Numerosi aspetti del sapere, del sensibile e dell’immaginario, sono dunque messi in gioco inducendo a una relazione pedagogica della sonosfera e del paesaggio di natura ecosofica[1], capace cioè di articolarsi sia sul piano dei rapporti sociali che su quelli delle dinamiche psichiche e delle relazioni con il mondo naturale. Il libro, in quanto sintesi esaustiva ed efficace degli approcci possibili dell’universo sonoro, sebbene contestualizzato e destinato all’insegnamento ai bambini e adolescenti, mi sembra possa trovare un’applicazione feconda per tutte le fasce di età e in contesti culturali ed educativi differenti. In definitiva questo testo, presentato dagli autori come una “proposta di didattica laboratoriale”[2], risulta essere proprio tale poiché capace d’istruire nel senso migliore del termine, cioè dare spazio all’intelligenza del constatare come a quella dell’immaginare, nella volontà e nel piacere di crescere, vale a dire vivere ed educarsi, restituendo al contempo la complessità e l’incanto della problematica.
Tale apprezzabile valore pedagogico e culturale del testo mi sembra iscriversi ed essere espressione matura di un divenire estremamente complesso e multiforme che trova le sue origini in sostanziali mutazioni storico-epistemiche delle quali il libro non solo si fa interprete ma anche consapevole portatore. Vorrei attardarmi su questi aspetti di natura più generale proponendo alcuni elementi di riflessione che mi sembrano strettamente connessi alle tematiche affrontate. Enrico Strobino e Maurizio Vitali si fanno latori di un messaggio fondamentale del quale condivido pienamente la sostanza: l’ascolto del mondo. Solo questo tipo di prassi, cioè una modalità d’essere teorico-pratica-esistenziale, potrà permetterci di affrontare le immense sfide alle quali siamo già chiamati da tempo e che ora si presentano in maniera sovrastante prefigurando una realtà immediata di grandi difficoltà. Insegnare a piccoli e grandi la necessità dell’ascolto e ad ascoltare non è dunque un obiettivo tra i tanti, ma quello che ogni lavoro pedagogico dovrebbe proporsi. Questo scopo è pienamente raggiunto dal libro che si offre decisamente come strumento di formazione valido e necessario. A partire dagli elementi trattati e acquisiti di questo testo, stabilendoli dunque come punto fermo di riferimento sostanziale, le mie riflessioni si articoleranno essenzialmente attorno a un aspetto, a mio avviso non eludibile della problematica, riguardante la polarità non emancipativa dell’ascolto, quella di assoggettamento. Questo aspetto che appare sottrarsi all’ambito strettamente pedagogico, s’inscrive di fatto in quel pensare antropologico caro agli autori laddove essi affermano la loro prossimità al concetto di ascolto antropologico proposto da Antonello Ricci: “Praticare l’ascolto antropologico – essi scrivono – significa aprire la mente a una coscienza sonora del mondo dilatando la comprensione di ciò che è possibile intendere con termini come rumore, suono, musica, udito, ascolto, ampliando la rete di significati che a tali termini è possibile attribuire”[3]. Ed è proprio questo ascolto antropologico, che permette d’intendere le radicali trasformazioni in atto e quelle che necessariamente si impongono, a introdurci sia alle questioni storico-epistemiche, alle quali accennavo sopra e sottese a questo processo, sia agli aspetti più problematici inerenti all’assoggettamento. “Lavorare con i paesaggi sonori ha per noi, a fianco della valorizzazione estetica, un significato etico ed ecologico, che ci serve ad approfondire la nostra relazione con il mondo, con le sue problematiche e con le sue meraviglie, invitandoci ad ascoltare e a riflettere più consapevolmente su ciò che ci circonda, anche dal punto di vista sonoro”[4]. Non si può che essere d’accordo con quanto scritto qui dagli autori ed è esattamente in questa consapevole complessità che la lettura del libro e la discussione delle sue proposte deve operarsi.
Ora, tornando alle mutazioni storico-epistemiche in questione, la prima osservazione riguarda la loro rapidità e la loro forza dirompente poiché, sebbene intervenute in quell’arco temporale relativamente breve che va dal secondo dopoguerra a oggi, esse hanno trasformato completamente i paradigmi cognitivi e le relazioni esistenziali con il mondo. È difficile qui cercare di rendere conto in modo esaustivo di tali radicali cambiamenti. Si tratta infatti di molteplici aspetti che vanno considerati nelle loro composite interazioni al contempo complesse, cioè oltre gli approcci puramente analitici, e sistemiche, vale a dire in quanto dinamiche nelle quali la parte si “s-piega” nel tutto e il tutto si “di-s-piega” nelle parti. Dal superamento dell’antropocentrismo al consolidarsi della biologia come paradigma scientifico di riferimento, dalla rinnovata attenzione alle forme del sentire al superamento dello scisma tra natura e cultura, dalla coscienza di una sostanziale internalità al mondo (nessuna fuga ne è possibile) all’allarmante consapevolezza della sua fragilità, dalla visione della tecnica come strumento operante alla consapevolezza delle sue complesse dinamiche non neutrali, dalla critica di una monodimensionalità che si pretende universale a forme di sapere situate e “pluriversali” che implicano il riconoscimento di molteplici singolarità, tutte ugualmente degne, di popoli, generi, conoscenze e forme culturali… le dimensioni e le modalità agenti sono talmente tante e profonde che ogni inventario diventa problematico.
