Musicheria. La rivista digitale di educazione al suono e alla musica

La didattica del paesaggio sonoro per la formazione dei docenti

Matteo Luigi Piricò

Trame concettuali e piste operative.

Contributo presentato in occasione del Convegno di Urbino, “I saperi dall’ascolto: percorsi educativi nel paesaggio sonoro”- 26 settembre – 1 ottobre 2022.
FKL | Associazione CSMDB | Università degli Studi di Urbino Carlo Bo.

 

Diversi autori hanno sottolineato la rilevanza di modalità di apprendimento informali, in grado di fornire strumenti alternativi di esplorazione e di appropriazione del fenomeno sonoro, al fine di costituire una base comunicativa fruttuosa, condivisa con gli allievi, da cui muovere verso ulteriori esplorazioni musicali. Tuttavia, i docenti in formazione di educazione musicale sembrano talvolta restii a considerare la rilevanza di simili approcci, ritenuti inidonei a perseguire le finalità tecnico-culturali della disciplina, che vengono però interpretate talora in un senso primariamente trasmissivo e replicativo. Presso il Dipartimento educazione e apprendimento della SUPSI sono stati proposti ai docenti in formazione alcuni percorsi improntati alla didattica del paesaggio sonoro e all’esplorazione della dimensione spaziale in diversi ambiti musicali, con una costante spinta verso un design curricolare multidisciplinare e trasversale. Questo contributo ne descrive l’esperienza, presentando una serie di esempi concreti a partire da alcuni snodi concettuali che mirano a chiarirne le traiettorie musicologiche e didattiche ed indicando alcuni parziali riscontri.

Matteo Luigi Piricò[1]

 

 

Introduzione e quadro di riferimento

La costellazione di temi che questo contributo tenterà di collegare sarà racchiusa da alcuni riferimenti rilevanti sia per il discorso che andremo a comporre sia, in generale, per l’ecosistema della didattica dell’educazione musicale, con particolare riferimento allo sviluppo della professionalità del docente di educazione musicale. I paletti che tratteggiano questo perimetro sono: (1) il concetto di “spazio” in musica (relativamente, soprattutto, al suo potenziale ideativo e progettuale); (2) la Dichiarazione di Bonn (2011), come prospetto orientativo per un insegnamento aggiornato e di qualità (Dudt, 2012); (3) i diversi modelli didattici che gravitano attorno all’Universal design for Learning (Cottini, 2019), grazie ai quali è possibile garantire un approccio maggiormente accessibile e globale; e, infine, (4) il concetto di musica come evento, che costituisce un dispositivo interpretativo in grado di generare proficue trame interdisciplinari e reticolari (Gallo, 1986).

 

La didattica dei paesaggi sonori alla SUPSI

L’intervento vuole innanzitutto offrire una panoramica delle modalità attraverso cui la didattica del paesaggio sonoro – come vedremo in seguito in una accezione piuttosto ampia, che prevede una esplorazione degli spazi del suono e della musica, e della musica e del suono negli spazi – venga proposta ai futuri docenti generalisti, ovvero di scuola dell’infanzia o elementare, e soprattutto ai docenti in formazione di educazione musicale. Il contesto di esperienza è rappresentato in particolare da un doppio master[2], erogato dal Dipartimento educazione e apprendimento della SUPSI in partnership con il Conservatorio della Svizzera italiana, il cui titolo abilita all’insegnamento nella scuola elementare e nella scuola media. Dall’anno accademico 2016/2017 la nostra istituzione ha accolto un totale di 38 studenti[3], 31 dei quali hanno finora ottenuto il doppio titolo (la cui formazione complessiva, prevalentemente a tempo pieno, dura tre anni[4]). Oltre a questo ambito di esperienza, il tema dei paesaggi sonori viene trattato anche in altri ambiti della formazione, per i futuri docenti di scuola dell’infanzia e per la scuola elementare, soprattutto nel contesto dei corsi legati allo studio dell’ambiente e alla geografia, ovviamente con un marcato taglio interdisciplinare. Sull’argomento negli ultimi anni sono state realizzate inoltre sette tesi (bachelor e master), mentre almeno altrettante hanno comunque toccato il tema, sebbene in modo meno specifico e centrale.

 

Il profilo dei futuri docenti di educazione musicale

Prima di illustrare gli obiettivi e la metodologia dell’intervento, potrebbe essere utile fornire una panoramica – piuttosto spiccia e non certo paradigmatica, ma almeno orientativa – sulle principali caratteristiche dei docenti in formazione di educazione musicale, che si apprestano a cominciare il master unitamente al tirocinio obbligatorio (Piricò, 2021). Questi futuri docenti di musica sono evidentemente musicisti professionisti, generalmente appena usciti da un conservatorio[5]. In generale, non possiedono particolari competenze in ambiti non musicali o non umanistici, eccezion fatta per rare situazioni che riguardano figure in possesso di altre formazioni pregresse. In generale, si può dire che i futuri docenti appaiono molto interessati agli aspetti culturali e soprattutto performativi della musica; tendono però ad applicare una sorta di implicito isomorfismo tra la formazione conservatoriale appena ricevuta e l’insegnamento dell’educazione musicale nella scuola dell’obbligo. Per questo motivo, sembrano assai impazienti di trasmettere questi aspetti ai loro discenti, già fin dalle prime lezioni che svolgono nei rispettivi tirocini. Di conseguenza, ça va sans dire, questa postura li conduce a focalizzarsi in modo particolare sull’insegnamento e sulle tecniche – o talvolta anche sulle “astuzie” o scorciatoie – che possano agevolare la trasmissione dei contenuti e generare una risposta efficace negli allievi, e contestualmente ad interessarsi di meno ai processi chiave connessi ai fenomeni apprenditivi, oppure, detta in altre parole, a quella che Chevallard (1994) denominava la “trasposizione didattica interna”. Come conseguenza di questa specifica preoccupazione trasmissiva, poca attenzione viene generalmente riservata agli aspetti eminentemente educativi che la pratica musicale porta in dote. Ma fatalmente, gli stessi docenti in formazione, una volta iniziato il loro tirocinio, gradualmente cominciano a percepire le insidie che una trasmissione meccanica delle conoscenze e delle abilità porta in dote, soprattutto quando gli allievi esercitano un loro legittimo arbitrio, rinunciando ad assumere una postura passiva, ed opponendosi, per così dire, a recitare la parte di inerti contenitori da riempire; molto in fretta, quindi, i docenti in formazione vivono le loro prime esperienze di insuccesso (dal loro punto di vista, beninteso), accorgendosi di un mondo intero – quello delle rappresentazioni dei discenti – che dovranno cominciare a scoprire e rispettare.

