Lieve, come il sorriso di un mattino… a scuola.
Le opere sono spesso locali, modeste in modo toccante,
eppure ugualmente capaci di conferire un’identità[1]
J. Bruner
Nel corso di questo anno scolastico ho avuto il piacere di incontrare alcuni musicisti, didatti e appassionati di jazz, che si riconoscono nella Federazione del Jazz Italiano presieduta da Paolo Fresu, con i quali ho partecipato alla nascita dell’Associazione Il Jazz Va A Scuola[2]. Al di là del contributo che penso di aver cominciato a fornire attraverso il lavoro di studio su temi affini che riguardano in particolar modo l’improvvisazione e il dialogo sonoro nei processi educativi e formativi[3], ho cominciato anche a pensare quale contributo avrei potuto dare sul piano esperienziale a questo movimento appassionato di idee e persone, dato che a scuola ci vado tutti i giorni, ormai da trent’anni. Premesso che non ho ritenuto necessario aumentare la presenza del contenuto jazz, almeno nella mia attività ordinaria, in quanto si tratta di un genere musicale da sempre presente al pari di altri né più né meno importanti, ho cercato di cogliere alcune peculiarità che questa particolare esperienza umana e sociale della musica afroamericana poteva apportare in termini di sperimentazione e implementazione di pratiche abbastanza collaudate della mia didattica.
All’interno del progetto che da alcuni anni conduco sotto lo slogan “Ogni classe un’orchestra”[4] ho quindi deciso di scegliere un brano jazz tra quelli da preparare quest’anno con le classi terze della scuole secondarie di I grado con cui lavoro[5]. Non l’ho fatto semplicemente per variare un po’ il repertorio, obiettivo che considero relativo se non inutile nel mio caso, avendo un’innata predisposizione per la sperimentazione di suoni e musiche trasversali ai generi musicali, quanto piuttosto per provare a dare risalto ad alcune prassi dell’esperienza di una musica d’insieme orientata jazzisticamente.
Sul server del sito musescore.org ho trovato un buon arrangiamento della canzone Softly, as in a morning sunrise, scritta nel 1928 da Romberg e Hammerstein e resa famosa dall’interpretazione offerta da diversi singer e da alcuni tra i più noti musicisti jazz e ho deciso di concentrare il lavoro su quel testo dopo averlo riarrangiato e adattato alle esigenze delle classi.
Il progetto “Ogni classe un’orchestra” si caratterizza per alcune qualità imprescindibili che è importante evidenziare: nel corso del triennio ogni classe è formata anche per vivere nel corso dell’ultimo anno un’esperienza inclusiva di orchestra, un organico senza alcuna selezione in ingresso, dove tutti suonano, senza esclusioni, dove cerco, sulla base della conoscenza sviluppata nei due anni precedenti, di valorizzare le diversi attitudini e competenze che ogni ragazza e ragazzo ha maturato all’interno e all’esterno della scuola. Tutte le classi terze preparano gli stessi brani in modo che sia possibile effettuare anche un apprendimento a classi aperte e per piccoli gruppi di livello omogeneo, oltre che offrire utili opportunità di scambi, sostituzioni e integrazioni. La classe matura in questo processo una propria identità musicale di gruppo (proprio come ogni piccola o grande orchestra) e sperimenta l’esperienza unica e irripetibile del suonare insieme sviluppando relazioni musicali sempre più significative.
Con Softly, as in a morning sunrise, lo si coglie chiaramente dal filmato, è stato possibile valorizzare sia la competenza di due ragazzi che, avendo svolto (ed abbandonato) lo studio della chitarra classica, ho recuperato come bassisti, sia la presenza di alcuni alunni che studiano il pianoforte, di uno che suona il violino, oltre alle attitudini di tutti gli altri che nel corso del triennio hanno manifestato maggiori o minori competenze nell’utilizzo delle tastiere, della batteria e del flauto.
Lo studio è stato supportato anche dalla trascrizione del brano che ho predisposto sul software Musescore di cui ogni ragazzo delle mie classi è in possesso. A casa il software di scrittura musicale è stato utilizzato come vero e proprio tutor nella preparazione individuale, accompagnando lo studio della singola parte e anche come base, offrendo la possibilità di scegliere le parti con cui provare (es. solo piano e basso) o unendole tutte e suonandoci insieme. È interessante sottolineare come gli studenti, nel proprio lavoro domestico, abbiano potuto simulare l’effetto orchestrale, ma anche intervenire su quello con variazioni utili per il proprio studio, per esempio variando la velocità e/o il rilievo delle singole voci, grazie all’utilizzo del mixer, per esempio, a seconda delle necessità, rinforzando o eliminando il supporto della propria parte.
Parallelamente a scuola si è lavorato per sezioni nel laboratorio pomeridiano e al mattino ad orchestra-classe riunita. Qui abbiamo anche provato a sviluppare un approccio leggero all’improvvisazione jazzistica per il flauto, il basso e le tastiere.
