Musicheria. La rivista digitale di educazione al suono e alla musica

Una scuola primaria dell’espressione e della complessità: dove sta la musica e chi la fa

Riflessioni sparse fra utopia e speranza

Se io avessi una botteguccia
fatta di una sola stanza
vorrei mettermi a vendere, sai cosa?
La speranza
.
Gianni Rodari

Dopo l’uscita delle “Nuove indicazioni” ministeriali per la Scuola Primaria, ho già avuto occasione di fare qualche riflessione critica a caldo [1], soprattutto considerando che di “indicazioni”, nel corso della mia ormai mediamente lunga vita di compositore ed insegnante, ne ho viste tante e di diverso segno.
Rimane tuttavia aperta una questione che si sta dibattendo con assidua frequenza almeno da qualche mese a questa parte e che vede coinvolti pedagogisti musicali e operatori didattici: se, cioè, una volta stabilito che in quella fascia scolare l’Educazione Musicale deve realizzarsi come disciplina, sia necessaria la presenza di un docente specializzato, in grado di gestire la didattica di quella disciplina in modo consapevole e creativo, sottraendola ai rischi dell’improvvisazione, ma, soprattutto, a quelli della routine cui si condannano pratiche didattiche mal sostenute da conoscenze parziali e  poco o niente vissute in prima persona, a tacere delle pur minime attitudini che la pratica musicale richiede.

Mario Piatti, nel suo contributo “Specialista” di musica nella scuola primaria? Sì, no, forse [2] cerca in realtà di rispondere a una domanda che a metà degli anni ’80, all’indomani dell’uscita dei nuovi programmi di Educazione al suono e alla musica nella scuola elementare, generò una notevole polemica fra pedagogisti e musicisti, i primi favorevoli all’affidamento della nuova disciplina a maestri di classe debitamente formati, i secondi più generalmente schierati dalla parte del professionista di musica con competenze didattiche acquisite o da acquisire, nella convinzione che sia più semplice insegnare ad un musicista le metodologie adeguate per affrontare una classe che non ad un maestro la complessa catena di competenze necessarie ad insegnare musica come si deve.
Piatti svolge un’interessante e, come sempre, puntuale disamina sulla competenze richieste, prefigurando possibili modelli organizzativi, anche in relazione ad almeno un quarto di secolo di decreti ministeriali e di sperimentazioni, fino ai recenti interventi del cosiddetto “Terzo settore” nell’ambito della formazione docenti e dell’assistenza a progetti interni alle Scuole Primarie. La riflessione che vorrei qui proporre tenterà di partire proprio da questo aspetto per giungere alla definizione di una scuola diversa rispetto a quella che ancora una volta le “nuove” indicazioni ministeriali evocano, riproponendo l’elenco delle «competenze attese al termine della classe Quinta», alle quali gli insegnanti (specialisti o non che siano) dovranno necessariamente mirare, considerando che le verifiche (INVALSI o chi per esse) continueranno ad essere misurate sul livello di competenza raggiunto dai bambini  e non certo sul livello di «sviluppo integrale [promosso] attraverso la sensibilità musicale e l’ascolto consapevole» o di «giudizio critico e comprensione storica [favorita] attraverso l’analisi musicale», né, men che meno, di capacità di «lavoro di squadra [stimolato] attraverso pratiche di ensemble, come orchestre scolastiche e cori, che promuovono il rispetto reciproco, l’ascolto attivo e la condivisione dei ruoli» [3]. Stride soprattutto la palese contraddizione fra ciò che anche a  livello ministeriale sembra avvertito come il vero core dell’esperienza del bambino con la musica, distribuito nel testo mediante parole ed espressioni chiave come «cura della mediazione plurale del sapere musicale» o «valorizzazione della dimensione intrinsecamente interdisciplinare del linguaggio musicale, con particolare attenzione ai rapporti con le altre discipline artistiche e motorie», o ancora «attenzione particolare […] all’esperienza diretta con la musica», intendendosi con questa «l’ascolto guidato, il contatto con i musicisti, la partecipazione a concerti e attività laboratoriali, [che permettano] agli studenti di sviluppare un’esperienza formativa completa, capace di educare al bello, al gusto estetico e al dialogo interculturale» [4], e un modello di scuola pervicacemente rivolto alla misurazione di competenze disciplinari, fra l’altro di qualità e quantità spesso sovrastimate rispetto all’arco temporale di un ciclo primario e agli stili cognitivi (prima ancora che ai livelli) dei bambini di 6-10 anni.