 

Il paesaggio sonoro come ambiente autentico di apprendimento

Considerato il quadro sopra espresso, i docenti in formazione di educazione musicale generalmente faticano a considerare qualcosa che ritengano poco ortodosso o inconsueto, rispetto ai bagagli di tecniche e di conoscenze cui attribuiscono significato e che ricalcano i contenuti che loro stessi hanno vissuto da studenti[6]. Guai, quindi, a parlare fin da subito di paesaggio sonoro, dimensione didattico-educativa che sfugge ai radar degli interessi dei nostri docenti in formazione, alla ricerca di formule su misura per gestire al meglio le loro prime lezioni. Eppure, sappiamo bene che la didattica del paesaggio sonoro potrebbe rappresentare un’occasione importante di apprendimento per i loro allievi ma anche – ed è proprio quanto questo contributo vorrebbe suggerire – anche per i docenti in formazione e per il loro sviluppo professionale. Senza dilungarsi in modo particolare sugli aspetti promettenti e di potenziale efficacia che il paesaggio sonoro ci consegna, nelle sue diverse sfaccettature (Rocca, Piricò, 2020), ci si limiterà, in questa sede, a richiamare almeno tre domini in cui questa potenziale efficacia può attuarsi, come quello del potenziamento cognitivo, quello curricolare e didattico e quello educativo. In particolare, questi domini, nelle loro possibili e continue ricombinazioni, possono ricollegarsi ad uno dei più importanti documenti programmatici relativi all’educazione musicale, ovvero la Dichiarazione di Bonn (2011).

 

Un framework qualitativo

La dichiarazione di Bonn, redatta nel 2011 a seguito di altri importanti passaggi istituzionali nell’ambito della riflessione sul ruolo delle arti nell’educazione nel mondo contemporaneo, individua tre obiettivi globali per l’educazione musicale, da gestire in relazione alle sfide che ciascun educatore dovrebbe essere chiamato a considerare nella sua professione. Questi tre obiettivi sono: l’accessibilità, la qualità e le sfide socioculturali – o sfide educative – da considerare nel contesto dell’educazione alle arti. La domanda, formulata dal sottoscritto e dai colleghi che gestiscono il corso di didattica della musica e alla base dell’impostazione dell’offerta formativa, si può riassumere così: se questi obiettivi rappresentano degli orizzonti educativi e professionali verso cui tendere, perché non considerarli nello sviluppo formativo dei futuri docenti? Perché non condividere questi aspetti e renderli visibili attraverso l’uso, nei vari contesti di esperienza, di criteri e indicatori adeguati a rintracciare evidenze di accettabilità, ovviamente nello sviluppo complessivo delle diverse competenze necessarie ad insegnare efficacemente ed in modo consapevole? Oltretutto, questi obiettivi, se opportunamente sostenuti da una rete di descrittori sufficientemente guidante, permettono di perseguire traiettorie di sviluppo molto ampie e multidirezionali, centrate sulla professione-docente, sullo sviluppo del curricolo e, soprattutto, sulla rilevanza che i diversi dispositivi formativi hanno nell’apprendimento degli allievi. Ci ricongiungiamo così alla domanda di ricerca, che si esplicita in un interrogativo piuttosto ampio, ovvero se la didattica del paesaggio sonoro possa contribuire allo sviluppo della professionalità progettuale del futuro docente di educazione musicale e, ancora più esplicitamente, all’ipotesi di ricerca, ovvero se l’impiego della trama concettuale del paesaggio sonoro come impianto ideativo/didattico possa beneficiare allo sviluppo di alcuni specifici criteri collegabili agli obiettivi della Dichiarazione.

 

Impianto osservativo e valutativo

L’idea, condivisa con alcuni colleghi, quindi, si è poi materializzata attraverso l’impiego di alcune modalità di insegnamento informali o non espressamente formali (Green, 2008; Delfrati, 2009; Randles, 2015) per provocare una serie di fondamentali riflessioni sia sull’oggetto dell’istruzione musicale (ovvero il suono e il suo dispiegarsi e pure del suo avvilupparsi ad elementi solo apparentemente accessori o estranei), sia sulle modalità di trasposizione didattiche. Brevemente, l’impianto valutativo prende le mosse dalla rubrica riportata nella figura n.1, strumento fondamentale per gestire la soggettività insita in qualsiasi processo valutativo, suddivisa qui nelle tre dimensioni precedentemente citate e nei rispettivi criteri, che sono rintracciabili sia nelle diverse valutazioni dei formatori (rispetto alle progettazioni, alle lezioni visionate, ai documenti prodotti dai docenti in formazione), sia al contempo nelle autovalutazioni e nelle riflessioni dei docenti in formazione stessi, sia, infine, sotto forma di effetti sulla pratica didattica, che in certi casi si è esplicitata attraverso ulteriori valutazioni o autovalutazioni (o anche in questo caso mediante bilanci di esperienze) da parte degli allievi che vivevano in prima persona queste attività. Pertanto, gli strumenti utilizzati sono stati diversi, ma adeguati a comporre una triangolazione dei vari punti di vista rispetto agli oggetti da indagare, in una prospettiva temporale di un anno scolastico, in un’ottica di valutazione pervasiva e continua.

Fig. 1 Rubrica valutativa olistica

 

Sul concetto di spazio in musica

Quando precedentemente si faceva cenno ad una “accezione piuttosto ampia”, in rapporto al tema del paesaggio sonoro, si voleva rinforzare l’ipotesi, peraltro frutto di un dibattito piuttosto aperto e dinamico (Bull, Back, 2008; Glotin, 2014), su una definizione di paesaggio sonoro che abbraccia le diverse sfumature semantiche della spazialità nel suono, come caratteristica (paradossalmente, forse) sia accidentale che sostanziale, ma per certi versi pure materiale, formale e finale.  Può risultare rilevante, a tal riguardo e soprattutto per tentare di chiarire il solco del discorso che si sta delineando, presentare una breve panoramica sul concetto di spazio nell’ambito della riflessione filosofica, in parte riconducibile all’esperienza musicale (Vizzardelli, 2015). Lo scopo di questa disamina, seppur dichiaratamente compendiosa e schematica, è rintracciare una serie di significati chiave per comporre non solo una semantica, ma anche una pragmatica rispetto all’operatività che siamo soliti ricercare nella progettazione didattica e nella vita d’aula. Innanzitutto, partiamo da due concetti espressi da Aristotele e da Cartesio, fondamentali e allo stesso tempo complementari: spazio come topos (per lo Stagirita) e spazio inteso come spatium per il filosofo francese.  Nel primo caso il lemma si rifà al concetto di luogo, e al suo rapporto con ciò che lo circonda, nel secondo caso invece lo spatium costituisce una distanza, un intervallo, una dimensione quantitativa e misurabile – quando invece quella aristotelica non è misurabile, ma affettiva e personale. Un altro passaggio importante viene siglato inoltre dalla riflessione di Kant, nell’estetica trascendentale della Critica alla Ragion pura (1787), quando si parla di spazio, come sensibilità esterna, e tempo come sensibilità interna. Da qui in poi però – e soprattutto con il romanticismo, salvo taluni casi specifici, come quello del Poema sinfonico – spazialità e musica prendono strade divergenti: Hegel colloca architettura e musica agli antipodi, quasi si considerasse blasfemo associare lo spazio all’arte dei suoni, se non in ossequio ad un rapporto eminentemente sinestetico[7]. Tuttavia, l’arte pura dei suoni comincia a cedere ai colpi di fioretto prima e di cannone dopo dell’atonalità, della serialità e soprattutto della musica concreta o aleatoria, allorquando i rapporti intervallari perdono significato sotto il profilo di preminenze gerarchiche e i suoni acquistano una sostanza timbrica, che proietta la riflessione in un contesto fatto di spazi, di distanze e pure di luoghi, almeno in certi casi. Più recentemente, la fiamma si ravviva nell’ambito del dibattito musicologico a partire dalla fine degli anni ’60, con Dahlhaus da una parte che rivendica il primato dell’opera artistica come oggetto dotato di meccanismi linguistici ed espressivi autarchici e Gallo, medievalista e rinascimentalista, che invece insiste sulla musica come evento, focalizzando l’attenzione non solo sulle proprietà ontologiche del tessuto musicale e dei suoi rapporti interni, ma anche sull’evento artistico che si contorna di tasselli ulteriori, innanzitutto culturali, storici e sociali (e quindi anche spaziali).

