Musicheria. La rivista digitale di educazione al suono e alla musica

Questioni di pedagogia musicale

Roberto Albarea

Intervista a Roberto Albarea

Su Musicheria abbiamo pubblicato diversi contributi attinenti a “Pedagogia della musica”. In ordine di tempo: “Pedagogia e Musica: intrecci e relazioni”, intervista a Salvatore Colazzo e suo contributo allegato (2023); “Pedagogia musicale: verso un nuovo paradigma”, intervista a Franca Ferrari e suo contributo (2023); “Essere in musica. Elementi per una pedagogia della musica”, di Mario Piatti (2020); “Pedagogia della musica: quali basi?”, di Mario Piatti (2018); “Pedagogia della musica – Bibliografia in lingua italiana 1967-1993”, di Mario Piatti (2011).

Pubblichiamo ora, nella sezione E-Book, con l’autorizzazione dell’Autore che ringraziamo, un nuovo contributo: “Questioni di pedagogia musicale”, scritto da Roberto Albarea e pubblicato nel 1985 sulla rivista Pedagogia e Vita (n. 6, 1984-85, pp. 565-602).

Per l’occasione abbiamo rivolto a Roberto Albarea alcune domande.

Musicheria: Roberto Albarea è stato insegnante elementare, direttore didattico, Ordinario di Pedagogia Generale e Sociale all’Università degli Studi di Udine e ora è docente presso lo IUSVE (Istituto Universitario Salesiano) di Venezia. È autore di monografie, saggi ed articoli, apparsi in edizioni e riviste nazionali e internazionali riguardanti la filosofia dell’educazione, l’educazione estetica e musicale, la pedagogia della sostenibilità. In campo musicale si segnalano il contributo “Pedagogia della musica: individuazione del campo, problemi e prospettive” nel volume “Pedagogia della musica: un panorama” (a cura di Mario Piatti, Clueb, Bologna, 1993, pp. 37-60) e il saggio “Scuola primaria e educazione musicale in Europa. Comparazione di curricola e implicazioni interculturali” (FrancoAngeli, 1996).
Nel tuo libro “Tenersi nell’instabile. Una autobiografia professionale” (ETS, 2017, pag. 79) scrivi: «Un educatore che ha familiarità con la musica possiede una certa sensibilità che va oltre il campo dei concetti e delle argomentazioni (pur comprendendoli): una sensibilità che lo porta ad intuire l’umano recondito che c’è in ciascuno, oltre le apparenze, uno sguardo vero l’altrove che alberga nell’interiorità delle persone. Anche nel mio caso (a seguito dei miei studi di musica e di pianoforte) questa condizione sensibile è percepita nelle relazioni educative che nascono nell’attività di docente».
Ritieni quindi fondamentale per ogni educatore anche una buona formazione musicale?

Roberto Albarea: Ritengo, come è stato  citato dal mio libro,  che una certa competenza e sensibilità in campo musicale aiuti a creare la relazione educativa (fondativa di ogni comunicazione interpersonale significativa e produttiva ), essa aiuta a comprendere meglio le persone, senza giudicarle, a entrare in sintonia con loro, ad accompagnarle nel loro progetto di crescita; ma c’è anche da dire che questo atteggiamento, questa predisposizione è utile anche alla identità e preparazione del docente: l’obiettivo sarebbe, alla fin fine, quello di superare la dicotomia allievo/docente per diventare persone che coltivano un’amicizia differenziata: è quello che è  successo a me (continuo infatti ad incontrare ex allievi, studenti e laureandi e, in taluni casi,  a progettare qualcosa insieme).
Ma si deve anche aggiungere che nella vita, occorre, anche e soprattutto, saper perdere. Un educatore è sempre colui che deve saper perdere amorevolmente. Un educatore attraversa la strada della perdita e dello smarrimento e deve saper convivere con le contraddizioni dell’esistenza, lavorando sull’antinomia utopia e disincanto (Magris, 1999) per tramutarle in potenziale di crescita e di ascolto, anche paradossale. Al di là dei trionfi e dei successi conclamati, alla fine, il fine dell’essere umano sta nel saper imparare a vivere, saper ben condursi, come diceva Seneca nel De brevitate vitae (Seneca, 7, 3, 1994, p. 311); forse è questo il vero e più intenso significato di competenza oggi così diffuso e altrimenti standardizzato dalla cultura statunitense del Management?
Quello che voglio chiarire è che non c’entra tanto la competenza tecnica del fare musica, quella sarebbe secondaria,  quello che conta è che la musica, produce un afflato, una capacità di ascolto dell’altro che aiuta e diventa un “tasto” in più della relazione educativa.