Cerco di fare un po’ d’ordine, anche se, come avverte il sottotitolo, qui si tratta di «riflessioni sparse», attraverso le quali intenderei disegnare qualcosa di vicino ad una «utopia», cioè ad un luogo che non esisterà mai, se non nella «speranza» di chi vuole continuare a crederci e non la smette di combattere, giorno dopo giorno, per liberare spazi, convincere dirigenti e colleghi refrattari, tener a freno famiglie annebbiate dal miraggio del figlio imbottito di scienza e conoscenza, per sopperire alle necessità quotidiane di una scuola che non viene economicamente sostenuta perché i primi a non credere ad una scuola realmente nuova e davvero centrale nella crescita di una popolazione nuova (sì, nuova, con buona pace di chi sparge chiodi sul suo percorso e di chi quei chiodi vorrebbe conficcati in una croce) sono gli stessi rappresentanti dello Stato, capaci di mettere la Scuola al primo posto solo nei proclami roboanti che precedono le tornate elettorali.
Un’”utopia”, si diceva, cioè il non-luogo ideale per metterci dentro i bambini di 6-10 anni, che a quell’età, e al sicuro del nostro confortevole “benestare” di civiltà ricca ed evoluta, il cosiddetto “senso del reale” non sanno fortunatamente che cosa sia. E il bello è che questo non-luogo dovrebbe essere tutt’altro che strutturalmente semplice, perché dovrebbe portare i bambini alla naturale assimilazione del concetto di complessità, fondamentale per una lettura critica e consapevole del mondo in cui viviamo.

Ma come ce li mettiamo dentro?
Innanzitutto rinunciando ad ogni forma di teleologismo disciplinare, secondo cui la scuola è fatta di percorsi altrove pre-costruiti, con bassa adattabilità a contesti soggettivi e situazioni diverse, e programmati per giungere ad una meta di “competenza” stabilita a priori in sede di definizione del quadro generale (ministeriale o della singola scuola) delle competenze richieste ai bambini alla fine di un anno/ciclo breve/intero ciclo di studi. Mi verrà a questo punto obiettato che tutta questa rigidità in fondo non esiste, perché gli insegnanti bravi si dannano l’anima per cercare di adattare questi percorsi ai singoli allievi, in modo da portare ciascuno al suo massimo di competenza raggiungibile, e che comunque le competenze disciplinari sono la base di un sapere ampio e correlato. Tutto vero. Ma io non parlo di pratiche, parlo di un principio. E quel principio, lo ripeto, in quell’ambito di scolarità è sbagliato.
Perché è sbagliato?
Direi per svariate ragioni, la prima delle quali risiede nella natura del contesto sociale in cui i bambini di oggi si muovono e crescono: un contesto, come è noto, caratterizzato dalla penuria di tempi/spazi per il gioco libero tra coetanei, attraverso cui, fino almeno ad un quarto di secolo fa, si realizzava un’auto-acculturazione viva e complessa. In quelle ore dedicate all’interazione coi suoi coetanei, il bambino apprendeva infatti, seppur in modo osmotico, disordinato e informale, la complessità delle relazioni umane e la stratificazione dei fenomeni, le interrelazioni disciplinari e le diverse, possibili strade per la risoluzione dei problemi. In più, ma non meno importante, venivano a quotidiano confronto diverse provenienze geografiche, culturali e sociali, che nel rapporto di amicizia corroborato dal gioco e dal coinvolgimento personale, favorivano lo stemperarsi del pregiudizio e la valorizzazione delle diversità. Fu così per il confronto fra italiani del nord e italiani del sud nei primi anni ’60 e sarebbe potuto esserlo, dal tramonto del ‘900 ad oggi, nel delicato processo di adattamento culturale di migliaia di migranti provenienti da paesi diversi, con lingue diverse e diverse visioni del mondo. Ma invero le cose sono molto cambiate. E non certo in meglio per i bambini e per la loro crescita. Così la scuola sarebbe oggi chiamata a vicariare questa importante funzione, aprendo gli spazi e i tempi adeguati a ricreare, se non le condizioni di libertà assoluta che stavano alla base di quel gioco di scambio, almeno i presupposti pedagogici che ne costituivano la base e che, palesemente, non possono ritrovarsi in un’impostazione disciplinare settorialistica, dove la conoscenza globale e interdisciplinare viene derubricate ad esperienza marginale e saltuaria, quando non addirittura come campo di verifica (per lo più astratta) di raggiunte capacità di riconoscimento dei nessi che connettono tra loro le più diverse discipline. Un esempio illuminante di tale impostazione fornisce lo stesso Ministero nelle già citate “Nuove indicazioni”, consegnando al lettore un “Box” contenente un “Esempio di modulo interdisciplinare di apprendimento”, che spiega da solo la propria inconsistenza ed episodicità:

