sociale e relazionale che necessariamente le circonda, è un’illusione. Se guardiamo ai contesti d’uso oggi noi ascoltiamo in concerto opere che furono composte per fini religiosi o d’intrattenimento, di corteggiamento, di danza o variamente cerimoniali e che erano quindi coinvolte in situazioni contestuali più ampie di quelle strettamente concertistiche. Inoltre, i mezzi di comunicazione di massa, dal novecento in poi, ci hanno abituati ai cambiamenti di contesto delle musiche, per cui un brano del divino Mozart crea l’atmosfera per la pubblicità di uno pneumatico o di un whisky di pregio. Più recentemente l’intensificazione degli scambi culturali e la diffusione della world music ci portano a considerare come artisti, a volte con il loro stesso stupore, protagonisti di pratiche musicali che in origine erano “funzionali” e poco considerate dal punto di vista artistico. In pratica, è oggi impossibile postulare l’esistenza di musiche “pure”, destinate solo all’arte così come di musiche soltanto “funzionali”.

Il diverso contesto muta evidentemente anche la funzione di una musica che da espressione artistica può diventare induzione pubblicitaria, da momento devozionale divenire intrattenimento e di questo dobbiamo essere coscienti quando operiamo in un ambito formativo.
Peraltro, convengo con le osservazioni di Huib Schippers (2010) secondo il quale quasi tutta la musica è trasmessa fuori contesto e tutto il nostro sistema di educazione formale è un enorme esercizio di ri-contestualizzazione.
Christopher Small (1987) ha sostenuto il significato rituale dei concerti di musica classica contemporanea negli USA. Secondo tale autore che contaminava tra loro  sociologia della musica, etnomusicologia ed educazione musicale, essi sono occasioni celebrative rituali dei valori delle  upper-middle class americane e per taluni frequentatori sono tanto legati all’occasione rituale quanto alla musica che viene eseguita.
Ho voluto iniziare questo articolo dalle possibilità offerte dalla conoscenza delle musiche di tutto il mondo per relativizzare la tradizione della musica d’arte europea e per dare nuovi stimoli e occasioni all’educazione musicale. In effetti è stata la ricerca etnomusicologica che ci dà oggi la possibilità di conoscere le musiche del mondo e di averne la disponibilità in CD o attraverso internet. Tuttavia, tra l’etnomusicologia e l’educazione musicale esistono delle connessioni e dei legami anche a livello teorico che sono forse ancora più importanti.

Cosa studia l’etnomusicologia

Se, come ho scritto, l’etnomusicologia ci ha permesso di conoscere le espressioni musicali del mondo, è anche vero che almeno da qualche decennio l’attenzione dei ricercatori ha cominciato a includere non solo lo studio delle musiche, ma anche di chi fa musica e di come la fa. Se ancora oggi, alla prima lezione dei corsi, raccolgo dagli studenti definizioni della materia come “studio delle musiche non europee”, o “di tradizione orale” o ancora “dei popoli primitivi” oppure di “come è evoluto il linguaggio dei suoni”, che in realtà non sono completamente sbagliate ma colgono un aspetto o un momento storico della disciplina, credo che la definizione più aggiornata che si può dare oggi è quella di Timothy  Rice:
L’etnomusicologia è lo studio di perché e come gli esseri umani sono musicali (…) “Musicale”, in questa definizione, non si riferisce al talento o all’abilità musicale ma piuttosto alla capacità degli umani di creare, eseguire, organizzare cognitivamente, reagire fisicamente ed emotivamente e interpretare i significati del suono umanamente organizzato (Rice 2014, pag. 1). [1]

A tale definizione, ampia e, come si può facilmente notare, molto comprensiva dell’attività musicale umana si è giunti attraverso un lungo percorso a cui hanno contribuito in particolare alcuni autori di riferimento nella storia della disciplina come il già citato John Blacking (1986) e Jeff Titon (1997).
Una tale concezione significa spostare la ricerca dagli oggetti musicali ai comportamenti umani che danno loro origine in luoghi, epoche e contesti specifici[2]. Non solo, ma lo sguardo etnomusicologico comporta che tali comportamenti siano collocati e che sia attribuito loro un significato in base alla situazione in cui si fa musica e al ventaglio delle relazioni umane e sociali che entrano in gioco nell’evento che si svolge intorno alla musica. Una contrapposizione tra oggetto musicale ed evento si rivela quindi poco sensata, poiché il primo è parte del secondo e ha senso solo se collocato al suo interno. A questo proposito può essere utile ricordare le formulazioni di Christopher Small che per rispondere all’esigenza di sottolineare il carattere processuale dell’attività musicale, opposto alla visione della musica come oggetto, preferì usare una forma verbale (to music) rispetto a un sostantivo come music.
Small propone questa definizione: “To music significa partecipare, a qualsiasi titolo, a una performance musicale, sia eseguendo, sia ascoltando, sia provando o praticando, sia fornendo materiale per l’esecuzione (ciò che si chiama composizione), sia ballando”. (Small 1998, p. 9).
Questa visione della musica come partecipazione a un processo è ancora una volta ben diversa da quella che ne individua natura e storia nelle “opere”, infatti, Small sostiene che la natura e il significato della musica non stanno negli oggetti bensì nell’azione e in cosa fanno le persone (Small 1998, p. 8). Le parole di Small che sottolineano che la musica è qualcosa che le persone fanno, trovano un riscontro quasi letterale in quelle di uno degli autori più interessanti nel campo dell’educazione musicale, David J. Elliott che usa tra l’altro il neologismo musicing (sempre da to music) simile  al musicking usato invece da Small.

Elliott e Silverman così definiscono il concetto di musicing:
Il termine musicing è una contrazione di music making. Con il termine musicing intendiamo tutte le forme di fare musica, compresi (ma non solo) tutti i tipi e le forme specifiche di esecuzione, improvvisazione, composizione, arrangiamento, direzione d’orchestra, registrazione, campionamento, scultura di suoni, far musica e muoversi, far musica e ballare, far musica e ascoltare, far musica e adorare, e così via in tutti i tipi di situazioni culturali. (Elliott e Silverman 2015, p. 16).

Elliott e Silverman aggiungono due ulteriori osservazioni conseguenti: la prima è che la musica è anzitutto una pratica umana diffusa e la seconda che è assolutamente infondato per gli educatori assumerla in primo luogo come un “oggetto” destinato primariamente a una “distaccata contemplazione”. Il concetto della musica esclusivamente intesa come “bella arte” oscura il senso dialetticamente interrelazionale del fare e ascoltare musica nella società. In realtà sono proprio le pratiche sociali di una comunità a qualificare come “musica” una serie di azioni che compiono i suoi componenti (canto, danza, composizione ecc.). Le posizioni di Elliott e Silverman nascono nell’ambito della corrente pedagogica angloamericana della Praxial Music Education che tra i suoi meriti ha avuto quello di opporsi al paradigma musicologico, un tempo dominante negli USA, all’interno del quale si era arrivati a stendere liste di “opere fondamentali” su cui si doveva basare l’educazione musicale.
Come vedremo tra poco, queste riflessioni trovano consonanze nel mondo dell’educazione musicale italiana, soprattutto tra gli educatori più accorti che non si accontentano di ripercorrere lo stantio percorso indicato nelle enciclopedie e nei testi di didattica della musica che la definiscono ancora semplicisticamente come “l’arte dei suoni”.