M.: Nel tuo saggio “Questioni di pedagogia musicale” (che alleghiamo come e-book) ritieni che, in particolare nell’ambito dell’ascolto, «la formazione di un atteggiamento di ricerca nei confronti del contesto sonoro e di parametri di riferimento dinamici e critici sono gli obiettivi che ogni pedagogia musicale deve sapersi permettere». Come ritieni che nell’attuale contesto socio-culturale i ragazzi e i giovani possano sviluppare un ascolto consapevole, non solo in ambito musicale ma in genere nei rapporti sociali?

R.A.:Tutto sta nel costruire una efficace e “amorevole” relazione educativa.
La relazione educativa, sostenibile e dialogante, si presenta non tanto come una mera giustapposizione di persone, processi ed interventi, bensì come una interdipendenza dialettica, critica, ed empatica di assunzioni e prese di posizione (assunzioni di valore, criteri di gestione di contesti, aspettative e vissuti, stati affettivi, pratiche di intervento, scelte ed opzioni) che rimandano le une alle altre, costituendo un tutto organico, dinamico, ma talvolta instabile, mai concluso ed eppur stimolante verso passi successivi (Albarea, 2011, p. 19).
Sono giochi strategici tra le libertà, quella dell’educatore e quella dell’educando, in cui si articola, si esprime e si snoda l’autorità dell’educatore.
Nella gestione della relazione educativa (che è una interpretazione dell’essere umano) questa condizione permette una serie di mosse (le tecnologie di governo, secondo Foucault), sia da una parte che dall’altra, giochi strategici che possono, paradossalmente, aiutare il dialogo e l’incontro con le differenze, culturali, sociali e individuali, perché l’interpretazione permette di porsi da molteplici punti di vista.
La relazione educativa è una relazione asimmetrica, è una relazione di potere. C’è come una sorta di antinomia pedagogica tra tecnologia del sé (che Foucault chiama anche esegesi del sé, e che Papa Francesco denomina ermeneutica interiore, ripresa da S. Ignazio di Loyola) e la relazione educativa. Questa relazione asimmetrica tra educatore ed educando, è una espressione di potere (espressione legittima, a certe condizioni), la quale per non diventare stato di dominio (negativo) deve accettare i giochi strategici fra le varie libertà. Vi viene coinvolta l’autoformazione dell’educatore.
Non mi dilungo oltre su questo tema oltremodo complesso, basta dire che il mio ultimo libro si intitola Correspondances (dal famoso sonetto di Baudelaire): nel libro sono illustrate le diverse modalità di entrare in corrispondenza con le persone; questo richiede una severa e spassionata analisi di se stessi, di esegesi del sé; questa capacità dell’educatore di fare esegesi del sé è una leva formidabile nel costruire la relazione educativa, evitando  inutili “spocchiosità” e autoadulazioni, portando avanti i propri valori di riferimento in modo critico e cercando gestire l’incertezza insieme agli altri. In altre parole non si fa ricerca solo nel contesto sonoro plurimo ma anche su se stessi, cioè nella misura in cui si è disposti a fare esegesi del sé si facilita  la propensione a riflettere da più punti di vista intorno al campo musicale. E’ quello che ho definito come trasversalità formativa.

M.: Sempre in “Tenersi nell’instabile” presenti la “creatività sostenibile” come “dimensione per lo stile educativo e per l’esegesi del sé”. Cosa intendi per “creatività sostenibile”? Questo concetto può essere utile anche per chi si occupa di educazione musicale?