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Esempio di modulo interdisciplinare di apprendimento

Titolo: Il Linguaggio della musica e il linguaggio dei numeri
Classe: Scuola Seecondari di Primo Grado (classe terza)
Il modulo esplora le connessioni tra musica e matematica, evidenziando come il ritmo, le proporzioni e le frequenze siano strettamente legati a concetti matematici fondamentali. Gli studenti svilupperanno competenze logico-matematiche attraverso la musica, scoprendo le relazioni tra frazioni, geometria e sequenza numeriche applicate al suono.
Domande guida: 
In che modo la musica utilizza concetti matematici?
Come i rapporti tra i suoni creano armon ia e ritmo?
Quali connessioni esistono tra le proporzioni matematiche e le scale musicali?
Fasi operative
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Il fatto è che, semplicemente, la conoscenza disciplinare non precede, ma segue quella olistica, globale e integrata, dalla quale si dipana attraverso una consapevolezza analitica, che scinde e stacca dalla complessità delle nostre azioni le componenti stratificate e interattive che le hanno generate e definite. Anche un’operazione apparentemente semplice come vestirsi è in realtà un atto complesso, che presuppone una serie di abilità di coordinamento oculo-manuale, la conoscenza dei tessuti in relazione al clima stagionale e alla situazione contingente, il gusto estetico per l’accostamento di forme e colori, ma nessun genitore intelligente s’è mai sognato d’impedire ad un bambino di vestirsi o di scegliere quali abiti indossare o di allacciarsi le scarpe da lui scelte prima di avergli impartito lezioni di coordinamento senso-motorio, di meteorologia, di merceologia e di estetica dell’abbigliamento nella storia dell’Europa occidentale. E pur essendo consapevole che questo è solo un paradosso, resto fermo nella convinzione che la Scuola debba innanzitutto consegnare ai bambini che per la prima volta ne varcano la soglia un luogo dove mettere subito in gioco saperi e abilità già altrove acquisiti, dando loro un senso sempre più chiaro nel continuo crescere e svilupparsi e nel costante interagire con nuovi saperi e abilità.
Se dunque almeno nella Scuola Primaria si rinunciasse a ragionare per discipline da apprendere e competenze disciplinari da raggiungere e si cominciasse a promuovere la costruzione del sapere sulla base di progetti complessi, che partano dalle esperienze condivise dai bambini, ne coinvolgano l’immaginazione e la fantasia creativa e solo alla fine del processo “solidifichino” per così dire, le competenze manuali (artigianali) e concettuali, in modo che possano permanere nel tempo, proprio in quanto consapevolmente ricercate e altrettanto consapevolmente acquisite, il percorso educativo potrebbe, un po’ “milanianamente” (ma non troppo e non solo), articolarsi intorno ad alcuni punti fermi: (1) condividere, (2) creare, (3) analizzare, (4) rielaborare.