Qualche convergenza nell’educazione musicale

Già nel 1987 Gino Stefani, nel corso di uno dei colloqui di Pedagogia musicale che si tenevano in quegli anni ad Assisi, proponendo un nuovo orientamento degli studi musicali sostenne: L’orizzonte, il quadro operativo, il campo non è la musica ma la musicalità. Sono i comportamenti musicali, risultanti di motivazioni, attività, modi di appropriazione. Sono gli infiniti percorsi realizzabili nelle aree di musicalità di “uno qualunque” di “uno che suona”, di un musicista o musicologo (Stefani 1987, p. 81).
Stefani era semiologo ed educatore musicale, non etnomusicologo, ma nelle sue parole appare evidente la scelta di indirizzare la ricerca per quello che definiva come un “nuovo paradigma di studi musicali”, con ricaduta conseguente sull’educazione musicale, verso l’espressione umana della musicalità e non principalmente sulla musica come oggetto. Inoltre, è importante il concetto di “percorso nella musicalità” a indicare che alla realizzazione della propria identità musicale si può giungere con percorsi individuali molto diversi tra loro.
I percorsi attraverso cui Stefani giunse a formulare la sua proposta di un nuovo paradigma di studi musicali  sono vari e articolati e passano in particolare attraverso la pedagogia degli oppressi di Paulo Freire (1971)  e la semiologia di Prieto (1976), ma è significativo che l’intervento di Stefani sia del 1987, cioè un anno dopo la pubblicazione in Italia del testo fondamentale di John Blacking già citato come un passaggio chiave della riflessione etnomusicologica che ha portato a ridefinire il campo della materia in quanto studio di come l’uomo e la donna siano musicali. Il libro di Blacking pone al centro della ricerca la domanda “Come è musicale l’uomo” e segna con questo una svolta decisiva in etnomusicologia. Inoltre, così come Blacking nelle sue opere denuncia l’etnocentrismo eurocolto rispetto alle altre culture musicali, le ricerche di Stefani sul nuovo paradigma di studi musicali e la competenza musicale comune si propongono di promuovere e valorizzare la capacità di tutti i soggetti umani di produrre senso con e sulla musica.

John Blacking ha sostenuto che tutti gli individui sono portatori di musicalità e che sono le condizioni sociali che determinano che essa si sviluppi più o meno. Blacking sosteneva questa tesi osservando come i bambini Venda, da lui studiati, sviluppassero in modo uniforme e coordinato le loro capacità di far musica (e di danzare) grazie a una società in cui le attività infantili e quella musicale in particolare non portavano la traccia della competizione, come invece avviene in Europa, dove l’accento posto sul “talento” e la conseguente visione competitiva escludono gran parte delle persone dal diritto di fare musica. L’affermazione del talento di pochi coincide quindi con la negazione della musicalità della maggioranza degli esseri umani.
La ricerca sul “nuovo paradigma di studi musicali” assume la medesima prospettiva antropologica di Blacking e ha influenzato significativamente l’evoluzione dell’educazione musicale. Dal punto di vista educativo, siamo di fronte a un ribaltamento totale di prospettiva poiché non si tratta più di avvicinare gli allievi a un sistema musicale dato una volta per tutte e a una serie di opere legittimate dalla storia, bensì di prendersi cura dei loro bisogni e motivazioni al fare musica per favorire lo sviluppo della loro musicalità. Si tratta di un progetto educativo che, spesso, porta anche i caratteri dell’interculturalità, poiché l’età, la formazione e la cultura musicale dell’insegnante sono diverse da quelle degli allievi.
L’educazione musicale nella scuola di base è, dal punto di vista relazionale, un terreno complicato. A differenza di altre materie gli allievi hanno una loro competenza di base generalmente diversa da quella dell’insegnante e con buone ragioni pretendono che sia riconosciuta. Tale competenza nasce in maggior parte fuori dalla scuola, sia con l’esperienza quotidiana d’ascolto sia con la pratica musicale che dà luogo a percorsi d’educazione informale. Si tratta in buona parte di un confronto con un’alterità musicale di cui i/le docenti debbono tenere il massimo conto per sviluppare la loro azione pedagogica.

Andiamo ora a vedere cosa accade oggi nel campo etnomusicologico. Uno dei temi storicamente più discussi nell’ambito della disciplina è proprio quello del confronto con l’alterità. Una problematica che ha trovato due diverse articolazioni: quella di classe sociale, quando un ricercatore di estrazione accademica va o andava a registrare, nel suo stesso paese, musica delle classi popolari (l’Italia ha una grande tradizione di questa pratica) e un’altra invece relativa all’esperienza sul campo in luoghi diversi e anche lontani dalla propria patria. In ambedue i casi la questione dell’incontro con l’alterità si pone, negli ultimi decenni, in modo diverso dalle esperienze “storiche” dell’etnomusicologia e anche dell’antropologia.
Nel primo caso, la penetrazione dei mass media e della cultura musicale mainstream tra le classi popolari e i mutamenti della composizione sociale delle stesse comportano che la cultura delle classi subalterne non sia più completamente alternativa a quella egemone nei termini definiti da Gramsci. Dal punto di vista della ricerca presso altri popoli, sono lontani i tempi in cui un ricercatore andava, con il suo apparecchio, a registrare musiche di gruppi che vivevano più o meno appartati dal mondo e avevano scarse conoscenze di quanto accadeva oltre i confini del loro territorio. In tale situazione il ricercatore ascoltava, raccoglieva registrazioni, descriveva e interpretava le musiche del popolo presso cui si trovava. Anche questa situazione è profondamente mutata. Oggi il ricercatore si reca sul campo, ma spesso vi trova persone che sanno come è vissuta all’esterno la propria musica, conoscono le altre culture attraverso i media e soprattutto vogliono avere voce sull’interpretazione della propria. Proprio da queste situazioni sono nate nuove esperienze in cui la costruzione del sapere avviene in modo dialogico tra ricercatore e colui o coloro che un tempo erano definiti “informatori” o “portatori”. Siamo in presenza di una co-costruzione del sapere che richiede un percorso dialogico comune.  Si tratta di un metodo che può dire qualcosa agli/alle insegnanti perché anche nella scuola, come abbiamo visto, si verifica sempre più che la pratica pedagogica necessiti di strategie di approssimazione all’altro e che si sappia guardare con discrezione e intelligenza nei campi che non sono i propri. E da ciò possa nascere una cultura co-costruita e condivisa. Inoltre, quanto a definire chi e come siano gli “altri” che s’incontrano nel lavoro scolastico se è vero che già lo scarto generazionale può essere significativo, vale la pena di discutere cosa significhi la presenza di alunni stranieri nelle classi. A questo proposito si deve distinguere tra coloro che sono stranieri a causa della nostra arcaica legislazione, che ancora considera tali i nati o i residenti da tanti anni in Italia  da genitori di altri paesi  e coloro che sono arrivati da poco. Questo articolo non è dedicato specificamente alle strategie della pedagogia interculturale[3], tuttavia è importante comprendere che molti di coloro che consideriamo “altri” sono ormai massicciamente presenti nelle nostre città, paesi e scuole e quindi ogni classe e ogni quartiere possono diventare laboratori di conoscenza e di avvicinamento all’alterità. Naturalmente, ciò significa confrontarsi con identità ibride e mutanti, indagare delle condizioni e delle culture giovanili che si articolano tra scuola, territorio, luoghi di aggregazione in un contesto dove etnomusicologia e pedagogia musicale possono cooperare in una ricerca comune ancora da costruire ma di grande interesse. L’idea che l’insegnante possa o forse debba essere anche ricercatore stenta ad affermarsi nelle nostre istituzioni formative, eppure credo che sia molto importante che la pedagogia apprenda dal metodo etnomusicologico dell’osservazione partecipante la capacità di comprendere e rispettare le categorie di valore dell’altro.

Ciò è anche vero per le situazioni non scolastiche: è ormai chiaro che i sistemi di educazione formale non possono rispondere da soli alle sfide della società d’oggi. A tali situazioni si interessa l’etnomusicologia applicata che studia per esempio la community music, che ha i suoi luoghi nei quartieri, nei centri giovanili e culturali, nelle carceri, nelle case di riposo e in tutti quei luoghi in cui si cerca di affermare una democrazia culturale in cui l’educazione musicale, rivolta anche agli adulti, va oltre i limiti della scuola. Situazioni in cui si esercitano forme di apprendimento informale importanti in un discorso educativo allargato alla società.