R.A.: La creatività sostenibile è una antinomia: da un lato c’è la creatività, cioè l’apertura e la ricerca, dall’altro c’è il senso della misura: una sorta di umiltà del ricercatore e del creatore.
Ciò che è importante,  a mio parere, è il senso dell’equilibrio tra questi due poli oppostI: insomma  essere né troppo prudenti né troppo esaltati: è per questo che occorre l’esegesi del sé.
Il discorso riporta così alle antinomie del vivere e alla loro testimonianza in modo da  avviarsi ad una corrispondenza tra esegesi del sé e relazione educativa. Come si attua questa corrispondenza? Attraverso la testimonianza di sé, ovviamente ma anche facendo appello alla propria creatività. Jerome Bruner si è occupato di questo importante aspetto della creatività e dei suoi riflessi sull’insegnamento. Pensiero creativo e attività creativa, secondo Bruner, sono caratterizzati da un procedere antinomico e paradossale, sia in rapporto all’arte che in rapporto alla scienza (Bruner, 1970).
Le principali antinomie enunciate da Bruner sono: distacco e impegno (immersione e distanziazione),  passione e decoro (che può essere inteso come impulso creativo, coinvolgimento emotivo, ed equilibrio personale), libertà di essere dominati e di dominare l’oggetto della conoscenza (anche in rapporto alle persone con cui si viene in contatto: le persone possono essere ‘oggetto’ di conoscenza),  autonomia/dipendenza (che introduce ai modi con cui l’individuo creativo vive, sa gestire e fa evolvere la propria dipendenza: dagli altri, dalle cose, dagli avvenimenti), dilazione e immediatezza, dramma interiore (cioè capacità di far coesistere i numerosi tratti distintivi della propria personalità talvolta in conflitto tra loro e, quindi, gestire e sopportare le contraddizioni che possono essere rivelarsi positive).
Se ne possono enumerare altre in rapporto al pensiero convergente e al pensiero divergente (Albarea, 1996, p. 21 con L. Zanuttini): persistenza e tenacia da una parte, capacità e disponibilità al cambiamento dall’altra, competenza culturale e invenzione produttiva; tradizione e innovazione, consonanza e dissonanza (in musica), coerenza e contraddizione, sicurezza acquisita e insicurezza della scoperta. C’è la presenza di elementi di aggancio con la tradizione, con il passato, con la propria storia personale, e di una dimensione di avventura, di situazione “in bilico”, per non incorrere nel dogmatismo,  ma  anche  nel  superficiale,  nello  stravagante, nel  bizzarro, nell’anticonformismo ad ogni costo.
Bruner ricorda come l’intelligenza umana non proceda esclusivamente in maniera analitica o per segmenti, ma possa anche costruirsi per unità complessive e totali. Il primo modo è quello detto anche «digitale» o discontinuo, caratterizzato da una sequenzialità procedurale rigorosa («mano destra»); il secondo modo è quello detto «analogico» o continuo, che si apre agli orizzonti dell’intuizione, della fantasia e dell’arte e che utilizza come forme proprie la sorpresa produttiva, il mito, la metafora («mano sinistra»).
Nella relazione educativa sono perciò importanti non solo le significazioni esplicite, ma anche, e forse di più, quelle implicite, allusive, in una dialettica di detto/non detto che corrisponde, da ambedue i poli della relazione, ad un  tentativo di esplorazione di un territorio sconosciuto: questo territorio (la relazione) viene esplorato cercando di costruire degli “appoggi” che permettano di tentare incursioni verso ciò che è “diverso” e non conosciuto,  e recepire il nuovo, l’inaspettato. Perché: se ci sono troppi punti di stabilità si incorre nella staticità, nel “già detto”, nella immobilità, nella noia, nella stagnazione (non c’è alcuna tensione che sprona); se gli appoggi sono troppo pochi, ecco prevalere un senso di smarrimento, un eccesso di mobilità, un senso di inadeguatezza, di incapacità a riflettere su se stessi e sull’oggetto della nostra attenzione.
Da ciò si evince che si è educatori sostenibili senza esserlo troppo, accettando il proprio ruolo (di potere e di autorità, ma non di dominio, come dice Michel Foucault) senza controllarlo completamente, lasciando spazi alle incongruenze, alle improvvisazioni, alle zeppe (Eco, 2002), senza pianificare troppo, come una improvvisazione che si basa su una solida competenza. Solo chi è competente si può permettere di improvvisare consapevolmente.
Infatti, cos’è questa sostenibilità interpersonale se non una lezione di umiltà, di curiosità, di rigore interiore, di gioia del conoscere, di accettazione dei propri limiti per guardare oltre? Solo in questo modo si realizza  una non narcisistica esegesi del sé. Da questo punto di vista, essa è inquietudine formativa che può presentarsi come un «focolaio di esperienza» (seguendo Michel Foucault), come luogo dove fare, nella contemporaneità, «pratica di sé», la quale rende perseguibile lo studio dei modi di esistenza virtuali per dei soggetti possibili, il centro è l’individuo in quanto allo stesso tempo risultato ed agente di una varietà di processi di soggettivazione.
Alla base di ciò per l’educatore  esiste sempre  l’esercizio di pratiche di sensibilità, compresa la gentilezza dei costumi, come disse a suo tempo Giovanni Maria Bertin (1976, pp. 38-39) che  possa portare l’essere umano ad una riscoperta e riaffermazione del valore della cortesia,  della gentilezza d’animo, della disponibilità e della comprensione.
Infine occorre lavorare sul secondo divario digitale, l’effetto San Matteo, in modo che le nozioni e le conoscenze apprese e incorporate attraverso varie fonti (studio, esperienza, circolarità dei linguaggi, ecc.) diventino criteri di orientamento e quindi l’alfabetizzazione informatica, la Digital Education e la Digital Wisdom vadano ad innestarsi sull’educazione precedente. Ciò porta ad allontanarsi sia da posizioni apocalittiche di rifiuto della tecnologia sia da aprioristiche esaltanti accettazioni. Infine, perché no?, aprirsi verso la serendipity.
Lo stile educativo della creatività sostenibile aiuta ad indagare quello che non si è pensato o programmato (l’improvvisazione dell’educatore competente, di cui si diceva). Si tratta di un atteggiamento e di un avvio di un processo intrapresi con altri scopi ma che possono condurre a conseguenze inaspettate.
Di fronte a tutto questo c’è la credibilità dell’educatore che si sostanzia nella sua pratica di testimonianza.
Un educatore lontano da ogni delirio di onnipotenza, gentile e creativo, comprensivo e rigoroso, avventuroso e cauto, che sulle debolezze consce dell’umano costruisce la propria forza. Una forza continuamente riconquistata, in tensione, che fa della coscienza dei propri limiti, del lavoro e dello scavo su se stessi un progetto di impegno, di ascolto, di dialogo, di costruzione di futuri alternativi credibili. Il veicolo di irradiazione è sempre la relazione educativa:  potrà essere uno sguardo, un gesto, una parola, segni impercettibili (micro-segni dell’anima) che si registrano nell’esperienza dell’incontro, oppure potrà essere una testimonianza più visibile, una condivisione concreta, un atto di dedizione, un rischio che vale la pena di correre.