 

Conseguenze pedagogico-didattiche

Ebbene, alcuni di questi costrutti – a partire proprio dalla lettura della musica come “e-vento” – eventus, venir fuori, diremmo, nello spazio o nel luogo – possono orientare in modo propositivo una didattica maggiormente aperta sia per i discenti, sia per favorire lo sviluppo professionale del docente. Per l’allievo, il luogo, in quanto topos, diventa il fulcro pedagogico, lo sfondo, la cornice di senso, il presupposto per l’attribuzione di un significato autentico. Ma anche il concetto di spatium non è certo da sottovalutare, perché costituisce una dimensione conoscitiva, concreta, percepibile, sistematizzabile. Comunque lo si voglia collocare, lo spazio si propone come categoria intermedia e quindi di mediazione, per “navigare” la musica (pensiamo agli spazi della musica o alla musica a programma ecc.), soprattutto in un periodo dello sviluppo cognitivo in cui le astrazioni e le formalizzazioni risultano ancora complesse. Ma anche per il docente, si diceva, il concetto di spazio in musica e di musica come evento può risultare prezioso: rispetto all’efficacia didattica, in prima istanza, perché consente una certa varietà degli ambienti di apprendimento, in riferimento ai criteri di multidisciplinarità, contestualizzazione, sensibilità socioculturale; rispetto allo sviluppo personale e professionale, come acquisizione di prassi psicopedagogiche informate, approfondimento di dimensioni contestuali inedite; e quindi, infine, la possibilità di approssimarsi agli obiettivi della Bonn Declaration. Tutto questo viene inserito in un discorso didattico scientificamente informato, soprattutto in rapporto al paradigma dell’Universal Design for Learning (Cottini, 2019), in considerazione dell’attivazione delle reti affettive, di quelle strategiche e di quelle percettive, focalizzando e nutrendo l’esigenza di ricorrere a mezzi multipli di rappresentazione, azione ed espressione e pure di partecipazione, come evidenziato dalla prospettiva multidisciplinare e trasversale delle proposte didattiche solitamente connesse ai paesaggi sonori (Calanchi, 2015).

 

La partitura come mappa sonora. Ovvero, una riflessione sulla spazialità nella musica

Sui paesaggi sonori ne è colma la letteratura speculativo-musicale e didattica e, per questo motivo, più che fare riferimento alle attività di soundmapping più classiche – anche se possono sfociare evidentemente in esperimenti di composizione o di improvvisazione su elementi registrati e processati in vario modo dagli allievi stessi -, di qui in poi, preferirei presentare altro. Passerei in rassegna dunque alcune immagini emblematiche, prototipi di percorsi e di lezioni realizzati, o di progetti in parte ancora da esplorare e coltivare, che costituiscono un esempio di ciò che è stato sperimentato con i docenti in formazione e che in parte è ancora in fase di sviluppo, materiale che afferisce in generale all’esplorazione della categoria spaziale nella musica e con la musica.

In primo luogo, sono meritevoli di nota gli impieghi di modalità rappresentative in grado di far apprezzare meccanismi linguistici e articolatori altrimenti difficilmente accessibili agli allievi, per esempio attraverso l’uso di ordinatori grafico-spaziali e mediante lo sviluppo, ovvero lo spiegamento della partitura (in senso metaforico ma anche letterale, in quanto mappa che si srotola, si apre, si spiega), in rapporto ad una dimensionalità, visivamente organizzata. Grazie ad alcune guide che possono provocare nei discenti, con un colpo d’occhio, delle rappresentazioni alternative – diremmo oggi “aumentative” – della partitura, la scrittura musicale stessa può essere immaginata, reinterpretata o ricostruita attraverso un plausibile spazio acustico che la ospita e che la reinventa[8]. In questo ambito di utilizzo della spazialità come supporto conoscitivo, il mottetto Spem in alium di Tomas Tallis, rappresenta un interessante studio di caso[9], che ci offre inoltre un esempio di come poter gestire un’attività di ascolto e di analisi mediante il parametro dello spazio, ricorrendo anche a parallelismi visivi. In questo Mottetto per 8 cori a 5 voci la spazialità si impone come fattore moderatore, ad esempio nella distribuzione degli esecutori in un contesto architettonico specifico, sia come elemento sostanziale del tessuto compositivo, ovvero come fattore moderatore per la risonanza, la rarefazione o l’addensamento del materiale sonoro. La combinazione e compenetrazione quasi puntillistica delle diverse voci – suggestione che nella pittura troveremo solo diversi secoli dopo – rende per lunghi tratti inintelligibile il testo, forzando l’ascolto sull’amalgama sonoro più che sulla relazione tra i suoni stessi[10].

Ancora, negli studi dell’etnomusicologia, come in quelli di Victor Grauer (2011), la trascrizione dei canti Pigmei Aka o dei Boscimani diventa l’occasione per presentare una partitura che non intende solo riassumere una serie di condotte vocali di carattere eterofonico, ma offrirci una fotografia della vita musicale di un popolo. Magari attraverso quella che noi chiameremmo modernamente un’attività di body percussion, è possibile ricostruire le sequenze imitative, le inflessioni vocali che sembrano permetterci di rivivere le movenze di questi esecutori all’interno di un certo spazio, e perché no, di poter proporre una versione personale, con la classe, per appropriarsi di queste espressività musicali e gruppali, che tracciano movenze in rapporti modulari, ora di avvicinamento ora di allontanamento, in ossequio ad una prossemica musicale mai abbastanza indagata (Hall, 1984).

E poi, ovviamente, ci sono tutti i casi di studio della musica contemporanea, in cui la spazialità diventa un parametro rilevante e talvolta dirimente. Questo approccio, se ben contestualizzato e agito in uno scenario significativo per l’allievo, acquista proprio la valenza di evento, permettendo quindi un collegamento più puntuale a segmenti socioculturali e storici di cui l’evento musicale si nutre, fino ad arrivare agli spettacoli più recenti (e fornendo quindi anche delle euristiche interpretative per recepirli e analizzarli).

Altri studi di caso della storia, dal medioevo ai giorni d’oggi, ci permettono ancora una volta di sviluppare tematiche in chiave multidisciplinare e di offrire un ventaglio ricco di mezzi di rappresentazione e pure di espressione, richiamando ancora una volta il paradigma dell’Universal Design for Learning. Attività didattiche possibili a tal riguardo sono, ad esempio, la riflessione sullo spazio sonoro nel medioevo e la comparazione con quello attuale, cercando di veicolare alcune domande plausibili, ad esempio perché il segnale sonoro avesse questa importanza, perché non doveva avere limiti e muoversi velocemente in tutte le direzioni, regolare la vita, segnalare l’identità, stabilire il potere e forse anche i confini. O ancora, sempre in una riflessione sulle analogie e le differenze con il presente, cosa abbia sostituito il suono in questo rapporto di controllo e di gerarchie e cosa possa essere avvicinato, per affinità, attraverso l’esplorazione del presente mediante strumenti conoscitivi adeguati.