Per capire quanto è accaduto e quanto accade, dobbiamo però, innanzitutto, tematizzare la questione ecologica. Fanno bene gli autori a mettere al primo posto l’“ecologia” nel sottotitolo del loro libro. Poiché è a partire da questo nuovo paradigma epistemico e sociale, filosofico ed etico, ma soprattutto da questa nuova condizione vitale condivisa da tutti gli essenti che animano e vivificano la Terra, che si deve partire. Le grandi trasformazioni ecologiche, tecniche, sociali e psicosociali verificatesi negli ultimi due secoli hanno prodotto una situazione planetaria totalmente inedita per l’umanità e le altre specie animali e vegetali. Per la prima volta nella storia della Terra, a causa degli umani, il divenire di numerosi esseri animali e vegetali e dei loro discendenti si sta spegnendo o è definitivamente spento. La nostra stessa vita è in pericolo. Vittime di un pensiero sbagliato, di un sentire sbagliato, di un modo di vivere sbagliato, ci siamo illusi di essere padroni del mondo non accorgendoci che lo stavamo rendendo invivibile[5]. La rovina ecologica si sta pertanto abbattendo su di noi, chiudendosi come una morsa.
Le analisi condotte finora su questa catastrofe – poiché di catastrofe si tratta – concentrano la loro attenzione essenzialmente su due eventi la cui portata è chiaramente attestata e determinante: il modo di produzione capitalistico, e in particolare l’attuale fase neo-liberalista da un lato; e la rivoluzione industriale, le ideologie e i processi industrialisti che si inaugurano con l’Ottocento dall’altro. Ora, sebbene i modi e i rapporti di produzione, così come quelli di proprietà, siano assolutamente fondamentali per comprendere la realtà storica essi non sono però sufficienti. In particolare, la scarsa attenzione data in questo contesto teorico alla questione estetica, valutata sostanzialmente secondaria se non propriamente inesistente, mi sembra deleterio. Pensare, in effetti, che la dimensione del sentire, cioè l’aspetto estetico del mondo, sia marginale o superfluo è irragionevole. Un pensiero dell’immanenza e propriamente materialista non può non tenere conto, nel divenire della materia, di forme e qualità nel loro essere percepite, vale a dire la sostanza coevolutiva del vivente. Il mondo è innanzitutto e immediatamente sentito dagli essenti che lo popolano. Non tenere conto di questa realtà ontologica fondamentale vuol dire condannarsi a un pensiero strutturalmente riduzionista incapace di comprendere quanto accade e sostanzialmente vittima di un antropocentrismo autistico e di logiche limitative e semplificatrici. Questa posizione antiestetica è ugualmente condivisa perfino da quelle concezioni filosofiche che, storicamente opposte alla lettura materialista, avevano dato al sentire, negli aspetti concreti del manifestarsi dell’opera, un ruolo centrale e decisivo. Con l’idealismo tedesco e la sua progenie crociana siamo in effetti confrontati ad un “attacco” all’estetica forse di ancor più vasta e profonda portata poiché è questa stessa, in quanto concetto, a subire una forma di riduzionismo deleterio. Si tratta infatti di un processo che l’accantona allo studio della “creazione” di opere, tralasciando la questione del sentire quando non direttamente legata alla produzione artistica. In sintesi, l’estetica è presente come sovrastruttura nel pensiero marxiano e nei suoi discepoli o come espressione in divenire della perfezione dello Spirito nell’idealismo hegeliano e seguaci. Non è un caso che questi due filoni di pensiero siano tuttora di fatto concordi nell’esclusiva attenzione portata all’Arte e al suo Mondo (il “Mondo dell’arte”, con la “M” maiuscola, per l’appunto)[6] in quanto universo essenzialmente centrato sull’ideologia, tutta Moderna, dell’affermarsi acritico della potenza del soggetto. Poco importa che si tratti di forze produttive o dello spirito, il soggetto si manifesta nella creazione dell’Opera e l’estetica si riduce a questo. È proprio il XIX secolo, infatti, che porta al culmine nel suo positivismo trionfante un lungo processo di diminuzione dell’estetico.