In tale prospettiva, il ruolo degli insegnanti sarebbe quello di raccogliere interessi, competenze e attitudini particolari dei bambini del gruppo classe e di costruirgli intorno unità di lavoro creativo (2), che li coinvolgano collettivamente (1) e che prevedano momenti di approfondimento (3) e rielaborazione (4) degli aspetti disciplinari emergenti dal percorso.
A fronte di una didattica prefabbricata, le cui finalità sono chiare fin dall’inizio e univoco è il modo di raggiungerle e di valutare il livello di consapevolezza di quel raggiungimento, una simile impostazione risulta certo più dispendiosa sul piano delle energie da dedicare all’osservazione (che poi si fa ricerca)  e al lavoro di equipe, dove vanno di volta in volta intrecciati e sciolti i fili che connettono fra loro le discipline e individuato lo “specifico”, che ne caratterizza il ruolo e la funzione. E poi c’è la volatilità del dato acquisito, sia esso un concetto, una nozione o una pratica. Nella tradizionale trasmissione analitica dei saperi e delle competenze disciplinari, cioè nel classico percorso lineare “dal semplice al complesso”, s’individuano subito le lacune, i “buchi” che impediscono al bambino di procedere, mentre la conoscenza raggiunta e vissuta come fenomeno globale e complesso può reggere e anche progredire senza essere necessariamente completa. Per fare un esempio concreto,  e giusto per coinvolgere la musica, se il concetto di quantità è stato isolato a partire da una performance nella quale “tanti suoni” si confrontavano con “pochi suoni”, è probabile che alcuni bambini siano in grado di riconoscerlo solo in situazioni analoghe (tanta o poca luce, tanta o poca carta, tante o poche persone), anche magari all’interno di range minimi di differenza, mentre non riescano a compiere il passaggio astrattivo nel confronto numerico (10 è “più tanto” di 2). In realtà, la conformazione “spiralata” di tale lavoro permette il continuo ritorno degli stessi concetti e, soprattutto, il loro interagire con concetti sempre diversi e sempre in diversi contesti, per cui una chiave di sblocco alla lunga si trova.

Ecco, alla lunga.
Ho avuto modo in più di un’occasione di ricordare quanto sia educativamente distruttiva la rapidità con cui da ormai troppo tempo si pretende che i nostri bambini “imparino” o “apprendano”, due verbi le cui radici latine rimandano al procurarsi e al prendere, azioni che possono essere anche velocissime, in quanto potenzialmente predatorie. E ciò è sempre più legato alla brama dell’avere (il sapere come possesso) e all’ansia della prestazione (il sapere come supremazia), che porta ad ingurgitare troppo e troppo in fretta. La conoscenza va vissuta, e proprio come la vita va assaporata lentamente, lasciando ai bambini tutto il tempo per godersi la meraviglia della scoperta, l’intreccio delle relazioni, l’infinita potenzialità creativa ed artistica di ogni concetto scientifico, la logicità inconscia di un’improvvisazione musicale e teatrale, di un balletto che simula gli straordinari movimenti operosi delle formiche, e via inventando, aprendo anziché chiudere, prospettando anziché definendo.
A strappi e a salti giù da un dirupo torno così al punto di partenza che mi aveva stimolato queste pagine infervorate e confuse. E, ahimé, ci torno senza una risposta, ma con un’ulteriore domanda, che umilmente pongo al mio lettore paziente: dentro a questa scuola primaria dell’utopia e della speranza lo vogliamo davvero uno specialista disciplinare per la musica? Posta così, sembrerebbe quasi una domanda retorica, ma non lo è, perché in questa scuola dell’utopia e della speranza io ne vorrei vedere tanti di “specialisti d’arte” e non solo  musicisti: danzatori, attori, pittori, scultori, scrittori e poeti; ma vorrei vederli lavorare in tutto il ciclo e costantemente insieme, partendo dai sogni per vedere quanta realtà c’è dentro, dalle invenzioni strampalate per vedere quanta regola c’è dentro, da una torre di babele di lingue e di culture per vedere quanta sofferenza e quanta gioia c’è dentro, per insegnare ai nostri piccoli  che non si può vivere senza esprimersi e non ci si può esprimere fino in fondo se non s’imparano continuamente “cose” dagli altri e con gli altri, adulti o bambini che siano.