Ritornando al concetto di evento musicale, è possibile passare in rassegna in chiave contestualizzata o comparativa diversi eventi musicali del passato in un’ottica multimodale, ovvero facendo interagire più discipline e chiavi di lettura. Un lavoro sul teatro impresariale veneziano, ad esempio, può essere da motore ad un’indagine sulle dinamiche e sugli sviluppi della musica di massa, o anche viceversa, partendo cioè dalla produzione musicale attuale, osservando l’evoluzione del fenomeno attraverso varie possibili categorie come successo di pubblico, qualità compositiva e realizzativa percepita e documentata, meccanismi di vendita e di promozione, rapporto tra industria, autori e pubblico. Ci si accorgerà così di quanto la dimensione spaziale sia rilevante per dirimere alcuni nodi fondamentali della questione indagata.

Un lavoro ancora in divenire è invece quello relativo alla mappatura dei luoghi della musica del nostro cantone, il Canton Ticino, attraverso posti che hanno vissuto anni di gloria o di significatività storica, tracciando e polarizzando la vita musicale del Cantone. Alcuni tasselli di questo mosaico sono ad esempio il Castello di Trevano, il teatro Apollo di Lugano, o ancora i concerti al Campo Marzio, come quello di Strauss (1947), o il laboratorio di Hermann Scherchen di musica elettronica di Gravesano (1954) o anche la conferenza di Orselina del 1948, preparatoria del Primo Congresso internazionale per la musica dodecafonica[11]. Il percorso però prevede di partire da quello che gli allievi sanno e riconoscono, e che pertanto riescono pure a mappare del loro territorio e della loro quotidianità, per poi intraprendere un percorso “a ritroso”.

 

Conclusioni

Evidentemente, le diverse tracce tematiche qui ospitate – afferenti tutte, sebbene in varia misura, al concetto di spazialità in musica, addentellato implicito del paesaggio sonoro – meriterebbero ciascuna un corposo approfondimento; tuttavia, un curricolo formativo, adeguato a supportare e nutrire la rete di snodi che si dipanano da un nucleo concettuale, non può che presentarsi in tutta la sua frastagliata e ricca diversificazione. D’altro canto, proprio questa varietà dovrebbe stimolare – almeno, questo è il nostro auspicio – i futuri docenti di educazione musicale a pensare al curricolo in modo più trasversale e dinamico, e quindi ad intessere con maggior enfasi e regolarità trame multimodali e multidisciplinari nel contesto delle progettazioni didattiche. Al di là di questa doverosa precisazione, va però aggiunto che studi maggiormente strutturati sono necessari per determinare e approfondire la rilevanza del legame tra le istante attribuibili alla spazialità musicale (ivi compreso il paesaggio sonoro) e lo sviluppo delle competenze mirate, poiché queste rappresentano solo delle esperienze accomunate da un certo modo di intendere le categorie spaziali nella musica e le categorie musicali nello spazio, ma occorrerebbe pure isolare le singole variabili e stabilire eventuali rapporti di correlazione. Nondimeno, dall’analisi dei variegati rilievi valutativi – nell’incrocio tra le diverse prospettive, come valutazione dei formatori, autovalutazione dei docenti in formazione, esperienze dei discenti – si coglie un impatto positivo in alcuni criteri chiave (varietà dell’offerta, progetti cross-curricolari, contestualizzazione dell’educazione musicale e formazione interculturale e sociale), essenziali per promuovere una didattica maggiormente condivisa, costruttivista e ricca di senso per gli allievi. La dimensione meno sollecitata dal progetto, non sorprendentemente, sembra essere quella relativa alla qualità, (sviluppo professionale e training psicopedagogico), aspetto che però, alla fine, è in linea con gli obiettivi che risultano realisticamente meno perseguibili in ambito andragogico[12]. Tuttavia, proprio per questo motivo, occorre studiare e monitorare il ruolo della formazione continua, in primo luogo perché essa potrebbe rafforzare il legame tra pratica didattica e ricerca a lungo termine, soprattutto quando diversi interventi formativi, in archi temporali piuttosto lunghi e in ossequio al concetto di spaced practice (pratica distribuita), risultano più efficaci rispetto a corsi in modalità full immersion o pratiche a blocchi, modelli organizzativi talvolta necessari e adeguati a provocare una riflessione su un determinato aspetto culturale o tecnico, ma che contrastano con quanto sappiamo in merito alle pratiche efficaci (Hattie, 2011). In sostanza, ciò significa approfondire ulteriormente la riflessione e, probabilmente, insistere ancor di più su queste dimensioni nella formazione permanente dei docenti, che a nostro avviso appaiono promettenti.

 

Bibliografia

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[1] Prof. in Didattica della musica, Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana, Locarno.

[2] Per la precisione si tratta del “doppio master in pedagogia musicale con specializzazione di educazione musicale elementare e educazione musicale per livello secondario I”.

[3] Che convenzionalmente chiameremo qui “docenti in formazione”, anche per distinguerli dagli allievi delle scuole dell’obbligo, destinatari delle proposte didattiche nell’ambito dei tirocini professionali.

[4] Va precisato che questa modalità formativa non verrà più riproposta negli anni a venire. Vale a dire che, al pari delle diverse discipline di insegnamento, per l’educazione musicale verrà attivato – quando si avvertirà il bisogno di formare nuovi docenti – un master di durata biennale.

[5] Più raramente, anzi rarissimamente essi sono musicologi, anche perché già in ingresso alla formazione, nell’ambito della procedura di ammissione, vengono richieste specifiche capacità tecnico-musicali, in particolar modo nell’ambito della ritmica, dell’accompagnamento strumentale e del canto.

[6] Un’altra difficoltà che spesso il formatore incontra, soprattutto durante le prime lezioni, è quella di far avvertire ai docenti in formazione le dissimilarità tra i loro vissuti – di studenti di musica “di successo” – e quelli delle e degli allievi delle scuole dell’obbligo, che si caratterizzano per importanti differenze sotto il profilo delle preferenze e dei profili di apprendimento.

[7] Scherzosamente, potremmo pensare a quanto Hegel potrebbe rimanere contrariato nel sapere che un capolavoro come la Sinfonia n. 9 di Beethoven sia stato inserito – in quanto spartito e testo – nel catalogo della Memoria del mondo dell’Unesco, come un qualsiasi oggetto fisico.

[8] Pensiamo, ad esempio, alle trame contrappuntistiche e alle possibilità date dai colori e dalle frecce di orientarne la lettura; o ancora ai madrigalismi, ai rapporti tra concerto grosso e soli, fino ad arrivare alle produzioni della musica contemporanea già pensate attraverso specifiche disposizioni spaziali, movimenti o effetti (Varèse, Stockhausen, Nono ecc.) o della musica da film nella diffusione mediante vari sistemi sorround.