Questioni coloniali

L’etnomusicologia è una disciplina vicina all’antropologia, ne condivide molti interessi e metodi di ricerca. Purtroppo, al pari dell’antropologia, ha accompagnato spesso il colonialismo anzi in parte è nata con quest’ultimo. Come affrontare il passato coloniale e decolonizzare la cultura e la ricerca è un tema dibattuto da decenni e possiamo trovarne le origini nella conferenza di Bandung del 1959 dove si iniziò a discutere come combattere la supremazia occidentale bianca e demistificare le strutture della colonizzazione materiale e simbolica.
Oggi il dibattito sulle responsabilità coloniali dell’etnomusicologia è aperto, e arriva anche a coinvolgerne la stessa definizione, con il prefisso “etno” (e l’aggettivo “etnico”)  che purtroppo ha assunto speso connotazioni legate alla “razza”, al sangue o a fantasiose discendenze ancestrali che hanno richiesto numerosi interventi per ridefinirne il carattere reale di costruzione e negoziazione culturale. Qualche autore è giunto a sostenere che l’etnomusicologia è la disciplina con cui chi ha diritto di parola descrive le musiche di coloro a cui invece tale diritto è negato. In effetti, nel passato l’etnomusicologia ha spesso tolto la parola ai popoli che venivano osservati, imponendo il punto di vista del ricercatore occidentale sulle loro musiche. Un atteggiamento che è messo in discussione ormai almeno da vent’anni. Nel 2006 una conferenza nazionale della SEM (Society for Ethnomusicology) ha affrontato il tema della decolonizzazione con diversi panel che hanno dibattuto i metodi seguiti in America per la ricerca sulla musica dei nativi e anche su come intervenire nelle scuole di musica. Il noto ricercatore Steven Feld ormai da tempo discute con i Bosavi le pubblicazioni delle sue ricerche nella loro regione. Anche in Italia, un recentissimo convegno dell’Istituto Interculturale di Studi Musicali Comparati della Fondazione Cini (giugno 2024) è stato incentrato sui concetti di repatriation e rematriation (in italiano restituzione) ritenendoli fondamentali per l’etnomusicologia d’oggi, così come i processi di decolonizzazione, lo sviluppo di un’etnomusicologia partecipata, condivisa e dialogica. Si tratta di argomenti importanti anche per stabilire chi ha diritti sulle registrazioni musicali, usate in gran parte senza il coinvolgimento dei soggetti che ne sono protagonisti e senza alcuna considerazione del loro punto di vista.

Il colonialismo storico dominò attraverso strutture materiali ma anche simboliche che imposero la visione del mondo occidentale bianco con la forza, l’ideologia e la cultura. Oggi, terminato tale periodo, il neocolonialismo riconfigura il discorso della civilizzazione, mascherandolo da sviluppo (Rosabal Coto 2019). La colonizzazione coinvolge ogni dimensione dell’esistenza umana, vale a dire quella del potere, quella dell’essere e della sua soggettività e infine l’ambito della conoscenza. Di conseguenza, anche l’educazione in generale e musicale in particolare sono stati fonte e veicolo della colonizzazione.
Sul terreno dell’educazione, il dibattito sulla decolonizzazione  si è sviluppato in un primo momento negli USA, paese coloniale in origine e in America Latina, continente che la colonizzazione l’ha subita pesantemente, ma trova ormai sviluppi anche in Italia (Burgio 2022).
La prima rivista che si è occupata specificamente del colonialismo nell’educazione musicale  e della sua decolonizzazione è stata la Revista Internacional de Educaciòn Musical, promossa dall’ISME, con un numero speciale uscito alla fine del 2017, in cui gli autori si proponevano di analizzare le logiche attraverso le quali le strutture del potere coloniale hanno sviluppato un concetto razzista di essere umano svalutando corpi, lingue, culture, religioni, economie e modi di organizzazione sociale e di soggettività.
Il colonialismo in educazione musicale si è articolato sia attraverso l’imposizione di valori che di metodi e pratiche. Dal punto di vista valoriale, è evidente come la musica colta occidentale sia stata assunta a modello del bello e della musica d’arte, con la svalutazione e la marginalizzazione delle culture dei paesi colonizzati e ciò all’interno stesso di tali paesi. Parallelamente sono stati importati repertori e strumenti occidentali in luogo di quelli autoctoni. Dal punto di vista dei metodi, sono stati imposti quelli dei colonizzatori e i sistemi di valutazione a essi relativi. Non c’è stato alcun rispetto nell’espropriare le risorse naturali dei paesi colonizzati per la costruzione industriale di strumenti occidentali. La concezione della musica imposta all’educazione musicale formale è stata quella analitica della tradizione musicologica europea, in paesi dove al contrario la musica è esperienza globale, sociale e corporea. Ancor più, è sempre Rosabal Coto che scrive, le condizioni materiali e ambientali in cui avviene la socializzazione musicale nel Nord non sono le stesse dell’America Latina. Ciò per motivi economici, culturali e ambientali relativi, per esempio, alle categorie di spazio e tempo, pertinenti alla musica che sono fortemente contestuali. A questo proposito egli pone l’esempio delle stagioni, che in Europa e negli USA sono quattro mentre in diverse regioni dell’America equatoriale solo due. In un tale quadro, trovano anche ampie motivazioni le critiche rivolte a El sistema venezuelano sia per i metodi d’insegnamento che per i repertori affrontati (Minafra 2017).

L’esigenza di una decolonizzazione dell’educazione musicale è sentita da diversi anni non solo in America latina ma anche in Africa, come è testimoniato dalla documentazione dei congressi internazionali dell’ISME e dalla sua rivista International Journal of Music Education,  dove sin dagli anni settanta si sono succeduti  interventi di autori africani come Kwabena Nketia e Kazadi wa Mukuna che sollecitano una rivalutazione delle culture autoctone e dei metodi d’insegnamento abbandonati sotto il dominio coloniale. È anche contestata la pratica di organizzare incontri musicali tradizionali all’interno di formule mutuate dai metodi coloniali e la misurazione dei progressi degli studenti in base a criteri e standard estranei alla loro cultura.
In Italia, nonostante gli sforzi compiuti a partire dagli anni novanta sotto la spinta dell’educazione interculturale per valorizzare le diversità culturali, la struttura coloniale della scuola non è mutata.
Per quanto riguarda l’educazione musicale sembra anzi che nell’ultimo decennio sia avvenuta una restaurazione dei metodi e dei contenuti dell’insegnamento. Si pubblicano (ancora) libri di testo in cui si parla quasi solo della musica “d’arte” occidentale e dove tutto il resto dell’infinita produzione musicale mondiale ha il ruolo di un dessert di fine pasto. Sono convinto che un certo etnocentrismo nell’educazione non sia esclusivamente europeo; ciò che definisce l’atteggiamento della nostra scuola come coloniale è che la tradizione musicale d’arte occidentale è assunta a modello del bello a cui tutte le culture devono conformarsi e inchinarsi, assumendone l’ideologia, i metodi di studio e d’insegnamento. Una dominazione culturale che risponde a precisi rapporti di potere determinati storicamente che sono quelli del colonialismo.

Inoltre esiste uno strano scarto temporale nella presentazione delle culture.  Basti  a questo proposito un esempio: mentre per la cultura bianca europea i programmi e i testi di arte e musica giungono sino ai nostri giorni, per gli altri continenti sono presentate solo le culture tradizionali rurali anche se esse ne rappresentano ormai solo una parte, essendo sorte le nuove culture urbane e comunque moderne, in molti casi ibridate con quelle occidentali (oggi nei paesi del sud del mondo la maggior parte della popolazione vive nelle grandi aggregazioni urbane). Spesso, queste ultime culture che integrano elementi non autoctoni sono sottoposte al vaglio di un giudizio di scarsa autenticità, concetto assai rischioso e scivoloso, quasi che solo la nostra cultura avesse la possibilità di evolvere e innovarsi anche integrando elementi provenienti da altre. Le altre resterebbero invece ferme a molti anni orsono, forse per rappresentarne uno stato “selvaggio” o comunque per relegarle  a cartolina esotica.