Il riduzionismo antiestetico e il determinismo economicista non sono dunque una novità di quel secolo poiché appartengono a visioni semplificatrici ben più antiche. Possiamo risalire, in effetti, sino agli inizi della Modernità (riferendomi qui prioritariamente alla Modernità estetico-epistemica, cioè quell’ampio periodo storico che copre circa due secoli e che procede dal XV al XVII secolo: dalla prospettiva di Leon Battista Alberti alla concettualizzazione del paesaggio fatta da Tiziano[7], fino a Galileo e Cartesio, per intenderci) per trovare un oblio sostanziale della materialità estetica del vivente occultata e sminuita per dare priorità a metodi e concezioni meccanicistiche e quantificanti. Semplificando fortemente, per Galileo la natura è un libro matematico, cioè astratto, lontano da qualunque dimensione corporea e fenomenica, e per Cartesio essa è un insieme di elementi meccanici che è possibile smontare e rimontare. Se cerchiamo più in profondità, però, ci rendiamo conto che per quanto riguarda l’Occidente, il suo modo di vedere le cose era già intriso di una forma specifica di riduzionismo, propriamente estetico, riguardante cioè la dimensione del sentire, la quale può essere ricondotta fino alle origini stesse di questa civiltà. Si tratta di un’eredità molto complessa e ricca, indagata da numerosissimi autori, che concerne in primo luogo un modo di essere nel mondo e di sentirlo. Martin Heidegger ha indicato in Platone il fautore di questo passaggio estetico-concettuale laddove scrive che il filosofo greco riconduce l’insieme delle condizioni del sentire all’unica forma percettiva della visione facendo dunque del vedere il modello astratto e generale di tutto quanto è accessibile ai sensi. Ciò avveniva dando al termine “visione” un nuovo significato di valore universale e incorporeo che sussumeva in sé l’insieme delle forme percettive. Nella nostra cultura[8], in effetti, il concetto stesso di “idea” è intimamente legato a quello di “vedere” poiché, la nozione greca di idea rinvia direttamente a quella di “forma visibile, aspetto”[9]. Platone impiega questo stesso termine per indicare delle forme astratte, cioè soggiacenti e fondamenta delle modalità della percezione, proponendo dunque una nuova e più ricca determinazione semantica di questa parola. Heidegger dunque, in un illuminante passaggio de La questione della tecnica – testo di una conferenza da lui pronunciata il 18 novembre 1953 a Monaco di Baviera[10] – indica, in tutta la sua ampiezza, l’importanza di questa mutazione radicale. Egli scrive:
A tanti secoli di distanza noi non siamo più in grado di misurare che cosa significa il fatto che Platone abbia osato adoperare la parola είδος per indicare ciò che dispiega il suo essere (west) in tutto e in ciascun ente. Είδος significa infatti, nel linguaggio quotidiano, l’aspetto che una cosa visibile presenta al nostro occhio corporeo. Eppure, Platone pretende da questa parola che, in modo del tutto inconsueto, essa indichi appunto ciò che non è e non può mai divenire percepibile con gli occhi del corpo. Ma lo straordinario non finisce qui. Ιδέα infatti non indica solo l’aspetto non sensibile di ciò che è visibile sensibilmente. Aspetto (Aussehen), ιδέα, si chiama anche ciò che costituisce l’essenza in quello che si può udire, toccare, sentire, che è comunque accessibile.[11]
Insomma, a partire dalla percezione visiva si arriva, con Platone, ad una forma di astrazione totalizzante che include tutte le altre modalità di relazione empirica al mondo. L’idea, ιδέα, non è solo una cosa vista in quanto forma, ma diviene la capacità del nostro spirito di trasformare qualunque occorrenza sensibile in un’esperienza dotata di forma. Non una forma qualsiasi tuttavia, ma quella forma specifica che corrisponde alla dimensione mentale soggiacente all’operatività dell’occhio. Questa “matrice” sensibile-concettuale ha avuto un insieme di conseguenze profondissime. L’episteme occidentale è in realtà un’arte del guardare, cioè dell’osservare visivamente. Si fa scienza con le stesse modalità con le quali uno spettatore presenzia a uno spettacolo, vale a dire essere nel mondo e coglierlo come lo si vive e lo si percepisce a teatro. E proprio come a teatro, il nostro sentire si è strutturato sulla capacità di distanziarsi, impassibili e non implicati, in una finzione al contempo operativa e operante di separazione dal tutto. Un allontanamento scorporante tra noi e le cose che privilegia dunque soltanto quell’unico senso che per potersi attuare e applicare necessita di distanza: la vista. Credo che la dicotomia soggetto-oggetto trovi qui un’articolazione e una ragione esplicativa fondamentali. Tutto ciò, evidentemente, riguarda problematiche di estrema vastità e difficoltà. Ciononostante, se concordiamo con l’analisi qui appena abbozzata o ne accettiamo una qualche pertinenza, la questione del sentire, nelle modalità che via via lo conformano nel suo darsi, acquisisce una rilevanza inedita poiché è proprio il sentire che ci orienta globalmente. Il mondo infatti solo a queste condizioni può prendere senso, cioè essere sensato. La questione estetica si pone in, e pone dunque, questa complessità. Essa, di conseguenza concerne percetti e affetti, ma anche concetti.