[9] A tal proposito si rimanda il lettore al podcast realizzato come anticipazione della omonima presentazione effettuata presso l’Università di Urbino il 30 settembre 2022 e disponibile all’indirizzo http://www.paesaggiosonoro.it/incontro2022/podcast.html#2message-modal.

[10] Per un’analisi spaziale del mottetto si veda Davis (2018) http://kevindavismusic.com/wp-content/uploads/2014/11/Motive-and-Spatialization-in-Thomas-Tallis-Spem-in-Alium.pdf

[11] Su questi temi, siamo debitori dell’opera monumentale di Carlo Piccardi, che sarebbe palesemente inefficace compendiare qui attraverso poche citazioni. Per una consultazione più esaustiva si rimanda alla pagina internet http://www.ricercamusica.ch/dizionario/573.html.

[12] Sulle prospettive di cambiamento di un adulto in formazione si veda Federighi (2018).

 

Introduzione e quadro di riferimento

La costellazione di temi che questo contributo tenterà di collegare sarà racchiusa da alcuni riferimenti rilevanti sia per il discorso che andremo a comporre sia, in generale, per l’ecosistema della didattica dell’educazione musicale, con particolare riferimento allo sviluppo della professionalità del docente di educazione musicale. I paletti che tratteggiano questo perimetro sono: (1) il concetto di “spazio” in musica (relativamente, soprattutto, al suo potenziale ideativo e progettuale); (2) la Dichiarazione di Bonn (2011), come prospetto orientativo per un insegnamento aggiornato e di qualità (Dudt, 2012); (3) i diversi modelli didattici che gravitano attorno all’Universal design for Learning (Cottini, 2019), grazie ai quali è possibile garantire un approccio maggiormente accessibile e globale; e, infine, (4) il concetto di musica come evento, che costituisce un dispositivo interpretativo in grado di generare proficue trame interdisciplinari e reticolari (Gallo, 1986).

 

La didattica dei paesaggi sonori alla SUPSI

L’intervento vuole innanzitutto offrire una panoramica delle modalità attraverso cui la didattica del paesaggio sonoro – come vedremo in seguito in una accezione piuttosto ampia, che prevede una esplorazione degli spazi del suono e della musica, e della musica e del suono negli spazi – venga proposta ai futuri docenti generalisti, ovvero di scuola dell’infanzia o elementare, e soprattutto ai docenti in formazione di educazione musicale. Il contesto di esperienza è rappresentato in particolare da un doppio master[2], erogato dal Dipartimento educazione e apprendimento della SUPSI in partnership con il Conservatorio della Svizzera italiana, il cui titolo abilita all’insegnamento nella scuola elementare e nella scuola media. Dall’anno accademico 2016/2017 la nostra istituzione ha accolto un totale di 38 studenti[3], 31 dei quali hanno finora ottenuto il doppio titolo (la cui formazione complessiva, prevalentemente a tempo pieno, dura tre anni[4]). Oltre a questo ambito di esperienza, il tema dei paesaggi sonori viene trattato anche in altri ambiti della formazione, per i futuri docenti di scuola dell’infanzia e per la scuola elementare, soprattutto nel contesto dei corsi legati allo studio dell’ambiente e alla geografia, ovviamente con un marcato taglio interdisciplinare. Sull’argomento negli ultimi anni sono state realizzate inoltre sette tesi (bachelor e master), mentre almeno altrettante hanno comunque toccato il tema, sebbene in modo meno specifico e centrale.

 

Il profilo dei futuri docenti di educazione musicale

Prima di illustrare gli obiettivi e la metodologia dell’intervento, potrebbe essere utile fornire una panoramica – piuttosto spiccia e non certo paradigmatica, ma almeno orientativa – sulle principali caratteristiche dei docenti in formazione di educazione musicale, che si apprestano a cominciare il master unitamente al tirocinio obbligatorio (Piricò, 2021). Questi futuri docenti di musica sono evidentemente musicisti professionisti, generalmente appena usciti da un conservatorio[5]. In generale, non possiedono particolari competenze in ambiti non musicali o non umanistici, eccezion fatta per rare situazioni che riguardano figure in possesso di altre formazioni pregresse. In generale, si può dire che i futuri docenti appaiono molto interessati agli aspetti culturali e soprattutto performativi della musica; tendono però ad applicare una sorta di implicito isomorfismo tra la formazione conservatoriale appena ricevuta e l’insegnamento dell’educazione musicale nella scuola dell’obbligo. Per questo motivo, sembrano assai impazienti di trasmettere questi aspetti ai loro discenti, già fin dalle prime lezioni che svolgono nei rispettivi tirocini. Di conseguenza, ça va sans dire, questa postura li conduce a focalizzarsi in modo particolare sull’insegnamento e sulle tecniche – o talvolta anche sulle “astuzie” o scorciatoie – che possano agevolare la trasmissione dei contenuti e generare una risposta efficace negli allievi, e contestualmente ad interessarsi di meno ai processi chiave connessi ai fenomeni apprenditivi, oppure, detta in altre parole, a quella che Chevallard (1994) denominava la “trasposizione didattica interna”. Come conseguenza di questa specifica preoccupazione trasmissiva, poca attenzione viene generalmente riservata agli aspetti eminentemente educativi che la pratica musicale porta in dote. Ma fatalmente, gli stessi docenti in formazione, una volta iniziato il loro tirocinio, gradualmente cominciano a percepire le insidie che una trasmissione meccanica delle conoscenze e delle abilità porta in dote, soprattutto quando gli allievi esercitano un loro legittimo arbitrio, rinunciando ad assumere una postura passiva, ed opponendosi, per così dire, a recitare la parte di inerti contenitori da riempire; molto in fretta, quindi, i docenti in formazione vivono le loro prime esperienze di insuccesso (dal loro punto di vista, beninteso), accorgendosi di un mondo intero – quello delle rappresentazioni dei discenti – che dovranno cominciare a scoprire e rispettare.

 

Il paesaggio sonoro come ambiente autentico di apprendimento

Considerato il quadro sopra espresso, i docenti in formazione di educazione musicale generalmente faticano a considerare qualcosa che ritengano poco ortodosso o inconsueto, rispetto ai bagagli di tecniche e di conoscenze cui attribuiscono significato e che ricalcano i contenuti che loro stessi hanno vissuto da studenti[6]. Guai, quindi, a parlare fin da subito di paesaggio sonoro, dimensione didattico-educativa che sfugge ai radar degli interessi dei nostri docenti in formazione, alla ricerca di formule su misura per gestire al meglio le loro prime lezioni. Eppure, sappiamo bene che la didattica del paesaggio sonoro potrebbe rappresentare un’occasione importante di apprendimento per i loro allievi ma anche – ed è proprio quanto questo contributo vorrebbe suggerire – anche per i docenti in formazione e per il loro sviluppo professionale. Senza dilungarsi in modo particolare sugli aspetti promettenti e di potenziale efficacia che il paesaggio sonoro ci consegna, nelle sue diverse sfaccettature (Rocca, Piricò, 2020), ci si limiterà, in questa sede, a richiamare almeno tre domini in cui questa potenziale efficacia può attuarsi, come quello del potenziamento cognitivo, quello curricolare e didattico e quello educativo. In particolare, questi domini, nelle loro possibili e continue ricombinazioni, possono ricollegarsi ad uno dei più importanti documenti programmatici relativi all’educazione musicale, ovvero la Dichiarazione di Bonn (2011).