Ho iniziato con la botteguccia di Rodari, in cui si vende la speranza, e voglio finire un po’ pasolinianamente, dicendovi che io lo so che una scuola così si può fare, lo so perché l’ho provata sulla mia pelle quando giocavo per due ore settimanali al teatro musicale coi bambini delle allora “elementari” e da quelle due ore di giochi d’invenzione e di emozione venivano fuori la grammatica e la sintassi, italiane e non, l’aritmetica e la geometria, le proporzioni e le equazioni, la geografia, la toponomastica, la storia, l’analisi di un quadro, la struttura della poesia. La scuola vinse il Premio Abbiati con quel progetto indimenticabile, ma la motivazione che se ne diede («Percorso-sperimentazione multidisciplinare che ha conformato l’aspetto ludico e la spontanea vocazione gestuale, ritmica, melodica e improvvisante dei bambini alla conoscenza della disciplina teatrale») mostrò che nessuno aveva capito cosa si nascondesse in realtà dietro a quel titolo, a prima vista così specialistico: Insegnare la musica, giocando al teatro [5]. Si nascondeva la speranzosa utopia di moltiplicare per tutte le ore di scuola di un ciclo quinquennale la consapevolezza che si sta costruendo il futuro sapere dei nostri bambini, tutti i nostri bambini, a partire dai bambini stessi e che quel sapere proviene dall’elaborazione di esperienze condivise, per cui è complesso e mobile, cioè ricco e stimolante.
Alla fine, è così disdicevole avere una scuola impegnativa e gratificante per gli insegnanti e divertente per gli alunni? Non dimentichiamo che se hai vissuto i primi cinque anni in modo entusiasmante, autoconvincendoti che lo studio è bello, potrai poi affrontare di tutto pur di conoscere: diventi assetato di sapere.
Io lo so e, ne sono certo, lo sapete anche voi. Gli unici che sembrano non (volerlo) sapere sono purtroppo coloro che, soli, avrebbero il potere di dare i necessari segnali di cambiamento. Quelli che possono venire solo “da là”.
Ma, in fondo, la botteguccia della speranza e il paese dell’utopia non crollano mai …

NOTE

[1] Nuove indicazioni, vecchie strade. (in margine al recente documento ministeriale sulla musica nella primaria), sta in Musicheria all’indirizzo https://www.musicheria.net/wp-content/uploads/2025/03/Commento-alle-Nuove-Inicazioni-Giacometti.pdf

[2] Sta in Musicheria all’indirizzo https://www.musicheria.net/2025/04/30/specialista-di-musica-nella-scuola-primaria-si-no-forse/

[3] Nuove indicazioni per la scuola dell’infanzia e primo ciclo di istruzione 2025 – Materiali per il dibattito pubblico, pdf scaricabile al link https://www.mim.gov.it/-/pubblicato-il-testo-delle-nuove-indicazioni-per-la-scuola-dell-infanzia-e-primo-ciclo-di-istruzione-materiali-per-il-dibattito-pubblico, p. 117.

[4] Ibid.

[5] Un’analisi del progetto e delle sue articolazioni è presente in A. Giacometti, Drammaturgie Sonore. Per un teatro musicale dentro e fuori la scuola, FrancoAngeli Editore, Milano, 2022, pp. 46-78. >>> scheda del libro

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