M.: In base ai tuoi studi musicali giovanili e al tuo fare musica ancora oggi e come pedagogista attivo nel campo della formazione, quali consigli daresti ai giovani che si apprestano alla professione di insegnante di musica?

R.A.: Mi sembra di aver in parte risposto alle domande precedenti: quello su cui mi preme insistere è di consigliare ai giovani di fare una spietata analisi di se stessi e del proprio progetto di vita. Questa esegesi del sé è un processo continuo,  al di là delle conclusioni cui si arriva, è un efficace strumento di autovalutazione e di vita.

Bibliografia di riferimento

Albarea, R., Sostenibilità narrativa e dinamiche relazionali nei processi formativi. Un terreno di costruzione di significati condivisi, Orientamenti pedagogici, vol. 58, n. 1 (343), 2011, pp. 9-22.

Foucault, M. (1998), L’etica della cura di sé come pratica della libertà in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, 1978-1985, vol. III, a cura di A. Pandolfi, Milano, Feltrinelli, pp. 273-294 (Paris, 1994).

Magris, C. (1999), Utopia e disincanto. Saggi 1974-1998, Prefazione di Pier Vincenzo Mengaldo, Milano, Garzanti.

Bruner, J. (1970), Il conoscere. Saggi per la mano sinistra, trad. it. di M. Manno, Roma, Armando, (ediz. orig. On Knowing. Essays for the Left Hand, Cambridge, Mass, Harvard University Press, 1962).