 

Un framework qualitativo

La dichiarazione di Bonn, redatta nel 2011 a seguito di altri importanti passaggi istituzionali nell’ambito della riflessione sul ruolo delle arti nell’educazione nel mondo contemporaneo, individua tre obiettivi globali per l’educazione musicale, da gestire in relazione alle sfide che ciascun educatore dovrebbe essere chiamato a considerare nella sua professione. Questi tre obiettivi sono: l’accessibilità, la qualità e le sfide socioculturali – o sfide educative – da considerare nel contesto dell’educazione alle arti. La domanda, formulata dal sottoscritto e dai colleghi che gestiscono il corso di didattica della musica e alla base dell’impostazione dell’offerta formativa, si può riassumere così: se questi obiettivi rappresentano degli orizzonti educativi e professionali verso cui tendere, perché non considerarli nello sviluppo formativo dei futuri docenti? Perché non condividere questi aspetti e renderli visibili attraverso l’uso, nei vari contesti di esperienza, di criteri e indicatori adeguati a rintracciare evidenze di accettabilità, ovviamente nello sviluppo complessivo delle diverse competenze necessarie ad insegnare efficacemente ed in modo consapevole? Oltretutto, questi obiettivi, se opportunamente sostenuti da una rete di descrittori sufficientemente guidante, permettono di perseguire traiettorie di sviluppo molto ampie e multidirezionali, centrate sulla professione-docente, sullo sviluppo del curricolo e, soprattutto, sulla rilevanza che i diversi dispositivi formativi hanno nell’apprendimento degli allievi. Ci ricongiungiamo così alla domanda di ricerca, che si esplicita in un interrogativo piuttosto ampio, ovvero se la didattica del paesaggio sonoro possa contribuire allo sviluppo della professionalità progettuale del futuro docente di educazione musicale e, ancora più esplicitamente, all’ipotesi di ricerca, ovvero se l’impiego della trama concettuale del paesaggio sonoro come impianto ideativo/didattico possa beneficiare allo sviluppo di alcuni specifici criteri collegabili agli obiettivi della Dichiarazione.

 

Impianto osservativo e valutativo

L’idea, condivisa con alcuni colleghi, quindi, si è poi materializzata attraverso l’impiego di alcune modalità di insegnamento informali o non espressamente formali (Green, 2008; Delfrati, 2009; Randles, 2015) per provocare una serie di fondamentali riflessioni sia sull’oggetto dell’istruzione musicale (ovvero il suono e il suo dispiegarsi e pure del suo avvilupparsi ad elementi solo apparentemente accessori o estranei), sia sulle modalità di trasposizione didattiche. Brevemente, l’impianto valutativo prende le mosse dalla rubrica riportata nella figura n.1, strumento fondamentale per gestire la soggettività insita in qualsiasi processo valutativo, suddivisa qui nelle tre dimensioni precedentemente citate e nei rispettivi criteri, che sono rintracciabili sia nelle diverse valutazioni dei formatori (rispetto alle progettazioni, alle lezioni visionate, ai documenti prodotti dai docenti in formazione), sia al contempo nelle autovalutazioni e nelle riflessioni dei docenti in formazione stessi, sia, infine, sotto forma di effetti sulla pratica didattica, che in certi casi si è esplicitata attraverso ulteriori valutazioni o autovalutazioni (o anche in questo caso mediante bilanci di esperienze) da parte degli allievi che vivevano in prima persona queste attività. Pertanto, gli strumenti utilizzati sono stati diversi, ma adeguati a comporre una triangolazione dei vari punti di vista rispetto agli oggetti da indagare, in una prospettiva temporale di un anno scolastico, in un’ottica di valutazione pervasiva e continua.

Fig. 1 Rubrica valutativa olistica

 

Sul concetto di spazio in musica

Quando precedentemente si faceva cenno ad una “accezione piuttosto ampia”, in rapporto al tema del paesaggio sonoro, si voleva rinforzare l’ipotesi, peraltro frutto di un dibattito piuttosto aperto e dinamico (Bull, Back, 2008; Glotin, 2014), su una definizione di paesaggio sonoro che abbraccia le diverse sfumature semantiche della spazialità nel suono, come caratteristica (paradossalmente, forse) sia accidentale che sostanziale, ma per certi versi pure materiale, formale e finale.  Può risultare rilevante, a tal riguardo e soprattutto per tentare di chiarire il solco del discorso che si sta delineando, presentare una breve panoramica sul concetto di spazio nell’ambito della riflessione filosofica, in parte riconducibile all’esperienza musicale (Vizzardelli, 2015). Lo scopo di questa disamina, seppur dichiaratamente compendiosa e schematica, è rintracciare una serie di significati chiave per comporre non solo una semantica, ma anche una pragmatica rispetto all’operatività che siamo soliti ricercare nella progettazione didattica e nella vita d’aula. Innanzitutto, partiamo da due concetti espressi da Aristotele e da Cartesio, fondamentali e allo stesso tempo complementari: spazio come topos (per lo Stagirita) e spazio inteso come spatium per il filosofo francese.  Nel primo caso il lemma si rifà al concetto di luogo, e al suo rapporto con ciò che lo circonda, nel secondo caso invece lo spatium costituisce una distanza, un intervallo, una dimensione quantitativa e misurabile – quando invece quella aristotelica non è misurabile, ma affettiva e personale. Un altro passaggio importante viene siglato inoltre dalla riflessione di Kant, nell’estetica trascendentale della Critica alla Ragion pura (1787), quando si parla di spazio, come sensibilità esterna, e tempo come sensibilità interna. Da qui in poi però – e soprattutto con il romanticismo, salvo taluni casi specifici, come quello del Poema sinfonico – spazialità e musica prendono strade divergenti: Hegel colloca architettura e musica agli antipodi, quasi si considerasse blasfemo associare lo spazio all’arte dei suoni, se non in ossequio ad un rapporto eminentemente sinestetico[7]. Tuttavia, l’arte pura dei suoni comincia a cedere ai colpi di fioretto prima e di cannone dopo dell’atonalità, della serialità e soprattutto della musica concreta o aleatoria, allorquando i rapporti intervallari perdono significato sotto il profilo di preminenze gerarchiche e i suoni acquistano una sostanza timbrica, che proietta la riflessione in un contesto fatto di spazi, di distanze e pure di luoghi, almeno in certi casi. Più recentemente, la fiamma si ravviva nell’ambito del dibattito musicologico a partire dalla fine degli anni ’60, con Dahlhaus da una parte che rivendica il primato dell’opera artistica come oggetto dotato di meccanismi linguistici ed espressivi autarchici e Gallo, medievalista e rinascimentalista, che invece insiste sulla musica come evento, focalizzando l’attenzione non solo sulle proprietà ontologiche del tessuto musicale e dei suoi rapporti interni, ma anche sull’evento artistico che si contorna di tasselli ulteriori, innanzitutto culturali, storici e sociali (e quindi anche spaziali).