A convalida di tale realtà, diciamo, totalizzante dell’estetica – cioè l’estetica come mondo, definendo il mondo una “totalità di appartenenza” – concorrono, nell’attualità del nostro tempo, altre ragioni. L’estetica, in effetti, assume un’importanza ancor più singolare e capitale se consideriamo due altri aspetti, strettamente correlati e di grande attualità, che hanno ugualmente scosso l’umanità a partire dal XIX secolo. Si tratta dell’avvento delle mnemo-tele-tecnologie, specificatamente quelle acustico-sonore, da un lato; e di un tipo particolare di capitalismo che a partire da queste e su queste si è dispiegato, dall’altro. Credo che non si insisterà mai abbastanza su questa realtà, troppo spesso sottovalutata, dell’apparizione delle tecno-tecnologie della memoria exosomatica e della trasmissione a distanza avvenuta nel XIX secolo. In effetti, non si tiene sufficientemente conto del fatto che è all’interno del mondo delle immagini, visive e sonore, che questa rivoluzione ha avuto luogo. In altre parole, sono le forme e le modalità vissute di rappresentazione sensoriale, cioè estetiche, ad essere state tecnicizzate e oggettualizzate, non i processi materiali o astratti come avveniva precedentemente. Il dagherrotipo e il grammofono non tecnicizzano funzioni esterne. Essi infatti non sono macchine destinate ad applicazioni nell’ambito del “fuori-da-sé”, cioè nell’estensione del mondo (come accade per un tessuto, un mulino, un satellite…). Essi, piuttosto, sono macchine con funzioni che si rivolgono direttamente alla nostra interiorità implicandola immediatamente: il “dentro-di-sé”, per così dire. Non è quindi una coincidenza, né una sorpresa, che da questi cambiamenti sia emersa la cosiddetta “società dello spettacolo”, una società che, secondo i suoi teorici, non è più in grado di distinguere tra realtà e rappresentazione. In effetti, con queste macchine è in gioco una forma di oggettivazione dell’interiorità, vale a dire un processo che, nell’interrelazione sottile tra percezione e memoria, spazio e tempo, materializza le dinamiche del sentire. Mi sembra, per fare un paragone forse azzardato e discutibile, che queste macchine, sebbene su un piano diametralmente opposto di applicazione, abbiano la stessa importanza antropologica di quella della ruota. In effetti, se la ruota ha radicalmente trasformato il mondo esterno, modellandolo e adeguandolo a sé stessa (appiattendolo, livellandolo, scavandolo, sopraelevandolo, trasformandolo in strade, ponti, varchi interrati, passaggi, gallerie… e per quel che ci riguarda accelerandolo, riducendolo, investendolo), il dagherrotipo e il grammofono hanno radicalmente trasformato il mondo interno permettendone forme di materializzazione e dunque inedite modalità di oggettivazione e rimemorazione, esplorazione ed espansione, reificazione e sfruttamento. Ma vi è dell’altro. Non tutte le mnemo-tele-tecnologie, cioè le tecno-tecnologie della memoria exosomatica e della trasmissione spazio-temporale, si equivalgono. In particolare le mnemo-tele-tecnologie acustiche rappresentano un’innovazione assoluta. Per la prima volta nella storia dell’umanità i processi “immateriali” – vibratori, energetici, dinamici, temporali – venivano catturati e resi materialmente disponibili nella loro concretezza esperienziale. L’occhio possedeva da millenni forme di rappresentazione materiali che con realismo mimetico permettevano di restituire immagini di realtà esperibili e osservabili. Tuttora disponiamo di busti marmorei d’imperatori o ritratti d’imperatrici composti con piccoli tasselli di pietre colorate. Non abbiamo però un solo reperto antecedente al XIX secolo riguardante la voce di uno qualsiasi di questi tiranni. Il cinema stesso, questa macchina straordinaria – immagine-tempo, immagine-movimento – che catturando luce riproduceva il movimento, non è comparabile con quell’altra macchina che captava le vibrazioni dell’aria e con esse la forma che questa via via assume. Il cinema coglie la luce che rimbalza sugli oggetti, non producendone l’esistenza né impedendone la persistenza. Il grammofono coglie l’evento vibratorio in quanto tale che non ha altro supporto che sé stesso nel costante movimento del suo proporsi e nel momento del suo offrirsi. Il divenire stesso, dunque, nel suo accadere e svanire. In realtà questa capacità d’implicare le fluttuazioni atmosferiche, chiamiamole l’etere, e farne mezzo, si compirà pienamente con la trasmissione radio. Questa darà forma ad ogni modello di trasmissione informazionale: esattamente come l’idea platonica che nel suo darsi come matrice preesistente di ogni cosa darà la forma del percepire propria all’occhio ad ogni esperienza empirica. L’era elettro-magnetica inaugurata da Guglielmo Marconi farà di questa proprietà della materia di trasportare energia il medium dominante e universale. Dominante in ogni pratica sociale dell’agire informazionale e universale in quanto substrato di ogni dinamica applicativa propria ai canali di trasmissione spazio-temporale. È su questo, come affermavo sopra, che il capitalismo attuale si è sviluppato e ha proliferato. La radio con le sue onde elettromagnetiche, ne ha segnato il momento capitale di avvento producendo l’avvento di un nuovo capitale: il capitalismo dell’ascolto; la cui ragione d’essere è il precetto seguente: ascoltare ed essere ascoltato, ovunque.