La musica di corte dell’Asia nordoccidentale

L’uso del termine “musica d’arte occidentale” consente di assimilare alla sua origine e ai suoi canoni modellati sulle opere di compositori europei la produzione degli emigrati colonizzatori in Nord America e in altre regioni. Un’operazione evidentemente politica per l’affermazione della tradizione musicale delle culture colonizzatrici.
Nell’educazione musicale d’oggi è necessario demistificare e relativizzare tale tradizione musicale. In tal senso può essere interessante la proposta sviluppata già alla fine degli anni novanta da Barbara Lundquist (1998) e in seguito ripresa dal musicologo neozelandese John Drummond (2010). In particolare, John Drummond osserva come la “musica d’arte occidentale”, nella sua pretesa superiorità  si delocalizza e assolutizza. Anche il gamelan o il djembé, scrive Drummond, possono essere considerati come mondiali, ma sono invece sempre descritti come indonesiano o africano. Inoltre, s’interroga su cosa significhi “Europa” alla luce del fatto che i geografi non accettano l’idea che essa sia un continente preferendo descrivere la massa terrestre che va dalla Norvegia alla Cina come Asia o Eurasia. Incrociando questo interrogativo geografico con altri di tipo musicologico sul significato di “musica d’arte” Drummond scrive:
Secondo questo cambiamento di prospettiva, la musica d’arte occidentale può essere meglio descritta come “musica d’arte dell’Asia nord-occidentale”. Ma cosa significa “musica d’arte”? Si può definire a grandi linee come una musica che possiede cinque caratteristiche: è eseguita da professionisti che hanno seguito una formazione disciplinare; ha un canone di opere musicali tradizionali, di solito di compositori identificati; esiste una notazione attraverso la quale queste opere sono conservate; ha una teoria della musica; e pretende di essere “artistica”. Queste caratteristiche (in particolare, forse, l’ultima) le permettono di affermare di essere una “musica seria”, in contrasto con le musiche “popolari” o “folk”. La musica d’arte dell’Asia nordoccidentale non è l’unica musica al mondo che può vantare queste caratteristiche; esse possono essere scoperte, ad esempio, nello ya yueh cinese, nel gagaku giapponese, nello hyangak coreano, nel pi phat cambogiano e nelle pratiche musicali della Persia e dell’India settentrionale. Tutte queste sono asiatiche e tutte potrebbero essere descritte come “musiche d’arte”, ma un altro termine comunemente usato dagli etnomusicologi è “musica di corte” – “tradizioni musicali che erano apprezzate e sostenute dai gruppi di controllo economico o governativo di quelle società” (Malm 1977, p. 70). Ciò è comprensibile: la formazione musicale, la conservazione delle tradizioni, la scrittura di opere musicali e lo sviluppo di una teoria richiedono l’incontro di particolari fattori economici e intellettuali, e tale convergenza è più probabile che si verifichi nell’ambiente di un’élite di governo. Su questa base, quindi, il termine “musica d’arte dell’Asia nord-occidentale” può essere ulteriormente modificato in “musica di corte dell’Asia nordoccidentale (Drummond 2010, p. 121).

Si può convenire in tutto o in parte con le affermazioni di Drummond, ma è certo che la  prospettiva che egli propone consente sia di collocare localmente e storicamente la musica definita “di corte dell’Asia nordoccidentale ” relativizzandone l’importanza e permette anche di immaginare nuovi scenari per la formazione degli/delle insegnanti. Infatti, potrebbe contribuire a evitare l’imbarazzo e l’alienazione musicale di quei futuri insegnanti la cui identità non è modellata o non vuole modellarsi sull’assolutismo di quel tipo di musica. Ciò potrebbe permettere di immaginare anche nuovi profili d’insegnanti più attenti a progettare percorsi che non ingabbino forzatamente i giovani nello stampo estetico della musica di corte dell’Asia nordoccidentale, in un momento tra l’altro in cui la varietà delle manifestazioni diverse della musicalità è molto alta.
Ciò permetterebbe, ovunque e non solo in Italia uno sviluppo di percorsi musicali personali per i giovani che affrontano lo studio della musica, con un sicuro aumento della motivazione rispetto a istituzioni che promuovono curricoli univoci e che spesso sono omologanti e demotivanti. Sarebbe anche un buon contributo allo sviluppo di una visione multiculturale della nostra società, sia per quanto riguarda gli studenti che le/gli insegnanti.

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Note

[1] Tutte le traduzioni delle citazioni da testi non disponibili in italiano sono mie.

[2] Giova ricordare che per la nascita dell’etnomusicologia ebbe un ruolo centrale il Phonogramm Archiv, fondato nel 1902 presso l’Istituto di Psicologia dell’Università di Berlino, per iniziativa di Carl Stumpf, Otto Abraham ed Erich von Hornbostel. Nelle sue intenzioni programmatiche il Phonogramm Archiv doveva studiare soprattutto i processi mentali alla base del fare musica, analizzare melodie e scale, gli strumenti e le loro accordature. Tuttavia, il progetto di studiare come la mente umana lavorasse con la musica passò presto in secondo piano e l’archivio berlinese divenne il punto di riferimento per tutti coloro che si occupavano di “musicologia comparata” come venne chiamata la nuova disciplina, a significare che essa confrontava i diversi sistemi musicali del mondo.

[3] Rimando per questo argomento al mio testo Musica e intercultura. Le diversità culturali in educazione musicale, Milano, Angeli, 2013.

Musiche di tutto il mondo

Uno dei grandi e fondamentali compiti assolti dall’etnomusicologia dalla sua nascita a oggi è quello di averci fatto conoscere le espressioni musicali del mondo intero. Non solo oggi disponiamo di una sterminata quantità di registrazioni, ma abbiamo anche ampie informazioni sui contesti in cui avviene la produzione musicale, le sue funzioni nelle diverse società e, come vedremo più avanti, anche su chi sono, cosa fanno e cosa pensano coloro che ne sono gli artefici o, per usare un’espressione di John Blacking (1986) ormai universalmente diffusa, i music maker.
Eppure, salvo eccezioni lodevoli, la formazione di Conservatorio degli insegnanti è ancora legata quasi solo alla musica d’arte europea e non contempla una visione universale della musica. Come ha scritto Carlo Delfrati (2017), il modello formativo dei conservatori è ancora quello del “virtuoso romantico” e della musicologia occidentale che vede nella musica un susseguirsi di “opere” fondamentali. Inoltre, tale tipo di formazione comporta la costruzione di un’identità musicale tutta interna ai confini di quel modello e quindi al sentirsi a proprio agio e sul proprio terreno solo usando come materiali per l’insegnamento quelli che provengono dal repertorio d’arte europeo. In questo quadro, appare normale che nella nostra scuola si affermi comunque e sempre l’eurocentrismo bianco della musica d’arte europea  e tutte le altre espressioni siano, anche quando presenti, confuse  nella categoria delle “altre” culture.

Per queste ragioni, prima ancora di affrontare le possibili suggestioni metodologiche, è bene affermare che la formazione delle/degli insegnanti deve necessariamente allargarsi a prospettive più ampie, che li portino a conoscere e considerare nella loro importanza le musiche delle diverse parti del mondo, non come un accessorio decorativo alla loro preparazione musicale ma come un elemento fondamentale.
Due osservazioni possono essere utili da subito per valutare l’importanza di una conoscenza del far musica nel mondo. La prima è che guardando a tutto il pianeta e alla storia umana si scopre facilmente che il 95% della produzione musicale mondiale è di mentalità e di pratica orale (come lo è peraltro anche la nostra musica folklorica).Si tratta di una constatazione semplice, ma che cozza immediatamente con quanto succede in tante prime lezioni nella nostra scuola di base, in cui l’insegnante traccia sulla lavagna chiave di sol e pentagramma e insegna a “leggere” le note da eseguire. Un approccio dannoso, basato sul circuito occhio-mano con esclusione dell’orecchio, il cui sviluppo dovrebbe essere il primo obiettivo a cui concorrono invece sicuramente le pratiche orali. Inoltre, si tratta di un metodo centrato sulla storia formativa dell’insegnante che trascura l’esperienza e il sapere musicale degli allievi che dovrebbe essere il punto di partenza dell’apprendimento. Infine, l’insegnamento della lettura musicale, motivato in  relazione alle varie attività in cui può essere utile, è concepito invece nella nostra scuola quasi solo come supporto all’esecuzione. Si ripete così in sedicesimo il percorso deputato alla creazione di esecutori.

La creatività è considerata marginalmente nei nostri percorsi d’insegnamento della musica ai vari livelli. Nella scuola di base si parla pochissimo di creatività musicale, ritenendola appannaggio di quei pochi talentuosi che dopo un lungo tirocinio tecnico arrivano a comporre attraverso la scrittura. La creatività, nella scuola può essere ricercata proprio attraverso la pratica orale e segnatamente l’improvvisazione, mai curata nella nostra didattica. In realtà, se guardiamo oltre il lessico in uso nella musica europea l’improvvisazione in molte culture non è considerata come attività a sé poiché è totalmente assimilata alla creazione musicale. Si badi tra l’altro che parlare di pratica, di trasmissione e di mentalità orale non implica la totale assenza di una forma di notazione bensì che non ci si deve sentire necessariamente legati in tutto e per tutto a seguirla, ma si può variare, modificare, cambiare.