Albarea, R., La formazione degli insegnanti (a cura con L. Zanuttini), Udine, Forum, 1996.

Bertin G.M., Educazione cambiamento, Firenze, La Nuova Italia, 1976.

Eco, U. (2002), Le sporcizie della forma, in Eco, U., Sulla letteratura, Milano, Bompiani, pp. 215-226.

Vedi anche: Albarea, R. Creatività sostenibile: uno stile educativo,  Pedagogia oggi, Rivista SIPED, n. 1 2018

Musicheria: Roberto Albarea è stato insegnante elementare, direttore didattico, Ordinario di Pedagogia Generale e Sociale all’Università degli Studi di Udine e ora è docente presso lo IUSVE (Istituto Universitario Salesiano) di Venezia. È autore di monografie, saggi ed articoli, apparsi in edizioni e riviste nazionali e internazionali riguardanti la filosofia dell’educazione, l’educazione estetica e musicale, la pedagogia della sostenibilità. In campo musicale si segnalano il contributo “Pedagogia della musica: individuazione del campo, problemi e prospettive” nel volume “Pedagogia della musica: un panorama” (a cura di Mario Piatti, Clueb, Bologna, 1993, pp. 37-60) e il saggio “Scuola primaria e educazione musicale in Europa. Comparazione di curricola e implicazioni interculturali” (FrancoAngeli, 1996).
Nel tuo libro “Tenersi nell’instabile. Una autobiografia professionale” (ETS, 2017, pag. 79) scrivi: «Un educatore che ha familiarità con la musica possiede una certa sensibilità che va oltre il campo dei concetti e delle argomentazioni (pur comprendendoli): una sensibilità che lo porta ad intuire l’umano recondito che c’è in ciascuno, oltre le apparenze, uno sguardo vero l’altrove che alberga nell’interiorità delle persone. Anche nel mio caso (a seguito dei miei studi di musica e di pianoforte) questa condizione sensibile è percepita nelle relazioni educative che nascono nell’attività di docente».
Ritieni quindi fondamentale per ogni educatore anche una buona formazione musicale?

Roberto Albarea: Ritengo, come è stato  citato dal mio libro,  che una certa competenza e sensibilità in campo musicale aiuti a creare la relazione educativa (fondativa di ogni comunicazione interpersonale significativa e produttiva ), essa aiuta a comprendere meglio le persone, senza giudicarle, a entrare in sintonia con loro, ad accompagnarle nel loro progetto di crescita; ma c’è anche da dire che questo atteggiamento, questa predisposizione è utile anche alla identità e preparazione del docente: l’obiettivo sarebbe, alla fin fine, quello di superare la dicotomia allievo/docente per diventare persone che coltivano un’amicizia differenziata: è quello che è  successo a me (continuo infatti ad incontrare ex allievi, studenti e laureandi e, in taluni casi,  a progettare qualcosa insieme).
Ma si deve anche aggiungere che nella vita, occorre, anche e soprattutto, saper perdere. Un educatore è sempre colui che deve saper perdere amorevolmente. Un educatore attraversa la strada della perdita e dello smarrimento e deve saper convivere con le contraddizioni dell’esistenza, lavorando sull’antinomia utopia e disincanto (Magris, 1999) per tramutarle in potenziale di crescita e di ascolto, anche paradossale. Al di là dei trionfi e dei successi conclamati, alla fine, il fine dell’essere umano sta nel saper imparare a vivere, saper ben condursi, come diceva Seneca nel De brevitate vitae (Seneca, 7, 3, 1994, p. 311); forse è questo il vero e più intenso significato di competenza oggi così diffuso e altrimenti standardizzato dalla cultura statunitense del Management?
Quello che voglio chiarire è che non c’entra tanto la competenza tecnica del fare musica, quella sarebbe secondaria,  quello che conta è che la musica, produce un afflato, una capacità di ascolto dell’altro che aiuta e diventa un “tasto” in più della relazione educativa.