Diversamente definito: spettacolare, estetico, artista, del gusto o ancora cognitivo, dell’informazione, dell’attenzione, della distrazione, della sorveglianza… tale modello di produzione e di consumo, comunque lo si definisca, si caratterizza per essere essenzialmente basato sulla dimensione estetica, vale a dire sugli aspetti sensibili, percettivamente rilevabili e significativi. L’importanza dell’universo del sentire è divenuta tale che alcuni teorici hanno dichiarato l’effettività di una nuova “guerra estetica”[12]. Differenti analisi storico-teoriche situano l’origine di questo particolare modo di produzione e di accumulazione in fasi e periodi diversi. Per Guy Debord e i Situazionisti la dimensione spettacolare del capitalismo è apparsa negli anni Trenta – essenzialmente dovuta alla diffusione planetaria della radio come medium di massa – per poi generalizzarsi all’intero corpo sociale planetario. Ugualmente in quegli stessi anni si sviluppava il marketing[13] finalizzato al condizionamento mentale dei consumatori, necessario per poter vendere merci inutili e strutturalmente in eccesso. La teorizzazione di un capitalismo dell’attenzione trova proprio in questa volontà di suggestione e dipendenza degli spiriti, e dei loro desideri, una delle sue argomentazioni principali. Sebbene alcune ricerche facciano risalire agli anni trenta del XIX secolo[14] questo modo di controllo e incentivazione dei consumi e dunque della produttività, la novità di questa analisi si dà se, e solo se, si coglie non tanto l’importanza della capacità di catturare l’interesse e la disponibilità mentale del cittadino – voluto consumatore –, ma nell’organizzazione di una vigilanza generalizzata ad personam. Indifferente alla captazione dell’attenzione o all’organizzazione della distrazione, tale controllo mira e produce invece delle forme di retroazione desideranti che fanno di ogni individuo l’autore consenziente o inconsapevole del suo proprio reificarsi, cioè del suo autoprodursi in quanto oggetto. La soggettività – in questo caso, alla lettera, il “carattere personale” – è messa a frutto precisamente per produrre forme di alienazione non indotte con prepotenza, ma alimentate soggettivamente, cioè promosse esclusivamente dalle proprie scelte individuali. Il capitalismo di sorveglianza, sorto con il terzo millennio, esattamente nell’anno 2000 secondo Shoshana Zuboff[15], indica per l’appunto questo processo. Già nel 2009 Viktor Mayer-Schönberger, specialista di internet all’università di Oxford, affermava: “Google vi conosce meglio di voi stessi”[16], e in effetti, geolocalizzando, profilando, accumulando, incrociando e valutando quei dati che ognuno di noi oggi, volens nolens, fornisce alle immense banche dati planetarie, cioè sorvegliandoci, i “big tech giants” (giganti della tech) non fanno altro che identificarci nelle nostre azioni, scelte, relazioni, affetti, luoghi di vita, contesti culturali, linguistici, sociali, ecc… Così operando, questi giganti definiscono e affinano progressivamente, dato su dato, “pixel dopo pixel” si potrebbe dire, il nostro ritratto digitale invitando costantemente, su questa base oggettiva da noi stessi prodotta in quanto realmente vissuta, al consumo di merci proposte ad hoc. Vale a dire, corrispondenti e adeguate a questo ritratto sempre più dettagliato e oggettivo la cui definizione non può che aumentare. Tale processo tuttavia, ed è questo il punto fondamentale poiché ci rinvia all’ascolto, implica delle dinamiche più complesse della sola sorveglianza.
Queste analisi infatti mi sembrano non afferrare un fatto fondamentale che altri autori – sebbene con tesi teoriche talvolta ambigue e discutibili poiché non chiare sulle loro intenzioni critiche o apologetiche – hanno colto. Se l’aisthesis è divenuta, infatti e da tempo, la questione centrale e generalizzata del capitalismo planetario integrato, l’attuale modo di produzione si basa essenzialmente su un nuovo disegno sociale le cui caratteristiche fondamentali vanno oltre la cattura estetico-attenzionale degli individui e la loro incondizionata sorveglianza; vale a dire oltre quel processo globale di messa a disposizione delle soggettività che, come sappiamo, è non solo programmato e tecnologizzato, ma anche chiaramente rivendicato[17]. La sua particolarità, in effetti, non è solo quella di organizzare forme di “controllo incessante” – le società di controllo deleuziane[18] che sono già pienamente operative, anche se ancora in fase embrionale – ma di indurre ugualmente modalità di coinvolgimento emotivo “volontario” dei soggetti controllati. Si tratta di sollecitare e attivare relazioni di adesione ai modelli proposti, provocando un’accettazione passiva, una sorta di modesta rassegnazione, o una deliberata vocazione. In altre parole, la volontà di controllo è data e opera senza apparenti costrizioni esterne. Tale processo, che ricorda l’ammaliamento e la stregoneria, già descritto come tale[19], corrisponde dunque a un regime sociale che si impone tanto tramite costrizione quanto con l’attivazione volontaria degli individui attraverso forme di agentività partecipativa e partecipante. L’uno alimentando l’altro.