Un altro problema riguarda l’apprendimento del sistema teorico della musica. Infatti, possiamo distinguere tra culture che hanno un sistema teorico esplicito e altre che lo hanno implicito. La cultura musicale occidentale bianca ha una teoria esplicita, in cui le regole sono dichiarate e talvolta apprese prima ancora di saperle applicare. La teoria e l’armonia insegnate in conservatorio ne sono un classico esempio. La teoria implicita invece non è presentata nei trattati ma viene acquisita attraverso la pratica. Si può stabilire, almeno in parte, un parallelo con la lingua: chi legge e ascolta molto acquisisce progressivamente una grammatica implicita, che gli permette di parlare e scrivere correttamente senza pensare alle strutture grammaticali. La tradizione Mandingo dell’Africa occidentale non possiede una teoria musicale formalizzata ma un maestro di djembé sa perfettamente ciò che sta nelle regole e cosa e come si deve insegnare. È incredibile come la nostra didattica musicale continui ad anteporre l’apprendimento di regole alla pratica.
Inoltre, le musiche del mondo ci insegnano anche tecniche di suono, scale e strumenti diversi da quelli più consueti, offrendo possibilità espressive nuove e stimolanti che arricchiscono il progetto educativo.

Apprendere  oralmente

Purtroppo, l’impostazione eurocentrica della formazione musicale ha assolutizzato i metodi d’insegnamento occidentali che talvolta, con spirito coloniale, sono anche stati esportati nel mondo come più validi di quelli di altri paesi. Al contrario l’etnomusicologia ha studiato e valorizzato l’apprendimento della musica nei diversi contesti formali e informali, le tecniche orali, di memorizzazione, verbali e non verbali e le strategie di prova. Ciò in particolare dal 1964, quando nel suo testo Anthropology of music Alan Merriam ha affermato che le modalità d’apprendimento sono fondamentali per capire la musica come cultura.
L’assoluta priorità data nel nostro sistema formativo all’apprendimento attraverso la lettura è peraltro coerente con il modello del virtuoso romantico; non a caso proprio in quel periodo della storia della musica si affermò l’idea del brano di notazione prescrittiva che deve rimanere inalterato nei secoli come opera immortale. Tutto ciò è funzionale a una precisa concezione estetica della musica che, secondo Carl Dahlhaus, uno dei principali esponenti della musicologia accademica europea, ha la sua sostanza prioritariamente in quelle opere significative sopravvissute alla cultura del loro tempo e dove il concetto di opera e non di evento è la pietra miliare della storia della musica (Dahlhaus, 1977). Corollario di tale concezione è, evidentemente, l’idea della musica come attività esclusivamente artistica e definita nell’ambito estetico come separata dalla vita dell’uomo e dalle sue attività sociali.

Al contrario, l’etnomusicologia c’insegna a prestare attenzione alle molteplici funzioni che l’evento musicale ha nelle società (intrattenimento, rituale, celebrativa, ecc.) e a considerare che la musica è una particolare condotta comunicativa ed espressiva che si avvale del suono organizzato in modo non molto diverso dal linguaggio verbale. Ciò pone in discussione la visione esclusivamente artistica della musica portandoci a considerare che la musica “non è un’arte (…) ma può dare origine a forme d’arte proprio come il linguaggio (con la letteratura, la recitazione teatrale, ecc.)” (Giannattasio 2019, p. XXI).
Peraltro, l’idea che esistano musiche puramente artistiche, senza implicazioni con il contesto sociale e relazionale che necessariamente le circonda, è un’illusione. Se guardiamo ai contesti d’uso oggi noi ascoltiamo in concerto opere che furono composte per fini religiosi o d’intrattenimento, di corteggiamento, di danza o variamente cerimoniali e che erano quindi coinvolte in situazioni contestuali più ampie di quelle strettamente concertistiche. Inoltre, i mezzi di comunicazione di massa, dal novecento in poi, ci hanno abituati ai cambiamenti di contesto delle musiche, per cui un brano del divino Mozart crea l’atmosfera per la pubblicità di uno pneumatico o di un whisky di pregio. Più recentemente l’intensificazione degli scambi culturali e la diffusione della world music ci portano a considerare come artisti, a volte con il loro stesso stupore, protagonisti di pratiche musicali che in origine erano “funzionali” e poco considerate dal punto di vista artistico. In pratica, è oggi impossibile postulare l’esistenza di musiche “pure”, destinate solo all’arte così come di musiche soltanto “funzionali”.

Il diverso contesto muta evidentemente anche la funzione di una musica che da espressione artistica può diventare induzione pubblicitaria, da momento devozionale divenire intrattenimento e di questo dobbiamo essere coscienti quando operiamo in un ambito formativo.
Peraltro, convengo con le osservazioni di Huib Schippers (2010) secondo il quale quasi tutta la musica è trasmessa fuori contesto e tutto il nostro sistema di educazione formale è un enorme esercizio di ri-contestualizzazione.
Christopher Small (1987) ha sostenuto il significato rituale dei concerti di musica classica contemporanea negli USA. Secondo tale autore che contaminava tra loro  sociologia della musica, etnomusicologia ed educazione musicale, essi sono occasioni celebrative rituali dei valori delle  upper-middle class americane e per taluni frequentatori sono tanto legati all’occasione rituale quanto alla musica che viene eseguita.
Ho voluto iniziare questo articolo dalle possibilità offerte dalla conoscenza delle musiche di tutto il mondo per relativizzare la tradizione della musica d’arte europea e per dare nuovi stimoli e occasioni all’educazione musicale. In effetti è stata la ricerca etnomusicologica che ci dà oggi la possibilità di conoscere le musiche del mondo e di averne la disponibilità in CD o attraverso internet. Tuttavia, tra l’etnomusicologia e l’educazione musicale esistono delle connessioni e dei legami anche a livello teorico che sono forse ancora più importanti.

Cosa studia l’etnomusicologia

Se, come ho scritto, l’etnomusicologia ci ha permesso di conoscere le espressioni musicali del mondo, è anche vero che almeno da qualche decennio l’attenzione dei ricercatori ha cominciato a includere non solo lo studio delle musiche, ma anche di chi fa musica e di come la fa. Se ancora oggi, alla prima lezione dei corsi, raccolgo dagli studenti definizioni della materia come “studio delle musiche non europee”, o “di tradizione orale” o ancora “dei popoli primitivi” oppure di “come è evoluto il linguaggio dei suoni”, che in realtà non sono completamente sbagliate ma colgono un aspetto o un momento storico della disciplina, credo che la definizione più aggiornata che si può dare oggi è quella di Timothy  Rice:
L’etnomusicologia è lo studio di perché e come gli esseri umani sono musicali (…) “Musicale”, in questa definizione, non si riferisce al talento o all’abilità musicale ma piuttosto alla capacità degli umani di creare, eseguire, organizzare cognitivamente, reagire fisicamente ed emotivamente e interpretare i significati del suono umanamente organizzato (Rice 2014, pag. 1). [1]

A tale definizione, ampia e, come si può facilmente notare, molto comprensiva dell’attività musicale umana si è giunti attraverso un lungo percorso a cui hanno contribuito in particolare alcuni autori di riferimento nella storia della disciplina come il già citato John Blacking (1986) e Jeff Titon (1997).
Una tale concezione significa spostare la ricerca dagli oggetti musicali ai comportamenti umani che danno loro origine in luoghi, epoche e contesti specifici[2]. Non solo, ma lo sguardo etnomusicologico comporta che tali comportamenti siano collocati e che sia attribuito loro un significato in base alla situazione in cui si fa musica e al ventaglio delle relazioni umane e sociali che entrano in gioco nell’evento che si svolge intorno alla musica. Una contrapposizione tra oggetto musicale ed evento si rivela quindi poco sensata, poiché il primo è parte del secondo e ha senso solo se collocato al suo interno. A questo proposito può essere utile ricordare le formulazioni di Christopher Small che per rispondere all’esigenza di sottolineare il carattere processuale dell’attività musicale, opposto alla visione della musica come oggetto, preferì usare una forma verbale (to music) rispetto a un sostantivo come music.
Small propone questa definizione: “To music significa partecipare, a qualsiasi titolo, a una performance musicale, sia eseguendo, sia ascoltando, sia provando o praticando, sia fornendo materiale per l’esecuzione (ciò che si chiama composizione), sia ballando”. (Small 1998, p. 9).
Questa visione della musica come partecipazione a un processo è ancora una volta ben diversa da quella che ne individua natura e storia nelle “opere”, infatti, Small sostiene che la natura e il significato della musica non stanno negli oggetti bensì nell’azione e in cosa fanno le persone (Small 1998, p. 8). Le parole di Small che sottolineano che la musica è qualcosa che le persone fanno, trovano un riscontro quasi letterale in quelle di uno degli autori più interessanti nel campo dell’educazione musicale, David J. Elliott che usa tra l’altro il neologismo musicing (sempre da to music) simile  al musicking usato invece da Small.