M.: Nel tuo saggio “Questioni di pedagogia musicale” (che alleghiamo come e-book) ritieni che, in particolare nell’ambito dell’ascolto, «la formazione di un atteggiamento di ricerca nei confronti del contesto sonoro e di parametri di riferimento dinamici e critici sono gli obiettivi che ogni pedagogia musicale deve sapersi permettere». Come ritieni che nell’attuale contesto socio-culturale i ragazzi e i giovani possano sviluppare un ascolto consapevole, non solo in ambito musicale ma in genere nei rapporti sociali?

R.A.:Tutto sta nel costruire una efficace e “amorevole” relazione educativa.
La relazione educativa, sostenibile e dialogante, si presenta non tanto come una mera giustapposizione di persone, processi ed interventi, bensì come una interdipendenza dialettica, critica, ed empatica di assunzioni e prese di posizione (assunzioni di valore, criteri di gestione di contesti, aspettative e vissuti, stati affettivi, pratiche di intervento, scelte ed opzioni) che rimandano le une alle altre, costituendo un tutto organico, dinamico, ma talvolta instabile, mai concluso ed eppur stimolante verso passi successivi (Albarea, 2011, p. 19).
Sono giochi strategici tra le libertà, quella dell’educatore e quella dell’educando, in cui si articola, si esprime e si snoda l’autorità dell’educatore.
Nella gestione della relazione educativa (che è una interpretazione dell’essere umano) questa condizione permette una serie di mosse (le tecnologie di governo, secondo Foucault), sia da una parte che dall’altra, giochi strategici che possono, paradossalmente, aiutare il dialogo e l’incontro con le differenze, culturali, sociali e individuali, perché l’interpretazione permette di porsi da molteplici punti di vista.
La relazione educativa è una relazione asimmetrica, è una relazione di potere. C’è come una sorta di antinomia pedagogica tra tecnologia del sé (che Foucault chiama anche esegesi del sé, e che Papa Francesco denomina ermeneutica interiore, ripresa da S. Ignazio di Loyola) e la relazione educativa. Questa relazione asimmetrica tra educatore ed educando, è una espressione di potere (espressione legittima, a certe condizioni), la quale per non diventare stato di dominio (negativo) deve accettare i giochi strategici fra le varie libertà. Vi viene coinvolta l’autoformazione dell’educatore.
Non mi dilungo oltre su questo tema oltremodo complesso, basta dire che il mio ultimo libro si intitola Correspondances (dal famoso sonetto di Baudelaire): nel libro sono illustrate le diverse modalità di entrare in corrispondenza con le persone; questo richiede una severa e spassionata analisi di se stessi, di esegesi del sé; questa capacità dell’educatore di fare esegesi del sé è una leva formidabile nel costruire la relazione educativa, evitando  inutili “spocchiosità” e autoadulazioni, portando avanti i propri valori di riferimento in modo critico e cercando gestire l’incertezza insieme agli altri. In altre parole non si fa ricerca solo nel contesto sonoro plurimo ma anche su se stessi, cioè nella misura in cui si è disposti a fare esegesi del sé si facilita  la propensione a riflettere da più punti di vista intorno al campo musicale. E’ quello che ho definito come trasversalità formativa.

M.: Sempre in “Tenersi nell’instabile” presenti la “creatività sostenibile” come “dimensione per lo stile educativo e per l’esegesi del sé”. Cosa intendi per “creatività sostenibile”? Questo concetto può essere utile anche per chi si occupa di educazione musicale?