Come dicevo, per capire tale inedita situazione dobbiamo rifarci a quelle analisi, sviluppatesi in maniera consistente all’inizio del terzo millennio, che hanno tematizzato l’importanza dell’estetica nel capitalismo contemporaneo così come la rilevanza estetica di questo stesso. Il predominio estetico in queste analisi del capitalismo è rinviato a seconda dei casi alla formazione del gusto[20], all’avvento del design e all’estetizzazione del consumo[21] o ancora a delle forme di hyper-estetizzazione del mondo[22]. L’interesse di queste ricerche risiede nel fatto che – sebbene con modalità non esenti d’ambiguità, come ho affermato sopra – esse non si limitano a descrivere i guasti della strumentalizzazione estetica, ma anche quegli aspetti, visti come “emancipativi”, che nondimeno la caratterizzano: sviluppo di facoltà di scelta nell’esorbitante varietà delle offerte; forme di edonismo e dunque di soddisfazione del piacere; tolleranza morale nell’imperante fluire delle immagini che evitano il cristallizzarsi dei dogmi… insomma, la costruzione sul piano sociale di personalità, diciamo, libere, raffinate e aperte. Proprio in questo risiede l’ambiguità di tali proposte teoriche. Di fatto esse vedono nelle potenzialità di certe forme di emancipazione e autonomia insite nel modo di produzione vigente elementi per una sua legittimazione, non rendendosi conto che è proprio su questo piano che il problema si pone. Il capitalismo attuale si offre infatti in quanto dinamica finalizzata al compimento dei desideri propri di ogni individuo. Ed effettivamente il capitale lavora alacremente per soddisfare ognuno di noi. Ascoltare ed essere ascoltato ovunque, non significa tuttavia soddisfare tutti, rispondere a ciascuno appagandolo, ma solamente approntare le condizioni per essere costantemente pronto a cogliere quanto di ognuno si presenta via via disponibile e dunque fruibile in un processo di consumo. Questa risoluta volontà di molecolarizzazione sociale è messa in atto per permettere l’appropriazione di ogni possibile “parcella” solvibile momentaneamente disponibile. La frammentazione del corpo sociale in favore di una concentrazione segmentata e minuziosa rivolta ad ogni sua minima parte costitutiva mi sembra toccare qui un apice. La finalità individualista del neoliberalismo, cioè il non riconoscere al sociale alcun fondamento, non è una teoria astratta o un’ideologia di copertura, ma una prassi concreta, produttrice fattuale di ego individualistici tutti, dunque, in concorrenza tra loro e frammentati al loro stesso interno. Per raggiungere tale scopo, tuttavia, non è sufficiente spiare e accumulare dati. Bisogna anche ascoltare, cioè intendere e considerare, dunque interpretare, quanto avviene. Si capisce allora come l’intelligenza artificiale non sia, così come ci viene presentata, quel di più che si propone di coadiuvarci nella nostra vita quotidiana, come già avviene, ma un’esigenza intrinseca del sistema globale: coartata e non negoziabile. Una realtà che, infatti, non risponde a esigenze civili e/o militari, ma che rinvia immediatamente a un imperativo “civilemilitare”.
Tale esigenza di ascolto globale è dettata da molteplici imperativi. Forme di convergenza tra sistemi di controllo militari, polizieschi ed economici[23]; crisi ecologica che ha ridotto considerevolmente le capacità estrattive e con esse i margini di profitto e di manovra; insubordinazione crescente… tutto ciò necessita – in aggiunta, ma al di là di un monitoraggio generalizzato – soprattutto della messa in campo di dispositivi di controllo selettivo e intelligente, cioè un ascolto effettivo. Un processo, peraltro, divenuto palese e socialmente evidente poiché nelle logiche sistemiche attuali non è più tanto questione di persuasori occulti[24], quanto di condizionamenti manifesti, di “influencer”[25]. Laddove tutti, influenzatore e influenzato, partecipano ad una rappresentazione collettiva, tanto vacua quanto autoreferenziale, nella quale il criterio decisivo riguarda il condividere messaggi. Laddove dunque ogni forma di reattività è indicatore preciso di un ascolto avvenuto o assente. Ascolto che, in questo caso, significa: verifica di un processo di “co-azione” in atto, non solamente di controllo. Quando si sorveglia qualcuno, in effetti, non si ha bisogno di sollecitarlo continuamente, né di rispondergli. La sorveglianza si dissimula, non si manifesta. Essa si sottrae a qualsiasi reattività accontentandosi di osservare. Limitare la nostra analisi alle questioni del controllo, dell’attenzione o della sorveglianza significa dunque non tenere sufficientemente conto della parte inclusiva, di assimilazione e reciprocità, di trasmissione dei contenuti e capacità semantica che l’ascolto offre pienamente.