Elliott e Silverman così definiscono il concetto di musicing:
Il termine musicing è una contrazione di music making. Con il termine musicing intendiamo tutte le forme di fare musica, compresi (ma non solo) tutti i tipi e le forme specifiche di esecuzione, improvvisazione, composizione, arrangiamento, direzione d’orchestra, registrazione, campionamento, scultura di suoni, far musica e muoversi, far musica e ballare, far musica e ascoltare, far musica e adorare, e così via in tutti i tipi di situazioni culturali. (Elliott e Silverman 2015, p. 16).

Elliott e Silverman aggiungono due ulteriori osservazioni conseguenti: la prima è che la musica è anzitutto una pratica umana diffusa e la seconda che è assolutamente infondato per gli educatori assumerla in primo luogo come un “oggetto” destinato primariamente a una “distaccata contemplazione”. Il concetto della musica esclusivamente intesa come “bella arte” oscura il senso dialetticamente interrelazionale del fare e ascoltare musica nella società. In realtà sono proprio le pratiche sociali di una comunità a qualificare come “musica” una serie di azioni che compiono i suoi componenti (canto, danza, composizione ecc.). Le posizioni di Elliott e Silverman nascono nell’ambito della corrente pedagogica angloamericana della Praxial Music Education che tra i suoi meriti ha avuto quello di opporsi al paradigma musicologico, un tempo dominante negli USA, all’interno del quale si era arrivati a stendere liste di “opere fondamentali” su cui si doveva basare l’educazione musicale.
Come vedremo tra poco, queste riflessioni trovano consonanze nel mondo dell’educazione musicale italiana, soprattutto tra gli educatori più accorti che non si accontentano di ripercorrere lo stantio percorso indicato nelle enciclopedie e nei testi di didattica della musica che la definiscono ancora semplicisticamente come “l’arte dei suoni”.

Qualche convergenza nell’educazione musicale

Già nel 1987 Gino Stefani, nel corso di uno dei colloqui di Pedagogia musicale che si tenevano in quegli anni ad Assisi, proponendo un nuovo orientamento degli studi musicali sostenne: L’orizzonte, il quadro operativo, il campo non è la musica ma la musicalità. Sono i comportamenti musicali, risultanti di motivazioni, attività, modi di appropriazione. Sono gli infiniti percorsi realizzabili nelle aree di musicalità di “uno qualunque” di “uno che suona”, di un musicista o musicologo (Stefani 1987, p. 81).
Stefani era semiologo ed educatore musicale, non etnomusicologo, ma nelle sue parole appare evidente la scelta di indirizzare la ricerca per quello che definiva come un “nuovo paradigma di studi musicali”, con ricaduta conseguente sull’educazione musicale, verso l’espressione umana della musicalità e non principalmente sulla musica come oggetto. Inoltre, è importante il concetto di “percorso nella musicalità” a indicare che alla realizzazione della propria identità musicale si può giungere con percorsi individuali molto diversi tra loro.
I percorsi attraverso cui Stefani giunse a formulare la sua proposta di un nuovo paradigma di studi musicali  sono vari e articolati e passano in particolare attraverso la pedagogia degli oppressi di Paulo Freire (1971)  e la semiologia di Prieto (1976), ma è significativo che l’intervento di Stefani sia del 1987, cioè un anno dopo la pubblicazione in Italia del testo fondamentale di John Blacking già citato come un passaggio chiave della riflessione etnomusicologica che ha portato a ridefinire il campo della materia in quanto studio di come l’uomo e la donna siano musicali. Il libro di Blacking pone al centro della ricerca la domanda “Come è musicale l’uomo” e segna con questo una svolta decisiva in etnomusicologia. Inoltre, così come Blacking nelle sue opere denuncia l’etnocentrismo eurocolto rispetto alle altre culture musicali, le ricerche di Stefani sul nuovo paradigma di studi musicali e la competenza musicale comune si propongono di promuovere e valorizzare la capacità di tutti i soggetti umani di produrre senso con e sulla musica.

John Blacking ha sostenuto che tutti gli individui sono portatori di musicalità e che sono le condizioni sociali che determinano che essa si sviluppi più o meno. Blacking sosteneva questa tesi osservando come i bambini Venda, da lui studiati, sviluppassero in modo uniforme e coordinato le loro capacità di far musica (e di danzare) grazie a una società in cui le attività infantili e quella musicale in particolare non portavano la traccia della competizione, come invece avviene in Europa, dove l’accento posto sul “talento” e la conseguente visione competitiva escludono gran parte delle persone dal diritto di fare musica. L’affermazione del talento di pochi coincide quindi con la negazione della musicalità della maggioranza degli esseri umani.
La ricerca sul “nuovo paradigma di studi musicali” assume la medesima prospettiva antropologica di Blacking e ha influenzato significativamente l’evoluzione dell’educazione musicale. Dal punto di vista educativo, siamo di fronte a un ribaltamento totale di prospettiva poiché non si tratta più di avvicinare gli allievi a un sistema musicale dato una volta per tutte e a una serie di opere legittimate dalla storia, bensì di prendersi cura dei loro bisogni e motivazioni al fare musica per favorire lo sviluppo della loro musicalità. Si tratta di un progetto educativo che, spesso, porta anche i caratteri dell’interculturalità, poiché l’età, la formazione e la cultura musicale dell’insegnante sono diverse da quelle degli allievi.
L’educazione musicale nella scuola di base è, dal punto di vista relazionale, un terreno complicato. A differenza di altre materie gli allievi hanno una loro competenza di base generalmente diversa da quella dell’insegnante e con buone ragioni pretendono che sia riconosciuta. Tale competenza nasce in maggior parte fuori dalla scuola, sia con l’esperienza quotidiana d’ascolto sia con la pratica musicale che dà luogo a percorsi d’educazione informale. Si tratta in buona parte di un confronto con un’alterità musicale di cui i/le docenti debbono tenere il massimo conto per sviluppare la loro azione pedagogica.