R.A.: La creatività sostenibile è una antinomia: da un lato c’è la creatività, cioè l’apertura e la ricerca, dall’altro c’è il senso della misura: una sorta di umiltà del ricercatore e del creatore.
Ciò che è importante,  a mio parere, è il senso dell’equilibrio tra questi due poli oppostI: insomma  essere né troppo prudenti né troppo esaltati: è per questo che occorre l’esegesi del sé.
Il discorso riporta così alle antinomie del vivere e alla loro testimonianza in modo da  avviarsi ad una corrispondenza tra esegesi del sé e relazione educativa. Come si attua questa corrispondenza? Attraverso la testimonianza di sé, ovviamente ma anche facendo appello alla propria creatività. Jerome Bruner si è occupato di questo importante aspetto della creatività e dei suoi riflessi sull’insegnamento. Pensiero creativo e attività creativa, secondo Bruner, sono caratterizzati da un procedere antinomico e paradossale, sia in rapporto all’arte che in rapporto alla scienza (Bruner, 1970).
Le principali antinomie enunciate da Bruner sono: distacco e impegno (immersione e distanziazione),  passione e decoro (che può essere inteso come impulso creativo, coinvolgimento emotivo, ed equilibrio personale), libertà di essere dominati e di dominare l’oggetto della conoscenza (anche in rapporto alle persone con cui si viene in contatto: le persone possono essere ‘oggetto’ di conoscenza),  autonomia/dipendenza (che introduce ai modi con cui l’individuo creativo vive, sa gestire e fa evolvere la propria dipendenza: dagli altri, dalle cose, dagli avvenimenti), dilazione e immediatezza, dramma interiore (cioè capacità di far coesistere i numerosi tratti distintivi della propria personalità talvolta in conflitto tra loro e, quindi, gestire e sopportare le contraddizioni che possono essere rivelarsi positive).
Se ne possono enumerare altre in rapporto al pensiero convergente e al pensiero divergente (Albarea, 1996, p. 21 con L. Zanuttini): persistenza e tenacia da una parte, capacità e disponibilità al cambiamento dall’altra, competenza culturale e invenzione produttiva; tradizione e innovazione, consonanza e dissonanza (in musica), coerenza e contraddizione, sicurezza acquisita e insicurezza della scoperta. C’è la presenza di elementi di aggancio con la tradizione, con il passato, con la propria storia personale, e di una dimensione di avventura, di situazione “in bilico”, per non incorrere nel dogmatismo,  ma  anche  nel  superficiale,  nello  stravagante, nel  bizzarro, nell’anticonformismo ad ogni costo.
Bruner ricorda come l’intelligenza umana non proceda esclusivamente in maniera analitica o per segmenti, ma possa anche costruirsi per unità complessive e totali. Il primo modo è quello detto anche «digitale» o discontinuo, caratterizzato da una sequenzialità procedurale rigorosa («mano destra»); il secondo modo è quello detto «analogico» o continuo, che si apre agli orizzonti dell’intuizione, della fantasia e dell’arte e che utilizza come forme proprie la sorpresa produttiva, il mito, la metafora («mano sinistra»).
Nella relazione educativa sono perciò importanti non solo le significazioni esplicite, ma anche, e forse di più, quelle implicite, allusive, in una dialettica di detto/non detto che corrisponde, da ambedue i poli della relazione, ad un  tentativo di esplorazione di un territorio sconosciuto: questo territorio (la relazione) viene esplorato cercando di costruire degli “appoggi” che permettano di tentare incursioni verso ciò che è “diverso” e non conosciuto,  e recepire il nuovo, l’inaspettato. Perché: se ci sono troppi punti di stabilità si incorre nella staticità, nel “già detto”, nella immobilità, nella noia, nella stagnazione (non c’è alcuna tensione che sprona); se gli appoggi sono troppo pochi, ecco prevalere un senso di smarrimento, un eccesso di mobilità, un senso di inadeguatezza, di incapacità a riflettere su se stessi e sull’oggetto della nostra attenzione.
Da ciò si evince che si è educatori sostenibili senza esserlo troppo, accettando il proprio ruolo (di potere e di autorità, ma non di dominio, come dice Michel Foucault) senza controllarlo completamente, lasciando spazi alle incongruenze, alle improvvisazioni, alle zeppe (Eco, 2002), senza pianificare troppo, come una improvvisazione che si basa su una solida competenza. Solo chi è competente si può permettere di improvvisare consapevolmente.
Infatti, cos’è questa sostenibilità interpersonale se non una lezione di umiltà, di curiosità, di rigore interiore, di gioia del conoscere, di accettazione dei propri limiti per guardare oltre? Solo in questo modo si realizza  una non narcisistica esegesi del sé. Da questo punto di vista, essa è inquietudine formativa che può presentarsi come un «focolaio di esperienza» (seguendo Michel Foucault), come luogo dove fare, nella contemporaneità, «pratica di sé», la quale rende perseguibile lo studio dei modi di esistenza virtuali per dei soggetti possibili, il centro è l’individuo in quanto allo stesso tempo risultato ed agente di una varietà di processi di soggettivazione.
Alla base di ciò per l’educatore  esiste sempre  l’esercizio di pratiche di sensibilità, compresa la gentilezza dei costumi, come disse a suo tempo Giovanni Maria Bertin (1976, pp. 38-39) che  possa portare l’essere umano ad una riscoperta e riaffermazione del valore della cortesia,  della gentilezza d’animo, della disponibilità e della comprensione.
Infine occorre lavorare sul secondo divario digitale, l’effetto San Matteo, in modo che le nozioni e le conoscenze apprese e incorporate attraverso varie fonti (studio, esperienza, circolarità dei linguaggi, ecc.) diventino criteri di orientamento e quindi l’alfabetizzazione informatica, la Digital Education e la Digital Wisdom vadano ad innestarsi sull’educazione precedente. Ciò porta ad allontanarsi sia da posizioni apocalittiche di rifiuto della tecnologia sia da aprioristiche esaltanti accettazioni. Infine, perché no?, aprirsi verso la serendipity.
Lo stile educativo della creatività sostenibile aiuta ad indagare quello che non si è pensato o programmato (l’improvvisazione dell’educatore competente, di cui si diceva). Si tratta di un atteggiamento e di un avvio di un processo intrapresi con altri scopi ma che possono condurre a conseguenze inaspettate.
Di fronte a tutto questo c’è la credibilità dell’educatore che si sostanzia nella sua pratica di testimonianza.
Un educatore lontano da ogni delirio di onnipotenza, gentile e creativo, comprensivo e rigoroso, avventuroso e cauto, che sulle debolezze consce dell’umano costruisce la propria forza. Una forza continuamente riconquistata, in tensione, che fa della coscienza dei propri limiti, del lavoro e dello scavo su se stessi un progetto di impegno, di ascolto, di dialogo, di costruzione di futuri alternativi credibili. Il veicolo di irradiazione è sempre la relazione educativa:  potrà essere uno sguardo, un gesto, una parola, segni impercettibili (micro-segni dell’anima) che si registrano nell’esperienza dell’incontro, oppure potrà essere una testimonianza più visibile, una condivisione concreta, un atto di dedizione, un rischio che vale la pena di correre.