A differenza di altri situazioni didattiche in cui prediligo partire dal suono e sviluppare forme d’improvvisazione non idiomatica[6], ho ritenuto opportuno in questo caso realizzare un tipo di improvvisazione canonica. Dato che il brano è in tonalità di Re minore ho proposto ai ragazzi di esercitarsi a casa (sempre con un utilizzo dedicato di musescore) ad improvvisare su una scala di Fa maggiore (che i ragazzi avevano appena studiato nell’ambito del programma di grammatica musicale del terzo anno). Questa è stata, per un certo tempo, l’unica indicazione data, al fine di lasciare massima libertà espressiva ed evitare che un eccesso di vincoli potesse compromettere la motivazione a sperimentare. Successivamente, con chi si è fatto maggiormente coinvolgere nell’esperienza, sono intervenuto con alcuni suggerimenti ulteriori come quello di inserire ogni tanto, quando sembrava loro più efficace, la sesta bemolle (Reb) e/o qualche cromatismo. Ho suggerito anche di sperimentare l’utilizzo di diversi registri, di lavorare cercando di offrire massima attenzione alla propria creatività melodica, privilegiando inizialmente il ricorso a frasi brevi da aprire e chiudere (se si riusciva sulla tonica e sulla dominante di Fa maggiore, che risultano essere la terza e la settima del Re minore) e poi di lasciarsi guidare dal flusso del suono che generavano. Ho consigliato infine di pensare l’improvvisazione principalmente come una successione di crome in cui ciascuno poteva però inserire, secondo il gusto personale, delle variazioni ritmiche, in particolare ricorrendo a terzine e cellule puntate. Le indicazioni grammatologiche fin qui fornite mi sono sembrate più che sufficienti ma, pur essendo state comprese da tutti, hanno probabilmente generato qualche blocco. Anche per questo alla fine ho ricordato che l’aspetto più importante era quello di dare spazio alla propria creatività e che dei miei suggerimenti potevano farsene ciò che volevano: rispettarli nel loro insieme, magari prenderne in considerazione solo alcuni o addirittura nessuno.
Dei sessantasei ragazzi che componevano le mie terze di quest’anno si sono cimentati in prove d’improvvisazione in classe, di fronte ai compagni, ventuno alunni di cui quattordici hanno accettato di eseguire poi la propria improvvisazione nei momenti finali dei concerti (da segnalare che non tutti i ragazzi con una formazione strumentale extrascolastica hanno accettato d’improvvisare e che molti alunni che suonano solo a scuola hanno ottenuto risultati interessanti pur essendo in possesso di una tecnica strumentale molto elementare). Il video allegato fa sintesi sia del momento elaborativo e preparativo che del momento finale di rappresentazione in cui è piuttosto semplice verificare dal montaggio la presenza delle tre classi e gli scambi di strumento e di ruolo dei singoli ragazzi.Come accade per tutti i brani di musica d’insieme che affrontiamo a scuola abbiamo svolto anche un lavoro di studio sulla storia del testo e sulle sue interpretazioni. Avendo come riferimento le tecniche del cooperative learning alcuni ragazzi sono stati incaricati di svolgere una ricerca in gruppo sulla storia del brano o su singole interpretazioni che sono state presentate e discusse in classe e supportate dal docente che ha svolto più un lavoro di ristrutturazione delle informazioni che non di vera e propria spiegazione. In particolare abbiamo visto, ascoltato e analizzato il divertente video di Frank Sinatra, l’affascinante interpretazione di Abbey Lincoln, abbiamo cercato di capire come si poteva improvvisare sul brano analizzando la versione di Chet Baker in video e l’assolo da disco di John Coltrane[7]. Tutto questo lavoro è stato ricondotto ad una più ampia riflessione sulla musica jazz come accade ogni anno nelle classi terze.
Nonostante la mia proposta di studiare un brano jazz all’interno del programma annuale non sia stata inizialmente accolta con molto entusiasmo da parte dei ragazzi (certamente il jazz non riscuote grande interesse tra i preadolescenti, come non lo raccoglie la musica contemporanea che da sempre propongo e ultimamente, occorre dirlo senza stupirsi più di tanto, neanche il rock[8]), direi che, come spesso accade, “l’appetito è venuto mangiando”. L’emergere di un grove efficace e coinvolgente, che si è stati in grado di produrre da sé (senza bisogno che l’insegnante suonasse) è stato il primo passo verso un coinvolgimento generalizzato. Anche l’effetto swing prodotto da basso e batteria nel bridge che separa le ripetizioni dei chorus, con quel minimo di armonizzazione dei flauti in sezione, ha potenziato ulteriormente l’interesse. Via via che il brano ha cominciato “a girare meglio” sono “aumentati i sorrisi in quelle mattine scolastiche di prova” e le improvvisazioni dei compagni, magari inizialmente un po’ snobbate, hanno finito con incuriosire e divertire i compagni, fino a che non è nato spontaneo anche qualche applauso degli orchestrali per alcune singole performance dei solisti.