Andiamo ora a vedere cosa accade oggi nel campo etnomusicologico. Uno dei temi storicamente più discussi nell’ambito della disciplina è proprio quello del confronto con l’alterità. Una problematica che ha trovato due diverse articolazioni: quella di classe sociale, quando un ricercatore di estrazione accademica va o andava a registrare, nel suo stesso paese, musica delle classi popolari (l’Italia ha una grande tradizione di questa pratica) e un’altra invece relativa all’esperienza sul campo in luoghi diversi e anche lontani dalla propria patria. In ambedue i casi la questione dell’incontro con l’alterità si pone, negli ultimi decenni, in modo diverso dalle esperienze “storiche” dell’etnomusicologia e anche dell’antropologia.
Nel primo caso, la penetrazione dei mass media e della cultura musicale mainstream tra le classi popolari e i mutamenti della composizione sociale delle stesse comportano che la cultura delle classi subalterne non sia più completamente alternativa a quella egemone nei termini definiti da Gramsci. Dal punto di vista della ricerca presso altri popoli, sono lontani i tempi in cui un ricercatore andava, con il suo apparecchio, a registrare musiche di gruppi che vivevano più o meno appartati dal mondo e avevano scarse conoscenze di quanto accadeva oltre i confini del loro territorio. In tale situazione il ricercatore ascoltava, raccoglieva registrazioni, descriveva e interpretava le musiche del popolo presso cui si trovava. Anche questa situazione è profondamente mutata. Oggi il ricercatore si reca sul campo, ma spesso vi trova persone che sanno come è vissuta all’esterno la propria musica, conoscono le altre culture attraverso i media e soprattutto vogliono avere voce sull’interpretazione della propria. Proprio da queste situazioni sono nate nuove esperienze in cui la costruzione del sapere avviene in modo dialogico tra ricercatore e colui o coloro che un tempo erano definiti “informatori” o “portatori”. Siamo in presenza di una co-costruzione del sapere che richiede un percorso dialogico comune.  Si tratta di un metodo che può dire qualcosa agli/alle insegnanti perché anche nella scuola, come abbiamo visto, si verifica sempre più che la pratica pedagogica necessiti di strategie di approssimazione all’altro e che si sappia guardare con discrezione e intelligenza nei campi che non sono i propri. E da ciò possa nascere una cultura co-costruita e condivisa. Inoltre, quanto a definire chi e come siano gli “altri” che s’incontrano nel lavoro scolastico se è vero che già lo scarto generazionale può essere significativo, vale la pena di discutere cosa significhi la presenza di alunni stranieri nelle classi. A questo proposito si deve distinguere tra coloro che sono stranieri a causa della nostra arcaica legislazione, che ancora considera tali i nati o i residenti da tanti anni in Italia  da genitori di altri paesi  e coloro che sono arrivati da poco. Questo articolo non è dedicato specificamente alle strategie della pedagogia interculturale[3], tuttavia è importante comprendere che molti di coloro che consideriamo “altri” sono ormai massicciamente presenti nelle nostre città, paesi e scuole e quindi ogni classe e ogni quartiere possono diventare laboratori di conoscenza e di avvicinamento all’alterità. Naturalmente, ciò significa confrontarsi con identità ibride e mutanti, indagare delle condizioni e delle culture giovanili che si articolano tra scuola, territorio, luoghi di aggregazione in un contesto dove etnomusicologia e pedagogia musicale possono cooperare in una ricerca comune ancora da costruire ma di grande interesse. L’idea che l’insegnante possa o forse debba essere anche ricercatore stenta ad affermarsi nelle nostre istituzioni formative, eppure credo che sia molto importante che la pedagogia apprenda dal metodo etnomusicologico dell’osservazione partecipante la capacità di comprendere e rispettare le categorie di valore dell’altro.

Ciò è anche vero per le situazioni non scolastiche: è ormai chiaro che i sistemi di educazione formale non possono rispondere da soli alle sfide della società d’oggi. A tali situazioni si interessa l’etnomusicologia applicata che studia per esempio la community music, che ha i suoi luoghi nei quartieri, nei centri giovanili e culturali, nelle carceri, nelle case di riposo e in tutti quei luoghi in cui si cerca di affermare una democrazia culturale in cui l’educazione musicale, rivolta anche agli adulti, va oltre i limiti della scuola. Situazioni in cui si esercitano forme di apprendimento informale importanti in un discorso educativo allargato alla società.

Questioni coloniali

L’etnomusicologia è una disciplina vicina all’antropologia, ne condivide molti interessi e metodi di ricerca. Purtroppo, al pari dell’antropologia, ha accompagnato spesso il colonialismo anzi in parte è nata con quest’ultimo. Come affrontare il passato coloniale e decolonizzare la cultura e la ricerca è un tema dibattuto da decenni e possiamo trovarne le origini nella conferenza di Bandung del 1959 dove si iniziò a discutere come combattere la supremazia occidentale bianca e demistificare le strutture della colonizzazione materiale e simbolica.
Oggi il dibattito sulle responsabilità coloniali dell’etnomusicologia è aperto, e arriva anche a coinvolgerne la stessa definizione, con il prefisso “etno” (e l’aggettivo “etnico”)  che purtroppo ha assunto speso connotazioni legate alla “razza”, al sangue o a fantasiose discendenze ancestrali che hanno richiesto numerosi interventi per ridefinirne il carattere reale di costruzione e negoziazione culturale. Qualche autore è giunto a sostenere che l’etnomusicologia è la disciplina con cui chi ha diritto di parola descrive le musiche di coloro a cui invece tale diritto è negato. In effetti, nel passato l’etnomusicologia ha spesso tolto la parola ai popoli che venivano osservati, imponendo il punto di vista del ricercatore occidentale sulle loro musiche. Un atteggiamento che è messo in discussione ormai almeno da vent’anni. Nel 2006 una conferenza nazionale della SEM (Society for Ethnomusicology) ha affrontato il tema della decolonizzazione con diversi panel che hanno dibattuto i metodi seguiti in America per la ricerca sulla musica dei nativi e anche su come intervenire nelle scuole di musica. Il noto ricercatore Steven Feld ormai da tempo discute con i Bosavi le pubblicazioni delle sue ricerche nella loro regione. Anche in Italia, un recentissimo convegno dell’Istituto Interculturale di Studi Musicali Comparati della Fondazione Cini (giugno 2024) è stato incentrato sui concetti di repatriation e rematriation (in italiano restituzione) ritenendoli fondamentali per l’etnomusicologia d’oggi, così come i processi di decolonizzazione, lo sviluppo di un’etnomusicologia partecipata, condivisa e dialogica. Si tratta di argomenti importanti anche per stabilire chi ha diritti sulle registrazioni musicali, usate in gran parte senza il coinvolgimento dei soggetti che ne sono protagonisti e senza alcuna considerazione del loro punto di vista.

Il colonialismo storico dominò attraverso strutture materiali ma anche simboliche che imposero la visione del mondo occidentale bianco con la forza, l’ideologia e la cultura. Oggi, terminato tale periodo, il neocolonialismo riconfigura il discorso della civilizzazione, mascherandolo da sviluppo (Rosabal Coto 2019). La colonizzazione coinvolge ogni dimensione dell’esistenza umana, vale a dire quella del potere, quella dell’essere e della sua soggettività e infine l’ambito della conoscenza. Di conseguenza, anche l’educazione in generale e musicale in particolare sono stati fonte e veicolo della colonizzazione.
Sul terreno dell’educazione, il dibattito sulla decolonizzazione  si è sviluppato in un primo momento negli USA, paese coloniale in origine e in America Latina, continente che la colonizzazione l’ha subita pesantemente, ma trova ormai sviluppi anche in Italia (Burgio 2022).
La prima rivista che si è occupata specificamente del colonialismo nell’educazione musicale  e della sua decolonizzazione è stata la Revista Internacional de Educaciòn Musical, promossa dall’ISME, con un numero speciale uscito alla fine del 2017, in cui gli autori si proponevano di analizzare le logiche attraverso le quali le strutture del potere coloniale hanno sviluppato un concetto razzista di essere umano svalutando corpi, lingue, culture, religioni, economie e modi di organizzazione sociale e di soggettività.
Il colonialismo in educazione musicale si è articolato sia attraverso l’imposizione di valori che di metodi e pratiche. Dal punto di vista valoriale, è evidente come la musica colta occidentale sia stata assunta a modello del bello e della musica d’arte, con la svalutazione e la marginalizzazione delle culture dei paesi colonizzati e ciò all’interno stesso di tali paesi. Parallelamente sono stati importati repertori e strumenti occidentali in luogo di quelli autoctoni. Dal punto di vista dei metodi, sono stati imposti quelli dei colonizzatori e i sistemi di valutazione a essi relativi. Non c’è stato alcun rispetto nell’espropriare le risorse naturali dei paesi colonizzati per la costruzione industriale di strumenti occidentali. La concezione della musica imposta all’educazione musicale formale è stata quella analitica della tradizione musicologica europea, in paesi dove al contrario la musica è esperienza globale, sociale e corporea. Ancor più, è sempre Rosabal Coto che scrive, le condizioni materiali e ambientali in cui avviene la socializzazione musicale nel Nord non sono le stesse dell’America Latina. Ciò per motivi economici, culturali e ambientali relativi, per esempio, alle categorie di spazio e tempo, pertinenti alla musica che sono fortemente contestuali. A questo proposito egli pone l’esempio delle stagioni, che in Europa e negli USA sono quattro mentre in diverse regioni dell’America equatoriale solo due. In un tale quadro, trovano anche ampie motivazioni le critiche rivolte a El sistema venezuelano sia per i metodi d’insegnamento che per i repertori affrontati (Minafra 2017).