M.: In base ai tuoi studi musicali giovanili e al tuo fare musica ancora oggi e come pedagogista attivo nel campo della formazione, quali consigli daresti ai giovani che si apprestano alla professione di insegnante di musica?

R.A.: Mi sembra di aver in parte risposto alle domande precedenti: quello su cui mi preme insistere è di consigliare ai giovani di fare una spietata analisi di se stessi e del proprio progetto di vita. Questa esegesi del sé è un processo continuo,  al di là delle conclusioni cui si arriva, è un efficace strumento di autovalutazione e di vita.

Bibliografia di riferimento

Albarea, R., Sostenibilità narrativa e dinamiche relazionali nei processi formativi. Un terreno di costruzione di significati condivisi, Orientamenti pedagogici, vol. 58, n. 1 (343), 2011, pp. 9-22.

Foucault, M. (1998), L’etica della cura di sé come pratica della libertà in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, 1978-1985, vol. III, a cura di A. Pandolfi, Milano, Feltrinelli, pp. 273-294 (Paris, 1994).

Magris, C. (1999), Utopia e disincanto. Saggi 1974-1998, Prefazione di Pier Vincenzo Mengaldo, Milano, Garzanti.

Bruner, J. (1970), Il conoscere. Saggi per la mano sinistra, trad. it. di M. Manno, Roma, Armando, (ediz. orig. On Knowing. Essays for the Left Hand, Cambridge, Mass, Harvard University Press, 1962).

Albarea, R., La formazione degli insegnanti (a cura con L. Zanuttini), Udine, Forum, 1996.

Bertin G.M., Educazione cambiamento, Firenze, La Nuova Italia, 1976.

Eco, U. (2002), Le sporcizie della forma, in Eco, U., Sulla letteratura, Milano, Bompiani, pp. 215-226.

Vedi anche: Albarea, R. Creatività sostenibile: uno stile educativo,  Pedagogia oggi, Rivista SIPED, n. 1 2018

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