Evidentemente la situazione che ho qui sommariamente descritto di un ascolto volto a finalità di assoggettamento richiede un approccio radicalmente critico che rimetta dunque in gioco una vera capacità di ascoltare, cioè una volontà d’intendere non strumentale e opposta all’asservimento. Si tratta della proposta di ascolto emancipativo che Enrico Strobino e Maurizio Vitali costruiscono e ci propongono con questo bel libro portatore, nella sua competenza pedagogica, di consapevolezza ecologica, forza etica e anima estetica. Spero che le mie riflessioni, su quella che potremmo dunque definire “la questione dell’ascolto”, possano inscriversi nel progetto di “teatro educativo” che questo libro vuole organizzare attorno al “paesaggio sonoro” con l’obiettivo fondamentale di “promuovere un’educazione estetica”[26]. Questa, che si configura “in primo luogo, come ‘pratica della sensibilità’, come apertura di fronte allo stupore che emoziona e ci conduce nella ricerca di nuovi equilibri cognitivi ed emotivi, ampliando le già infinite possibilità della percezione”[27], trova in effetti nel “paesaggio sonoro” un momento fondamentale del suo costituirsi, ma anche e ancor più, una ragione ontologica generale. C’è infatti una relazione intrinseca – nel senso forte, logico-matematico, ricordato da Arne Næss[28] – tra quanto si vive e il contesto nel quale lo viviamo. In particolare ciò si avvera per quel che intercorre e accade tra noi e l’universo sonoro, quell’intreccio complesso fatto non solo di suoni e udito, ma anche di percezioni aptiche, linguaggi, parole proferite e grida incomprese. Focalizzarsi sulla “fonosfera, la dimensione sonora del pianeta che ci ospita”[29] significa infatti necessariamente situarsi alla giunzione tra sé e il mondo in quella continuità di vita che non è solamente simbolica o metaforica, ma sostanziale. Solo l’ascolto permette infatti di condividere quell’energia vitale che ci unisce nella vibrazione comune del vivente, il mondo organico, che oscilla e freme. In questo senso, in accordo con quanto affermato dagli autori, mi sembra che il paesaggio sonoro possa divenire “un ponte che unisce il fuori e il dentro”[30], dando quindi rinnovato equilibrio a quel rapporto tra interiorità ed esteriorità le cui dinamiche hanno subito forti e assolutamente inedite sollecitazioni. Mostrando alcune poste in gioco problematiche dell’ascolto ho inteso ricordare come questo si ponga oggi in quanto dimensione fondamentale del nostro essere nel mondo. Sono convinto che il futuro comune dipenderà in gran parte dalla nostra capacità di ascolto e disponibilità all’ascolto. Fra le tante efferate e ingiustificabili guerre che si conducono oggi nel mondo tematizzarne anche una estetica può sembrare non solo insignificante ma provocatorio. Sebbene io rifiuti l’orribile termine di “guerra dell’ascolto”, impiegato da media, politici e militari, credo sia proprio qui che il destino si giochi poiché solo ascoltando possiamo capire quanto accade e identificare delle possibili linee di fuga. Forse è proprio questo il tallone d’Achille dell’attuale capitalismo dell’ascolto: l’ascolto stesso, dato che la sua pratica non può non portare nel tempo alla presa di coscienza di quanto accade nel suo darsi come forza di emancipazione.
Di tutto ciò questo libro parla introducendoci con vera capacità pedagogica, pertinenza immaginativa e rigore scientifico a concetti e sintesi di grande chiarezza. C’è uno slancio formativo profondo che lo anima, un prendere cura con ragione, attenzione benevola e afflato poetico. Il libro si dipana in un processo coerente che partendo dal paesaggio sonoro arriva progressivamente al concetto di atmosfera, alle tecniche di documentazione del “paesaggio sonoro”, alle inedite possibilità di studio offerte dai dispositivi elettroacustici, fino alle numerosissime ed esemplari esperienze realizzate su queste basi e apparati. La questione dell’ascolto e delle modalità di creazione a partire dall’ascolto sono dunque investigate in tutta la loro portata educativa, sociale e ambientale. Si tratta di quell’ascolto emancipativo e non strumentale che gli autori descrivono e tematizzano con passione, quell’“atto ecologico per eccellenza” che non può essere spiegato meglio di quanto loro stessi facciano:
ascolto della nostra risonanza unito alla percezione profonda e partecipata di ciò che è altro da noi, gli altri, l’ambiente, con cui cogliere l’opportunità di interconnettersi, esprimendo quell’antica sapienza che mentre ci libera, anche per brevi momenti, dai sistemi interpretativi già dati, apre alla possibilità di entrare in una relazione empatica e sintonica con le persone, le cose e i luoghi, con quella stessa predisposizione e attitudine che è tipica dell’infanzia.[31]
Non credo di poter aggiungere altro se non, per concludere, la breve frase di Luigina Mortari citata e messa in esergo in un capitolo del libro: “Ascoltare è la prima forma in cui si manifesta l’etica del prendersi cura […] in modo non intrusivo. È con l’educazione all’ascolto che ha inizio l’abitare con leggerezza la terra”[32].
NOTE
[1] Si veda al proposito Felix Guattari [1991], Le tre ecologie, Sonda, Milano (ed. or. 1989) e Arne Næss, “The Shallow and the Deep, Long-Range Ecology Movements. A Summary.” Inquiry, Volume 16, 1973, Issue 1-4, p. 95-100.
[2] p. 58.
[3] Antonello Ricci [2016], Il secondo senso, FrancoAngeli, Milano.
[4] p. 144.
[5] In realtà – sia detto a margine in questa breve nota – in molti, da diversi decenni abbiamo dato l’allarme con disperata forza su quanto sta accadendo, ma un muro estremista e irragionevole d’insensibilità e di interessi malsani ha impedito qualsiasi intendimento. In questa logica deficiente, persistono in molti. Non ultimo il Presidente della Repubblica francese che con disonesta e disinvolta sfacciataggine si è chiesto nel suo discorso di auguri alla nazione francese per il nuovo anno 2023: “Chi avrebbe potuto predire la crisi climatica?” (“Qui aurait pu prédire la crise climatique ?”) (sic)! La frase è stata pronunciata all’incirca a due minuti e trenta del discorso. In rete: https://www.elysee.fr/emmanuel-macron/2022/12/31/voeux-2023-aux-francais
[6] Sul concetto di “Mondo dell’arte” si vedano i testi fondatori di Arthur Danto (all’origine del concetto: cfr. “The Artworld”, The Journal of Philosophy, vol. LXI, n° 19, American Philosophical Association Eastern Division Sixty-First Annual Meeting, 15 octobre 1964, p. 571-584), di George Dickie e di Howard S. Becker.