L’esigenza di una decolonizzazione dell’educazione musicale è sentita da diversi anni non solo in America latina ma anche in Africa, come è testimoniato dalla documentazione dei congressi internazionali dell’ISME e dalla sua rivista International Journal of Music Education,  dove sin dagli anni settanta si sono succeduti  interventi di autori africani come Kwabena Nketia e Kazadi wa Mukuna che sollecitano una rivalutazione delle culture autoctone e dei metodi d’insegnamento abbandonati sotto il dominio coloniale. È anche contestata la pratica di organizzare incontri musicali tradizionali all’interno di formule mutuate dai metodi coloniali e la misurazione dei progressi degli studenti in base a criteri e standard estranei alla loro cultura.
In Italia, nonostante gli sforzi compiuti a partire dagli anni novanta sotto la spinta dell’educazione interculturale per valorizzare le diversità culturali, la struttura coloniale della scuola non è mutata.
Per quanto riguarda l’educazione musicale sembra anzi che nell’ultimo decennio sia avvenuta una restaurazione dei metodi e dei contenuti dell’insegnamento. Si pubblicano (ancora) libri di testo in cui si parla quasi solo della musica “d’arte” occidentale e dove tutto il resto dell’infinita produzione musicale mondiale ha il ruolo di un dessert di fine pasto. Sono convinto che un certo etnocentrismo nell’educazione non sia esclusivamente europeo; ciò che definisce l’atteggiamento della nostra scuola come coloniale è che la tradizione musicale d’arte occidentale è assunta a modello del bello a cui tutte le culture devono conformarsi e inchinarsi, assumendone l’ideologia, i metodi di studio e d’insegnamento. Una dominazione culturale che risponde a precisi rapporti di potere determinati storicamente che sono quelli del colonialismo.

Inoltre esiste uno strano scarto temporale nella presentazione delle culture.  Basti  a questo proposito un esempio: mentre per la cultura bianca europea i programmi e i testi di arte e musica giungono sino ai nostri giorni, per gli altri continenti sono presentate solo le culture tradizionali rurali anche se esse ne rappresentano ormai solo una parte, essendo sorte le nuove culture urbane e comunque moderne, in molti casi ibridate con quelle occidentali (oggi nei paesi del sud del mondo la maggior parte della popolazione vive nelle grandi aggregazioni urbane). Spesso, queste ultime culture che integrano elementi non autoctoni sono sottoposte al vaglio di un giudizio di scarsa autenticità, concetto assai rischioso e scivoloso, quasi che solo la nostra cultura avesse la possibilità di evolvere e innovarsi anche integrando elementi provenienti da altre. Le altre resterebbero invece ferme a molti anni orsono, forse per rappresentarne uno stato “selvaggio” o comunque per relegarle  a cartolina esotica.

La musica di corte dell’Asia nordoccidentale

L’uso del termine “musica d’arte occidentale” consente di assimilare alla sua origine e ai suoi canoni modellati sulle opere di compositori europei la produzione degli emigrati colonizzatori in Nord America e in altre regioni. Un’operazione evidentemente politica per l’affermazione della tradizione musicale delle culture colonizzatrici.
Nell’educazione musicale d’oggi è necessario demistificare e relativizzare tale tradizione musicale. In tal senso può essere interessante la proposta sviluppata già alla fine degli anni novanta da Barbara Lundquist (1998) e in seguito ripresa dal musicologo neozelandese John Drummond (2010). In particolare, John Drummond osserva come la “musica d’arte occidentale”, nella sua pretesa superiorità  si delocalizza e assolutizza. Anche il gamelan o il djembé, scrive Drummond, possono essere considerati come mondiali, ma sono invece sempre descritti come indonesiano o africano. Inoltre, s’interroga su cosa significhi “Europa” alla luce del fatto che i geografi non accettano l’idea che essa sia un continente preferendo descrivere la massa terrestre che va dalla Norvegia alla Cina come Asia o Eurasia. Incrociando questo interrogativo geografico con altri di tipo musicologico sul significato di “musica d’arte” Drummond scrive:
Secondo questo cambiamento di prospettiva, la musica d’arte occidentale può essere meglio descritta come “musica d’arte dell’Asia nord-occidentale”. Ma cosa significa “musica d’arte”? Si può definire a grandi linee come una musica che possiede cinque caratteristiche: è eseguita da professionisti che hanno seguito una formazione disciplinare; ha un canone di opere musicali tradizionali, di solito di compositori identificati; esiste una notazione attraverso la quale queste opere sono conservate; ha una teoria della musica; e pretende di essere “artistica”. Queste caratteristiche (in particolare, forse, l’ultima) le permettono di affermare di essere una “musica seria”, in contrasto con le musiche “popolari” o “folk”. La musica d’arte dell’Asia nordoccidentale non è l’unica musica al mondo che può vantare queste caratteristiche; esse possono essere scoperte, ad esempio, nello ya yueh cinese, nel gagaku giapponese, nello hyangak coreano, nel pi phat cambogiano e nelle pratiche musicali della Persia e dell’India settentrionale. Tutte queste sono asiatiche e tutte potrebbero essere descritte come “musiche d’arte”, ma un altro termine comunemente usato dagli etnomusicologi è “musica di corte” – “tradizioni musicali che erano apprezzate e sostenute dai gruppi di controllo economico o governativo di quelle società” (Malm 1977, p. 70). Ciò è comprensibile: la formazione musicale, la conservazione delle tradizioni, la scrittura di opere musicali e lo sviluppo di una teoria richiedono l’incontro di particolari fattori economici e intellettuali, e tale convergenza è più probabile che si verifichi nell’ambiente di un’élite di governo. Su questa base, quindi, il termine “musica d’arte dell’Asia nord-occidentale” può essere ulteriormente modificato in “musica di corte dell’Asia nordoccidentale (Drummond 2010, p. 121).

Si può convenire in tutto o in parte con le affermazioni di Drummond, ma è certo che la  prospettiva che egli propone consente sia di collocare localmente e storicamente la musica definita “di corte dell’Asia nordoccidentale ” relativizzandone l’importanza e permette anche di immaginare nuovi scenari per la formazione degli/delle insegnanti. Infatti, potrebbe contribuire a evitare l’imbarazzo e l’alienazione musicale di quei futuri insegnanti la cui identità non è modellata o non vuole modellarsi sull’assolutismo di quel tipo di musica. Ciò potrebbe permettere di immaginare anche nuovi profili d’insegnanti più attenti a progettare percorsi che non ingabbino forzatamente i giovani nello stampo estetico della musica di corte dell’Asia nordoccidentale, in un momento tra l’altro in cui la varietà delle manifestazioni diverse della musicalità è molto alta.
Ciò permetterebbe, ovunque e non solo in Italia uno sviluppo di percorsi musicali personali per i giovani che affrontano lo studio della musica, con un sicuro aumento della motivazione rispetto a istituzioni che promuovono curricoli univoci e che spesso sono omologanti e demotivanti. Sarebbe anche un buon contributo allo sviluppo di una visione multiculturale della nostra società, sia per quanto riguarda gli studenti che le/gli insegnanti.

Bibliografia

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Note

[1] Tutte le traduzioni delle citazioni da testi non disponibili in italiano sono mie.

[2] Giova ricordare che per la nascita dell’etnomusicologia ebbe un ruolo centrale il Phonogramm Archiv, fondato nel 1902 presso l’Istituto di Psicologia dell’Università di Berlino, per iniziativa di Carl Stumpf, Otto Abraham ed Erich von Hornbostel. Nelle sue intenzioni programmatiche il Phonogramm Archiv doveva studiare soprattutto i processi mentali alla base del fare musica, analizzare melodie e scale, gli strumenti e le loro accordature. Tuttavia, il progetto di studiare come la mente umana lavorasse con la musica passò presto in secondo piano e l’archivio berlinese divenne il punto di riferimento per tutti coloro che si occupavano di “musicologia comparata” come venne chiamata la nuova disciplina, a significare che essa confrontava i diversi sistemi musicali del mondo.

[3] Rimando per questo argomento al mio testo Musica e intercultura. Le diversità culturali in educazione musicale, Milano, Angeli, 2013.

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