 

Conseguenze pedagogico-didattiche

Ebbene, alcuni di questi costrutti – a partire proprio dalla lettura della musica come “e-vento” – eventus, venir fuori, diremmo, nello spazio o nel luogo – possono orientare in modo propositivo una didattica maggiormente aperta sia per i discenti, sia per favorire lo sviluppo professionale del docente. Per l’allievo, il luogo, in quanto topos, diventa il fulcro pedagogico, lo sfondo, la cornice di senso, il presupposto per l’attribuzione di un significato autentico. Ma anche il concetto di spatium non è certo da sottovalutare, perché costituisce una dimensione conoscitiva, concreta, percepibile, sistematizzabile. Comunque lo si voglia collocare, lo spazio si propone come categoria intermedia e quindi di mediazione, per “navigare” la musica (pensiamo agli spazi della musica o alla musica a programma ecc.), soprattutto in un periodo dello sviluppo cognitivo in cui le astrazioni e le formalizzazioni risultano ancora complesse. Ma anche per il docente, si diceva, il concetto di spazio in musica e di musica come evento può risultare prezioso: rispetto all’efficacia didattica, in prima istanza, perché consente una certa varietà degli ambienti di apprendimento, in riferimento ai criteri di multidisciplinarità, contestualizzazione, sensibilità socioculturale; rispetto allo sviluppo personale e professionale, come acquisizione di prassi psicopedagogiche informate, approfondimento di dimensioni contestuali inedite; e quindi, infine, la possibilità di approssimarsi agli obiettivi della Bonn Declaration. Tutto questo viene inserito in un discorso didattico scientificamente informato, soprattutto in rapporto al paradigma dell’Universal Design for Learning (Cottini, 2019), in considerazione dell’attivazione delle reti affettive, di quelle strategiche e di quelle percettive, focalizzando e nutrendo l’esigenza di ricorrere a mezzi multipli di rappresentazione, azione ed espressione e pure di partecipazione, come evidenziato dalla prospettiva multidisciplinare e trasversale delle proposte didattiche solitamente connesse ai paesaggi sonori (Calanchi, 2015).

 

La partitura come mappa sonora. Ovvero, una riflessione sulla spazialità nella musica

Sui paesaggi sonori ne è colma la letteratura speculativo-musicale e didattica e, per questo motivo, più che fare riferimento alle attività di soundmapping più classiche – anche se possono sfociare evidentemente in esperimenti di composizione o di improvvisazione su elementi registrati e processati in vario modo dagli allievi stessi -, di qui in poi, preferirei presentare altro. Passerei in rassegna dunque alcune immagini emblematiche, prototipi di percorsi e di lezioni realizzati, o di progetti in parte ancora da esplorare e coltivare, che costituiscono un esempio di ciò che è stato sperimentato con i docenti in formazione e che in parte è ancora in fase di sviluppo, materiale che afferisce in generale all’esplorazione della categoria spaziale nella musica e con la musica.

In primo luogo, sono meritevoli di nota gli impieghi di modalità rappresentative in grado di far apprezzare meccanismi linguistici e articolatori altrimenti difficilmente accessibili agli allievi, per esempio attraverso l’uso di ordinatori grafico-spaziali e mediante lo sviluppo, ovvero lo spiegamento della partitura (in senso metaforico ma anche letterale, in quanto mappa che si srotola, si apre, si spiega), in rapporto ad una dimensionalità, visivamente organizzata. Grazie ad alcune guide che possono provocare nei discenti, con un colpo d’occhio, delle rappresentazioni alternative – diremmo oggi “aumentative” – della partitura, la scrittura musicale stessa può essere immaginata, reinterpretata o ricostruita attraverso un plausibile spazio acustico che la ospita e che la reinventa[8]. In questo ambito di utilizzo della spazialità come supporto conoscitivo, il mottetto Spem in alium di Tomas Tallis, rappresenta un interessante studio di caso[9], che ci offre inoltre un esempio di come poter gestire un’attività di ascolto e di analisi mediante il parametro dello spazio, ricorrendo anche a parallelismi visivi. In questo Mottetto per 8 cori a 5 voci la spazialità si impone come fattore moderatore, ad esempio nella distribuzione degli esecutori in un contesto architettonico specifico, sia come elemento sostanziale del tessuto compositivo, ovvero come fattore moderatore per la risonanza, la rarefazione o l’addensamento del materiale sonoro. La combinazione e compenetrazione quasi puntillistica delle diverse voci – suggestione che nella pittura troveremo solo diversi secoli dopo – rende per lunghi tratti inintelligibile il testo, forzando l’ascolto sull’amalgama sonoro più che sulla relazione tra i suoni stessi[10].

Ancora, negli studi dell’etnomusicologia, come in quelli di Victor Grauer (2011), la trascrizione dei canti Pigmei Aka o dei Boscimani diventa l’occasione per presentare una partitura che non intende solo riassumere una serie di condotte vocali di carattere eterofonico, ma offrirci una fotografia della vita musicale di un popolo. Magari attraverso quella che noi chiameremmo modernamente un’attività di body percussion, è possibile ricostruire le sequenze imitative, le inflessioni vocali che sembrano permetterci di rivivere le movenze di questi esecutori all’interno di un certo spazio, e perché no, di poter proporre una versione personale, con la classe, per appropriarsi di queste espressività musicali e gruppali, che tracciano movenze in rapporti modulari, ora di avvicinamento ora di allontanamento, in ossequio ad una prossemica musicale mai abbastanza indagata (Hall, 1984).

E poi, ovviamente, ci sono tutti i casi di studio della musica contemporanea, in cui la spazialità diventa un parametro rilevante e talvolta dirimente. Questo approccio, se ben contestualizzato e agito in uno scenario significativo per l’allievo, acquista proprio la valenza di evento, permettendo quindi un collegamento più puntuale a segmenti socioculturali e storici di cui l’evento musicale si nutre, fino ad arrivare agli spettacoli più recenti (e fornendo quindi anche delle euristiche interpretative per recepirli e analizzarli).

Altri studi di caso della storia, dal medioevo ai giorni d’oggi, ci permettono ancora una volta di sviluppare tematiche in chiave multidisciplinare e di offrire un ventaglio ricco di mezzi di rappresentazione e pure di espressione, richiamando ancora una volta il paradigma dell’Universal Design for Learning. Attività didattiche possibili a tal riguardo sono, ad esempio, la riflessione sullo spazio sonoro nel medioevo e la comparazione con quello attuale, cercando di veicolare alcune domande plausibili, ad esempio perché il segnale sonoro avesse questa importanza, perché non doveva avere limiti e muoversi velocemente in tutte le direzioni, regolare la vita, segnalare l’identità, stabilire il potere e forse anche i confini. O ancora, sempre in una riflessione sulle analogie e le differenze con il presente, cosa abbia sostituito il suono in questo rapporto di controllo e di gerarchie e cosa possa essere avvicinato, per affinità, attraverso l’esplorazione del presente mediante strumenti conoscitivi adeguati.

Ritornando al concetto di evento musicale, è possibile passare in rassegna in chiave contestualizzata o comparativa diversi eventi musicali del passato in un’ottica multimodale, ovvero facendo interagire più discipline e chiavi di lettura. Un lavoro sul teatro impresariale veneziano, ad esempio, può essere da motore ad un’indagine sulle dinamiche e sugli sviluppi della musica di massa, o anche viceversa, partendo cioè dalla produzione musicale attuale, osservando l’evoluzione del fenomeno attraverso varie possibili categorie come successo di pubblico, qualità compositiva e realizzativa percepita e documentata, meccanismi di vendita e di promozione, rapporto tra industria, autori e pubblico. Ci si accorgerà così di quanto la dimensione spaziale sia rilevante per dirimere alcuni nodi fondamentali della questione indagata.