Il tipo di sound e l’atmosfera che si è creata ha consentito un’esperienza che raramente riusciamo a realizzare in orchestra con altri repertori, una condizione tipica del jazz come di altre musiche popular di matrice orale: così sul riff costituito dalla base ritmica ci siamo accorti che potevamo anche sostare, fare altro. In effetti mentre la base ritmica suonava era possibile per me spiegare o correggere piccoli aspetti esecutivi, rispondere a domande, ridere, i ragazzi potevano iniziare a suonare, sbagliare, fermarsi e ripartire mentre la ritmica incalzava in un perenne continuum sincopato e danzante. Durante il concerto abbiamo utilizzato questi momenti per prenderci del tempo prima degli attacchi, per essere comodi nei momenti di cambio e anche come occasione per presentare al pubblico i ragazzi e alcuni aspetti dell’esperienza mentre si svolgeva.
Alla fine questa piccola immersione nel jazz è piaciuta e ciò che ha ulteriormente convinto i ragazzi è stata la reazione soddisfatta dei genitori che, sarà anche per l’età anagrafica, hanno particolarmente apprezzato il lavoro.
Riflettendo a posteriori sull’esperienza, non credo che ogni anno potrò inserire nel progetto di musica d’insieme un tipo di lavoro come questo, che necessariamente finirebbe per escluderne altri e per ridurre nel tempo il proprio potenziale d’innovazione. Quello che ho colto di essenziale è l’importanza di provare a definire un curricolo dell’improvvisazione musicale nel triennio delle scuole secondarie di I grado, meglio ancora, dove possibile di un curricolo verticale, che possa portare tutti i ragazzi a sviluppare maggior consapevolezza e strumenti operativi adeguati ad affrontare esperienze improvvisative dalla scuola dell’infanzia al termine della scuola dell’obbligo. Forse, alla fine, di ciò si potrebbero avvalere sia le altre pratiche musicali in cui l’improvvisazione è assente o meno presente sia le altre materie che a questo tema dell’improvvisazione potrebbero cominciare a guardare con curiosità e interesse[9].
[1] J. Bruner, La cultura dell’educazione. Nuovi orizzonti per la scuola, Feltrinelli, Milano, 2001 p. 36.
[2] L’Associazione Il Jazz Va A Scuola (IJVAS) è presieduta da Ada Montellanico; del Consiglio Direttivo fanno parte Mario Piatti (vicepresidente), Angelo Bardini, Paolo Damiani, Felice Clemente e Giovanni Serrazanetti rispettivamente rappresentativi di tre commissioni di lavoro: didattica, jazz, scuola/territorio, a cui partecipano vari musicisti, dirigenti scolastici e didatti.
[3] Si vedano in particolare i miei testi M. Vitali, Alla ricerca di un suono condiviso. L’improvvisazione musicale tra educazione e formazione, FrancoAngeli, Milano, 2007; M. Vitali, Suoni con me. Il dialogo sonoro dalla prima infanzia, FrancoAngeli, Milano, 2018, E. Strobino M. Vitali (a cura di), Suonare la città, FrancoAngeli, Milano, 2003 e i contributi apparsi sulla rivista Musicheria, in particolare, M. Vitali, Una giornata nebbiosa a Londra in compagnia di Charles Mingus e Honga il fiume venticinque anni dopo.
[4] Il progetto “Ogni classe un’orchestra” è documentato nel portale Musica a scuola dell’I.N.D.I.R.E. L’intervista al sottoscritto con le immagini dell’esperienza è reperibile all’indirizzo in calce. Dalla stessa pagina è possibile scaricare un documento di approfondimento intitolato “Ogni classe un’orchestra. Musica d’insieme e curricolo nella scuola di tutti”.
[5] Le scuole secondarie di I grado di Brivio e Airuno, in provincia di Lecco.
[6] La definizione è di Derek Bailey, cfr. D. Bailey, Improvvisazione: sua natura e pratica in musica, a cura di Francesco Martinelli, Edizioni ETS, Pisa, 2010.
[7] Frank Sinatra, https://youtu.be/CqQ6ChQqx1U, Abbey Lincoln, https://youtu.be/oqPzi99xOCM, Chet Baker, https://youtu.be/Wyfxeax03n0, John Coltrane, https://youtu.be/e57F_Rm3xI4
[8] Sono debitore di questa riflessione ad Enrico Strobino.
[9] Si vedano in proposito le stimolanti riflessioni di Bertinetto sull’improvvisazione musicale in prospettiva filosofico ed estetica (A. Bertinetto, Eseguire l’inatteso. Ontologia della musica e improvvisazione, Il Glifo, Roma, 2016) e, su un piano più psicologico e fenomenologico, gli studi di Stern sul “momento presente” (D.N. Stern, Il momento presente. In psicoterapia e nella vita quotidiana, Raffaello Cortina, Milano, 2006).