[7] Nella complessa tematica dell’“origine del paesaggio”, la lettera che Tiziano indirizzò all’imperatore Filippo II nel 1532 è considerata come un (il) primo documento che nomina, tematizza e forgia il termine “paesaggio” indicando con ciò il genere pittorico che lo rappresenta.
[8] Riprendo questa frase e la citazione di Heidegger dal mio libro Ultramedialità e divenire dell’arte. Il medium oltre sé stesso (Kaiak Edizioni, 2017) al quale rinvio per l’approfondimento di alcuni aspetti della questione riguardante il paradigma retinico occidentale.
[9] André Lalande, Vocabulaire technique et critique de la philosophie, PUF, Paris 1926 e 1993, vol I, p. 445.
[10] La conferenza faceva parte di un ciclo d’incontri organizzato dall’Accademia di Belle Arti ed ebbe luogo presso l’Auditorium Maximum della Technische Hochschule.
[11] Martin Heidegger, Die Frage nach der Technik (1953), in Vorträge und Aufsätze, Neske, Pfullingen 1957, trad. it. La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, Milano, Mursia, 1976, pp. 5-27 (traduzione dal tedesco di Gianni Vattimo). Il passaggio citato è alla pagina 15.
[12] Cfr. Bernard Stiegler [2005], De la misère symbolique – 2. La catastrophè du sensible, Galilée, Paris (si veda: p. 16 e sgg); Olivier Assouly [2008], Le capitalisme esthétique : essai sur l’industrialisation du goût, Cerf, Paris.
[13] Si veda la voce “Marketing” nel sito di Ars Industrialis. In rete: https://arsindustrialis.org/marketing
[14] Allorquando il New York Sun diviene il giornale più venduto di New York stabilendo il prezzo di vendita al di sotto del costo reale e recuperando le perdite con la pubblicazione a pagamento di annunci. Si veda Tim Wu [2017], The Attention Merchants, Atlantic Books, London, (citato da Yves Citton, « De l’écologie de l’attention à la politique de la distraction : quelle attention réflexive ? », in Michel Dugnat (ed.) [2018], Bébé attentif cherche adulte(s) attentionné(s), Érès, Toulouse, pp. 11-27. In rete: https://www.cairn.info/bebe-attentif-cherche-adultes-attentionnes–9782749262130-page-11.htm
[15] Shoshana Zuboff, « Un capitalisme de surveillance », Le Monde diplomatique, janvier 2019, p. 1, 10 e 11. In rete: https://www.monde-diplomatique.fr/2019/01/ZUBOFF/59443
[16] « Google vous connaît mieux que vous-même », Viktor Mayer-Schönberger intervistato da Marie Lechner, Libération, 12 novembre 2009, p. 27.
[17] Ricordo la frase pronunciata nel 2004 da Patrick Le Lay, l’allora presidente e direttore generale del gruppo TF1, il più grande gruppo dei media francesi: “Ciò che noi vendiamo a Coca-Cola è del tempo di cervello umano disponibile”.
[18] Gilles Deleuze [2000], Pourparler, Quodlibet, Macerata (ed. or. 1990).
[19] Cfr. Philippe Pignarre et Isabelle Stengers [2005], La Sorcellerie capitaliste. Pratiques de désenvoûtement, La Découverte, Paris.
[20] Olivier Assouly [2008], cit.
[21] Gilles Lipovetsky et Jean Serroy [2017], L’estetizzazione del mondo: vivere nell’era del capitalismo artistico, Sellerio, Palermo (ed. or. 2013).
[22] Yves Michaud [2021], «L’art, c’est bien fini». Essai sur l’hyper-esthétique et les atmosphères, Gallimard, Paris. Di questo autore si veda anche L’arte allo stato gassoso. Saggio sul trionfo dell’estetica, Mimesis, Milano, 2020 (ed. or. 2003).
[23] Si pensi al sistema mondiale d’intercettazione delle comunicazioni private e pubbliche nominato Echelon. Si veda al proposito il rapporto del Parlamento Europeo redatto nel 2014. In rete: https://www.europarl.europa.eu/EPRS/EPRS-Study-538877-Echelon.pdf
[24] Vance Packard [2015], I persuasori occulti, Einaudi, Torino (ed. or. 1957).
[25] https://accademiadellacrusca.it/it/parole-nuove/influencer/17669
[26] p. 28.
[27] p. 42.
[28] Vi è relazione intrinseca tra due termini (A e B) quando senza l’esistenza dell’uno l’altro non sarebbe ciò che è, per esempio la relazione tra madre e figli.
[29] p. 25.
[30] p. 104.
[31] p. 56.
[32] Mortari Luigina [2007], La ricerca per i bambini, Mondadori Università, Milano, p. 142.