Un lavoro ancora in divenire è invece quello relativo alla mappatura dei luoghi della musica del nostro cantone, il Canton Ticino, attraverso posti che hanno vissuto anni di gloria o di significatività storica, tracciando e polarizzando la vita musicale del Cantone. Alcuni tasselli di questo mosaico sono ad esempio il Castello di Trevano, il teatro Apollo di Lugano, o ancora i concerti al Campo Marzio, come quello di Strauss (1947), o il laboratorio di Hermann Scherchen di musica elettronica di Gravesano (1954) o anche la conferenza di Orselina del 1948, preparatoria del Primo Congresso internazionale per la musica dodecafonica[11]. Il percorso però prevede di partire da quello che gli allievi sanno e riconoscono, e che pertanto riescono pure a mappare del loro territorio e della loro quotidianità, per poi intraprendere un percorso “a ritroso”.

 

Conclusioni

Evidentemente, le diverse tracce tematiche qui ospitate – afferenti tutte, sebbene in varia misura, al concetto di spazialità in musica, addentellato implicito del paesaggio sonoro – meriterebbero ciascuna un corposo approfondimento; tuttavia, un curricolo formativo, adeguato a supportare e nutrire la rete di snodi che si dipanano da un nucleo concettuale, non può che presentarsi in tutta la sua frastagliata e ricca diversificazione. D’altro canto, proprio questa varietà dovrebbe stimolare – almeno, questo è il nostro auspicio – i futuri docenti di educazione musicale a pensare al curricolo in modo più trasversale e dinamico, e quindi ad intessere con maggior enfasi e regolarità trame multimodali e multidisciplinari nel contesto delle progettazioni didattiche. Al di là di questa doverosa precisazione, va però aggiunto che studi maggiormente strutturati sono necessari per determinare e approfondire la rilevanza del legame tra le istante attribuibili alla spazialità musicale (ivi compreso il paesaggio sonoro) e lo sviluppo delle competenze mirate, poiché queste rappresentano solo delle esperienze accomunate da un certo modo di intendere le categorie spaziali nella musica e le categorie musicali nello spazio, ma occorrerebbe pure isolare le singole variabili e stabilire eventuali rapporti di correlazione. Nondimeno, dall’analisi dei variegati rilievi valutativi – nell’incrocio tra le diverse prospettive, come valutazione dei formatori, autovalutazione dei docenti in formazione, esperienze dei discenti – si coglie un impatto positivo in alcuni criteri chiave (varietà dell’offerta, progetti cross-curricolari, contestualizzazione dell’educazione musicale e formazione interculturale e sociale), essenziali per promuovere una didattica maggiormente condivisa, costruttivista e ricca di senso per gli allievi. La dimensione meno sollecitata dal progetto, non sorprendentemente, sembra essere quella relativa alla qualità, (sviluppo professionale e training psicopedagogico), aspetto che però, alla fine, è in linea con gli obiettivi che risultano realisticamente meno perseguibili in ambito andragogico[12]. Tuttavia, proprio per questo motivo, occorre studiare e monitorare il ruolo della formazione continua, in primo luogo perché essa potrebbe rafforzare il legame tra pratica didattica e ricerca a lungo termine, soprattutto quando diversi interventi formativi, in archi temporali piuttosto lunghi e in ossequio al concetto di spaced practice (pratica distribuita), risultano più efficaci rispetto a corsi in modalità full immersion o pratiche a blocchi, modelli organizzativi talvolta necessari e adeguati a provocare una riflessione su un determinato aspetto culturale o tecnico, ma che contrastano con quanto sappiamo in merito alle pratiche efficaci (Hattie, 2011). In sostanza, ciò significa approfondire ulteriormente la riflessione e, probabilmente, insistere ancor di più su queste dimensioni nella formazione permanente dei docenti, che a nostro avviso appaiono promettenti.

 

Bibliografia

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[1] Prof. in Didattica della musica, Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana, Locarno.

[2] Per la precisione si tratta del “doppio master in pedagogia musicale con specializzazione di educazione musicale elementare e educazione musicale per livello secondario I”.

[3] Che convenzionalmente chiameremo qui “docenti in formazione”, anche per distinguerli dagli allievi delle scuole dell’obbligo, destinatari delle proposte didattiche nell’ambito dei tirocini professionali.

[4] Va precisato che questa modalità formativa non verrà più riproposta negli anni a venire. Vale a dire che, al pari delle diverse discipline di insegnamento, per l’educazione musicale verrà attivato – quando si avvertirà il bisogno di formare nuovi docenti – un master di durata biennale.

[5] Più raramente, anzi rarissimamente essi sono musicologi, anche perché già in ingresso alla formazione, nell’ambito della procedura di ammissione, vengono richieste specifiche capacità tecnico-musicali, in particolar modo nell’ambito della ritmica, dell’accompagnamento strumentale e del canto.

[6] Un’altra difficoltà che spesso il formatore incontra, soprattutto durante le prime lezioni, è quella di far avvertire ai docenti in formazione le dissimilarità tra i loro vissuti – di studenti di musica “di successo” – e quelli delle e degli allievi delle scuole dell’obbligo, che si caratterizzano per importanti differenze sotto il profilo delle preferenze e dei profili di apprendimento.

[7] Scherzosamente, potremmo pensare a quanto Hegel potrebbe rimanere contrariato nel sapere che un capolavoro come la Sinfonia n. 9 di Beethoven sia stato inserito – in quanto spartito e testo – nel catalogo della Memoria del mondo dell’Unesco, come un qualsiasi oggetto fisico.

[8] Pensiamo, ad esempio, alle trame contrappuntistiche e alle possibilità date dai colori e dalle frecce di orientarne la lettura; o ancora ai madrigalismi, ai rapporti tra concerto grosso e soli, fino ad arrivare alle produzioni della musica contemporanea già pensate attraverso specifiche disposizioni spaziali, movimenti o effetti (Varèse, Stockhausen, Nono ecc.) o della musica da film nella diffusione mediante vari sistemi sorround.

[9] A tal proposito si rimanda il lettore al podcast realizzato come anticipazione della omonima presentazione effettuata presso l’Università di Urbino il 30 settembre 2022 e disponibile all’indirizzo http://www.paesaggiosonoro.it/incontro2022/podcast.html#2message-modal.

[10] Per un’analisi spaziale del mottetto si veda Davis (2018) http://kevindavismusic.com/wp-content/uploads/2014/11/Motive-and-Spatialization-in-Thomas-Tallis-Spem-in-Alium.pdf

[11] Su questi temi, siamo debitori dell’opera monumentale di Carlo Piccardi, che sarebbe palesemente inefficace compendiare qui attraverso poche citazioni. Per una consultazione più esaustiva si rimanda alla pagina internet http://www.ricercamusica.ch/dizionario/573.html.

[12] Sulle prospettive di cambiamento di un adulto in formazione si veda Federighi (2018).

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